conversazione 9 GENNAIO 2004 SUL TEMA:

PRODUTTIVITÀ NELL’IMPRESA: un’analisi critica

Relatore: dott. PIETRO BONAZZA

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Argomenti:

1)      Definizioni per la macroeconomia. Rapporti con: grado di meccanizzazione, intensità di capitale, clup,  rendimenti e occupazione

2)     Estensione del concetto all’economia d’impresa

3)     Produttività e mercato del lavoro

4)     Produttività e strategia: rapporti puntuali (produttività) e prospettici (strategia)

5)     Produttività nelle imprese produttrici di beni; commerciali; di servizi; bancarie; assicurative

6)     Produttività e valutazioni dell’azienda

7)     La produttività degli altri (clienti e affidati) come parametro per stabilire limiti di affidamento

8)     La produttività come spiegazione del successo dell’impresa in analogia con la spiegazione della ricchezza delle nazioni

9)     Conclusioni

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1)    Definizioni per la macroeconomia. Rapporti della produttività con: grado di meccanizzazione, intensità di capitale, rendimenti, clup, occupazione

La macroeconomia fa ampio uso dei concetti di produttività e di altri indicatori a questa collegati.

a) Produttività totale

Si esprime con il rapporto

Produzione

Produttività totale =  ___________ ____

Capitale + Lavoro

Al numeratore è posta la quantità prodotta (Q) di un bene e al denominatore le quantità dei servizi dei fattori produttivi, capitale (K) e lavoro (L), impiegati per realizzare la produzione stessa.

Sergio Ricossa esprime il seguente giudizio critico:

« Produttività totale…per mezzo della quale si cerca di fornire un indice della P. di tutti i fattori nel loro complesso…Si deve concludere, pertanto, che la P. totale non può che recitare una parte modestissima nella teoria economica, e anche nelle applicazioni pratiche va esaminata con cautela, come grossolana indicazione di avvenimenti complessi non ben determinabili in un’unica cifra.»

Più attenuata la critica di Sylos Labini, che, pur negando l’utilità del concetto di produttività marginale, sembra salvare la produttività media.

b) Produttività del lavoro

Il concetto si esprime nel rapporto:

Produzione

Produttività del lavoro =  ____________

Lavoro

Tra numeratore e denominatore di una frazione non vi sono in matematica relazioni causa-effetto, perché sono solo numeri astratti.

In economia possono invece esserci collegamento e relazioni. Per esempio: il “lavoro” che sta al denominatore, da solo (per effetto della propria qualità o professionalità) o per effetti esterni (la qualità del capitale tecnico) finisce per influire in modo: proporzionale o men che proporzionale o più che proporzionale, sul numeratore.

Mettere a rapporto un effetto al numeratore (produzione) e una causa al denominatore (lavoro) rende statico e consuntivo un collegamento invece dinamico, ma i significati espressi da tale indice sono certo più importanti di quelli che nasconde.

c) Produttività del capitale

Analogamente al lavoro, la produttività del capitale si determina con il rapporto:

Produzione

Produttività del capitale  =  ____________

Capitale

Questo indice di produttività raramente può essere un rapporto tra quantità fisiche. Normalmente, sarà, invece, un rapporto tra quantità prodotte e capitale-valore, che assume anche il significato di n° di unità prodotte per ogni unità di valore (lira, euro, dollaro, ecc.). Si rende, allora, necessario precisare che per “capitale” si intende il valore del capitale fisso (immobilizzazioni non finanziarie) desumibile dalla parte “attività” del bilancio di un’impresa, al netto di quote di ammortamento “correttamente” determinate. Si deve anche precisare che l’ammortamento “corretto” può non essere quello di bilancio, spesso influenzato da politiche elastiche e da interferenze fiscali, ma il rischio si attenua o si supera, se si adotta l’ammortamento determinato da una contabilità industriale orientata ai costi. Queste osservazioni varranno per tutte le formule in cui è presente il dato “capitale”.

Si potrebbe proporre di mettere al denominatore, in alcuni casi, le ore macchina, ma dovrebbe trattarsi di macchine completamente automatiche e autonome. Già se richiedessero la presenza di un operatore ci sarebbe promiscuità tra i due fattori e ricadremmo in un caso di produttività totale. Inoltre, si potrebbe considerare che il risultato di un rapporto produzione/n° ore macchina, che indica anche il numero di unità prodotte effettivamente per ogni ora di impiego della macchina, potrebbe essere messo a confronto con il dato teorico fornito dal costruttore, ma, allora, ricadremmo nell’analisi dei rendimenti.

Questa variante risulta in pratica di difficile applicazione. Invece, trova normale impiego nell’ammortamento della immobilizzazione “discarica” nelle imprese di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, che ottengono autorizzazioni della Regione per un quantitativo o una cubatura già predeterminati al momento del rilascio, così rendendo possibile determinare gli ammortamenti di ogni singolo esercizio secondo le quantità o i volumi smaltiti rispetto al totale autorizzato.

d) Grado di meccanizzazione

Secondo L. Pasinetti il rapporto:

Capitale

________

Lavoro

esprime il “grado di meccanizzazione”, per altri il rapporto misura, invece l’intensità di capitale, cioè il capitale per lavoratore.

Se al numeratore è indicato il totale degli asset in immobilizzazioni e al denominatore il n° dei dipendenti, l’indice fornisce il dato del valore del capitale fisso che l’organizzazione mette a disposizione a ogni dipendente. Il collegamento con la produttività è evidente: maggiore è il grado di meccanizzazione, più alta può essere la produttività del lavoro. Però il dato può diventare ingannevole, perché, se il grado di meccanizzazione è alto al completamento di un ciclo di investimenti, poi, una volta a regime, se al numeratore si mette il valore monetario, il grado può diminuire per effetto degli ammortamenti, che, in ogni esercizio, riducono il netto del capitale.

Mentre il grado di meccanizzazione diminuisce per effetto degli ammortamenti, ciononostante la produttività può crescere, anziché diminuire, perché i dipendenti possono diventare più esperti nell’impiego dei nuovi macchinari e attrezzature, secondo il principio del learnig by doing. Quindi, tra grado di meccanizzazione e produttività esistono certamente dei collegamenti, ma non sono: né univoci, né unidirezionali e bisogna fare attenzione al momento in cui avviene la rilevazione, portando in evidenza i tempi in cui il ciclo degli investimenti si sta svolgendo.

Introduciamo alcune ipotesi, partendo dal grado di meccanizzazione:

a)        se il capitale aumenta (numeratore) più del lavoro (denominatore) vuol dire che il grado di meccanizzazione aumenta. Al limite, in un’industria completamente automatizzata il lavoro sparisce l’output ed è tutto merito del capitale;

b)       se il grado di meccanizzazione aumenta, dovrebbe aumentare anche la produttività del lavoro, almeno in un lasso di tempo più o meno lungo. Ma qui si pone il problema focale, perché il grado di meccanizzazione ha il lavoro al denominatore. Ora, se diciamo che il grado di meccanizzazione è aumentato, non è sufficiente  per trarre conclusioni, perché potrebbero essersi verificate situazioni diverse (cause), di cui si portano tre esempi:

i)                  il capitale è aumentato, ma è aumentato anche il lavoro al denominatore, però in proporzione minore;

ii)               il capitale è aumentato e il lavoro è rimasto fermo;

iii)             il capitale è rimasto fermo, ma il lavoro è diminuito (tagli di personale nel tentativo di risanamento di un’impresa in difficoltà).

e) Intensità di capitale

Vi sono autori che intendono intensità di capitale con il rapporto

Capitale

___________

Produzione

che esprime la quota di capitale assorbita da ogni unità prodotta, mentre per altri, come abbiamo visto, è il grado di meccanizzazione. Assumiamo l’espressione dei primi e osserviamo che il rapporto è l’inverso della produttività del capitale, come è intuitivo.

Osserviamo anche che, se aumenta l’intensità di capitale mentre la produttività del lavoro resta ferma, il rapporto Capitale/Lavoro o grado di meccanizzazione è aumentato. Ma questo non è un risultato positivo. Positivo è se il rapporto diminuisce, perché significa che, a pari grado di meccanizzazione, è aumentata la produttività del lavoro, cioè la quantità prodotta pro-capite o per ora lavorata. Questa constatazione deve essere comunque collegata allo stadio di avanzamento del processo di meccanizzazione, perché, se si è nella fase di avvio o recente, può non aver ancora influenzato la produttività del lavoro.

Per esprimere i collegamenti tra produttività del lavoro e intensità di capitale, con alcune elaborazioni si può scrivere:

Produzione      Capitale

Produttività del lavoro =  __________   .  ________= produttività del capitale . grado di meccanizzazione

Capitale          Lavoro

Si può considerare che:

a)     se restano fermi capitale e produzione, vuol dire che la produttività del capitale resta ferma. Allora,  fermo il capitale, il lavoro:

§ se diminuisce, fa aumentare la produttività del lavoro;

§ se aumenta, fa diminuire la produttività del lavoro;

b)    se la produzione resta ferma, ma diminuisce il capitale, allora la produttività del capitale aumenta, ma il lavoro, a sua volta:

§ se resta fermo, lascia invariata la produttività finale del lavoro;

§ se  diminuisce fa aumentare la produttività del lavoro

Queste considerazioni possono risultare algebricamente tautologiche, ma la scissione della produttività del lavoro nei suoi due fattori componenti di produttività e di intensità del capitale consente di apprezzare meglio che la produttività del lavoro è una risultante complessa, in cui il capitale, non visibile nella formula sintetica, ha una funzione determinante.

g) Clup

Un indice rilevante per il paragone tra economie è il rapporto:

Valore totale del costo del lavoro

____________________________

quantità prodotta di beni o servizi

L’indice segnala l’incidenza del costo del lavoro su ogni unità di prodotto ottenuto. Poiché il lavoro rappresenta normalmente una quota elevata del costo totale del prodotto, più alto è il CLUP di una economia e più problematica diventa la competitività del prodotto stesso sui mercati interni e internazionali.  Per aumentare la propria competitività un’economia o riduce il numeratore, ma deve scontrarsi con le reazioni sindacali, oppure aumenta il denominatore. Ma per aumentare il denominatore si deve, normalmente, incrementare la produttività; da qui lo stretto collegamento tra CLUP e produttività.

L’indice, se impiegato in macroeconomia per decisioni di politica economica, è utile anche nelle singole imprese, soprattutto quando si pone a raffronto il dato interno con una serie storica della stessa impresa e con il dato di settore, a cui l’impresa appartiene. Per esempio, un’analisi del CLUP tra l’impresa Alfa e il concorrente Beta può essere di notevole importanza nel delineare una strategia di espansione sui mercati.

Si può ottenere la riduzione del Clup anche quando la dinamica salariale (numeratore) è più lenta del tasso di inflazione. La percezione del fenomeno non è né diretta, né immediata. Se l’inflazione è più elevata. Se l’inflazione è più elevata ed entro certi limiti è governabile, allora si può avere un effetto negativo sul cambio (svalutazione), che agevola ancor più le esportazioni, perché il Clup domestico risulterà inferiore a quello estero (pesi importatori). Ma è un fenomeno tutto da verificare, soprattutto se c’è una moneta unica (Euro) o una moneta agganciata a un’altra a cambio fisso (Cina con il $).

h) rendimento

Una corretta espressione del concetto di rendimento è il rapporto:

produttività effettiva

___________________

produttività teorica

L’analisi dei rendimenti riserva difficoltà, innanzi tutto perché la base teorica è di difficile determinazione. Se si fa l’esempio dell’impegno della capacità produttiva, già si deve fare la scelta se al denominatore si pone la misura astratta (100%) o quella concretamente probabile (per esempio: 80%, perché nessuno è in grado di sfruttare la capacità al 100%, nemmeno se adotta la “qualità totale” o fa manutenzioni preventive o mantiene in magazzino parti di ricambio doppie per ogni evenienza). Scelta la base, l’indice ha utilità come obiettivo da raggiungere oltre che rilevazione di un dato consuntivo. Il raffronto tra il dato “obiettivo” e il dato “consuntivo” consente di stabilire il percorso di incremento ancora da conseguire.

i) occupazione

Sembra intuitivo che l’incremento di produttività comporti una perdita di posti di lavoro. Ma non è così, forse nemmeno nel caso in cui l’incremento di produttività sia ottenuto mantenendo ferma la produzione e riducendo il fattore lavoro, riduzione talvolta ottenuta con investimenti labour saving. Se accadesse, si tratterebbe in genere di disoccupazione frizionale e non strutturale. Sostiene Gary Becker, premio Nobel per l’economia 1992: « Mi pare che la ripresa sia davvero solida. Soprattutto quando si guarda alla straordinaria marcia della produttività, dalla metà degli anni 90 e anche subito dopo la recessione. La produttività è una misura essenziale del benessere del Paese e appare in carreggiata per una protratta crescita. Voglio smentire, inoltre, legami troppo stretti tra produttività e perdita di posti di lavoro: nel lungo periodo, la crescita di entrambi questi fattori avviene in parallelo, come negli anni 90. Né temo l’emorragia di posti di lavoro manifatturieri: questo declino è in corso dagli anni 60, è una tendenza di lungo periodo a vantaggio dei servizi. E quando parlo di servizi non mi riferisco ai fast food, ma di posti di lavoro qualificati, di software, computer, biotecnologie, finanza….».

Non diversa è la posizione dell’economista americano W.J. Baumol, che in Productivity and american leadership“, afferma a pag. 15 afferma: « …Primo, siamo consapevoli che gli incrementi rapidi nella produttività del lavoro (l’adozione di metodi risparmia-lavoro) sopprimeranno posti di lavoro, anche nel lungo termine. Secondo, e forse piuttosto infondatamente, si deduce che se la crescita della produttività di un’economia resta indietro rispetto a quella di altri paesi, perderà occupazione rispetto ai lavoratori stranieri, la sua industria ne soffrirà, e la sua bilancia dei pagamenti sarà soggetta a deficit cronici (queste ultime presunte conseguenze dei divari di produttività sono talvolta ricondotte alla “deindustrializzazione”). Come vedremo in seguito, i dati non confermano alcuna di queste conclusioni…».

2)    Estensione del concetto all’economia d’impresa

Il concetto di produttività riguarda un rapporto tra quantità fisiche (per esempio: per la produttività del lavoro, produzione in senso materiale e n° di ore di lavoro), ma nella macroeconomia in molti casi e anche nella microeconomia non è possibile un raffronto tra quantità unicamente fisiche, perché l’aggregazione dei dati settoriali impone il ricorso a valori monetari (per esempio: al numeratore la produzione potrebbe essere espressa solo in termini monetari, mentre al denominatore potrebbe essere disponibile il numero delle ore lavorate nell’anno da tutti i lavoratori). Ma il concetto di produttività è comunque sempre lo stesso.

Per l’economia d’azienda la produttività è, come in macroeconomia, l’indice rappresentato dal rapporto tra prodotto ottenuto nel periodo al numeratore e quantità di fattore della produzione al denominatore. Poiché la produttività è generalmente riferita al lavoro, essa, in concreto, è pari al rapporto tra quantità prodotta e numero di ore lavorate. Si osserva che la semplicità è apparente, perché si pongono subito problemi di scelta di non facile soluzione per le imprese multiprodotto – e sono la grande maggioranza – poiché, trattandosi di un indice di quantità fisiche privo del velo monetario equalizzatore, ma anche ingannevole, bisogna ridurre tutto l’output a un unico prodotto virtuale e su questo punto le soluzioni variano da impresa a impresa. Per esempio, in una industria siderurgica che produce laminati ferrosi o non ferrosi, diversi solo per diametro, è facile ridurre tutto a un unico prodotto sommando le varie quantità fisiche prodotte, ma in un’industria automobilistica, che produce vari modelli diversi per fascia (utilitaria, media e alta) è necessario disporre di analisi interne, che stabiliscano i rapporti di conversione dei modelli a un unico modello base. Per esempio: l’automobile media è 1,8 l’utilitaria e il modello “alto” 2,5 l’utilitaria. Queste conversioni sono tutt’altro che facili per le imprese che non dispongano da un sistema contabile di analisi dei costi adeguato. Ma anche per il denominatore non mancano le difficoltà. Già la scelta tra addetti e numero di ore implica analisi di opportunità; inoltre, si deve scegliere tra tutti i lavoratori o le ore lavorate dagli stessi e i soli produttivi.

Non sono certo difficoltà insuperabili e le imprese, che hanno sistemi di rilevazione avanzati, hanno risolto i relativi problemi, sicché la produttività diventa un dato utile e se vi sono scelte discutibili è importante che l’impresa mantenga nel tempo il criterio scelto, perché il paragone nel tempo tra i dati di produttività avvenga sempre su basi omogenee.

Però, vi sono casi in cui la produttività del lavoro è un dato privo di significato e si tratta di quei settori a intensità di capitale elevata spesso abbinata a caratteristiche tecnologiche, che determinano un rapporto fisso nel tempo tra lavoro e capitale, talché l’output, una volta completato l’investimento, può variare in modo del tutto disgiunto dall’impiego di lavoro. Per esempio: un’impresa che costruisce e gestisce un oleodotto o una rete di distribuzione del gas, un elettrodotto o una rete di trasmissione o distribuzione di media-bassa tensione, non possono certo calcolare la produttività del lavoro in relazione ai chilometri di rete, che una volta fatta è fissa, e nemmeno calcolare la produttività in relazione ai m3 di gas trasmesso o di chilowattora transitati in rete, che non hanno alcun rapporto con il lavoro impiegato.

Ma è necessaria un’altra precisazione. Spesso la produttività è confusa con il rendimento e i due indici sono trattati come sinonimi. Molti autori riferiscono il rendimento soltanto a fenomeni finanziari (il rendimento di un titolo, ecc.). Ma il rendimento, diversamente dalla produttività, non è un rapporto tra outputinput; invece, è il rapporto tra produttività effettiva e una teorica. Per esempio, in astratto si può ottenere una produttività del 4% rispetto a una teorica o posta come obiettivo di 5. Il rendimento è 4/5. Ancora, si sa che gli impianti sono sfruttabili a livello ottimale all’80%, mentre nell’anno x si è impegnato solo il 60%; il rendimento è stato di 6/8.

Vari sono i vantaggi dell’analisi dei rendimenti, ma il più importante è la determinazione del grado di utilizzazione della capacità produttiva. Ciò significa che, in caso di sottoutilizzazione, si deve indagare se tale fenomeno dipende da cause interne (per esempio disorganizzazione) o da cause esterne (andamento del ciclo economico generale o di settore). Il risultato dell’analisi si collega direttamente alla “strategia dell’impresa”. Per esempio: è generalmente controproducente avviare una strategia di investimenti in presenza di sottoutilizzazione della capacità produttiva, che, senza migliorare la produzione, può invece produrre solo tensioni finanziarie. Si può anche considerare che l’analisi dei rendimenti collegata al grado di utilizzazione della capacità produttiva è utile nella scelta del terzo turno di lavoro

Dagli esempi della tabella che segue si possono dedurre alcune considerazioni.

Fattore produzione

Tempo 1

Tempo 2

 

Capitale

 

100

Ipotesi i

Ipotesi  ii

Ipotesi  iii

120

120

100

Lavoro

200

205

200

180

Produzione

3.000

3.000*

3.000**

3.000

Produttività Lavoro

15

14,63

15

16,67

Produttività Capitale

30

25

25

30

Intensità Capitale

0,0333

0,04

0,04

0,0333

Grado Meccanizzazione

0,5

0,585

0,6

0,556

Si noti che è stata posta la condizione che la produzione sia rimasta ferma a 3.000. Pertanto:

§ l’ipotesi i), se la produzione è rimasta ferma, denota un fallimento della strategia adottata;

§ anche l’ipotesi ii), se la produzione è rimasta ferma denota un fallimento della strategia adottata;

§ l’ipotesi iii), se la produttività del lavoro è aumentata, in una certa misura conferma il collegamento tra grado di meccanizzazione e produttività del lavoro. Tuttavia, non rivela se l’incremento della produttività del lavoro è stato adeguato alla strategia; per questa verifica occorre conoscere ilbusiness plan e l’analisi degli scostamenti rispetto all’obiettivo.

3)    Produttività e mercato del lavoro

Tutti i fattori della produzione sono tra di loro complementari e agiscono in rapporto dialettico (anche se appartengono allo stesso soggetto, che deve sempre operare in una simulazione what if, sensitività), se non addirittura di contrasto.

Si ha crescita economica solo se esiste una dialettica equilibrata tra i fattori, talché nessuno sopprima l’altro nel processo distributivo, che è la ripartizione dell’output. Se un fattore viene lasciato senza o inadeguata remunerazione, esso va perduto con danno anche per gli altri.

Ora, la dialettica può essere lasciata al libero gioco del mercato oppure con intervento delle istituzioni (ai due estremi c’è lo stato minimo di Nozick o lo stato impiccione dei dirigisti). Si hanno le soluzioni intermedie all’italiana e la concertazione. Ma non si ha crescita senza sviluppo dei sistemi istituzionali, cioè senza sviluppo della democrazia. Si ricordi che per qualcuno la concertazione è un dimostrazione di maturità democratica. È questa constatazione che rende quell’istituto tanto caro all’attuale Presidente della repubblica

La produttività si presenta come condizione di crescita nel processo produttivo, ma anche come parametro nel processo distributivo, soprattutto tra capitale e lavoro. E proprio su questo punto si sviluppa una questione molto delicata: i rapporti tra produttività del lavoro intesa come  Prodotto/ n° occupati (oppure ore lavorate) e ripartizione del risultato, per il fatto che:

a)     nel prodotto vi sono i meriti anche di altri fattori;

b)    la produttività del lavoro aumenta, se aumenta anche il capitale (tecnico), cioè se consente una riduzione del numero di dipendenti oppure un aumento della produzione a parità di fattore lavoro. Che si tratti di produttività del lavoro è precisazione necessaria, perché, se parlassimo di produttività del capitale, questa diminuirebbe, almeno in un primo tempo, all’aumento dell’impiego di capitale.

Quindi, nel rapporto vi sono anche variabili esterne allo stesso. Scrivono P. Samuelson-W. Nordhaus: «Circa 1/3 della crescita del prodotto degli Stati Uniti può essere attribuito alla crescita del lavoro e del capitale. I rimanenti 2/3 sono il residuo che può essere attribuito all’istruzione, all’innovazione, alle economie di scala, ai progressi scientifici e ad altri fattori.»

La contrapposizione tra produzione e distribuzione è uno degli errori o dei pericoli nella scienza economica. Il processo economico è uno solo e, ovviamente, è tutto intero e non scindibile in momenti, né in fasi. Mentre si produce, si consuma e, se il consumo (cioè la domanda) cala durante il processo produttivo, ecco che l’imprenditore è costretto a tenerne conto, secondo le sue capacità di analisi e di previsione. La distribuzione è distribuzione di reddito, cioè di ricchezza novella prodotta, perché se fosse di capitale potrebbe comportare inaridimento della fonte di produzione. Il problema della distribuzione implica, necessariamente prima della sua conclusione, uno sviluppo dialettico. Non esiste un’equa distribuzione, perché l’aggettivo “equo” è metafisico. Se si vuol essere concreti, si deve affermare che la distribuzione è dialettica. Semmai, si deve porre l’ipotesi che la dialettica della distribuzione deve creare il minor disordine possibile, se si sviluppa all’interno di regole generali predeterminate, in uno schema istituzionale impositivo seppur democratico, come si osserva per il diritto di sciopero nel settore dei pubblici servizi.

Pertanto, posto che la distribuzione avviene secondo regole storicamente assestate (per esempio: il salario base o il salario minimo), si deve considerare che la distribuzione, intesa come valore cumulativo, è composta di due parti: a) la base o ripartizione del reddito, normalmente secondo riferimenti passati (i contratti collettivi vengono fatti ogni tot anni e finché non ne interviene uno nuovo, valgono le regole del precedente); b) la ripartizione dell’incremento rispetto alla base di riferimento.

Ora, si può ritenere che in termini diretti o indiretti, impliciti o espliciti, la parte b) può essere collegata all’andamento della produttività, poiché si ritiene che la produttività si traduca mediatamente in redditività, per cui un suo incremento si può determinare incremento di reddito.

Ciò posto, si deve considerare che la produttività diventa un criterio per la ripartizione del maggior reddito e la dialettica per la ripartizione pone, generalmente, una valutazione di meritevolezza. Ovviamente i sindacati tenderanno ad affermare che il merito dell’incremento della produttività è tutto del fattore “Lavoro”, mentre l’impresa affermerà il merito del capitale e dell’organizzazione. Ma questa dialettica, se è fatta sulla formula dell’indice di produttività del lavoro  f(x)/x, si sviluppa alla presenza di un interlocutore “muto”, perché l’effetto di incremento di reddito finale non attinge solo alla causa della produttività del lavoro, ma anche alla produttività del capitale, che sta fuori della formula. Né giova tener presente che l’incremento della “redditività” è dovuto all’incremento della “produttività totale”, perché quest’ultimo riferimento per la sua complessità e scarsa affidabilità non aiuta a risolvere il problema. Bisognerebbe comunque conoscere l’apporto parziale (ecco le derivate parziali) delle “produttività settoriali”; ma anche un modello che esprimesse il fenomeno delle componenti non risolverebbe il problema, perché l’incremento della redditività totale non è la somma della redditività parziale derivante dall’incremento della produttività del lavoro + l’incremento della redditività parziale derivante dall’incremento della produttività del capitale. Il fenomeno è sempre unico, “congiunto”, di difficile, se non impossibile, disgiunzione.

Come si è già notato, l’aumento di produttività ha un rapporto causa-effetto con la redditività finale dell’impresa. Da qui la domanda: a chi va il merito? Che poi si traduce in concreto: a chi deve essere attribuita la fetta suppletiva di torta? Perché le medaglie (cioè il riconoscimento del merito) non riempiono lo stomaco nemmeno dell’eroe e ancor meno quello di Stachanov, minatore russo che nel 1935 inventò, si dice – ma forse è una fiaba di regime -, un sistema per aumentare il rendimento del lavoro di estrazione, ma forse più che di rendimenti si trattava di produttività.  Questo problema non è, in astratto, diverso da quello più generale della distribuzione, ma l’impossibilità di applicare in via generalizzata l’indice nazionale a tutti i rapporti di lavoro, nei vari settori di attività, in alcuni del quali, la produttività non è nemmeno misurabile, lascia alle singole imprese l’utilizzo del parametro “produttività” per accordi integrativi o premi di produzione. Nonostante la maggior vicinanza tra lavoratori e singola impresa, sicuramente più accentuata rispetto a quella tra associazioni generali di imprenditori e confederazioni sindacali, non manca la dialettica, che, talvolta arriva allo sciopero aziendale. In un sistema liberal-democratico il “braccio di ferro” è e deve essere lo sport praticabile. In un sistema dirigistico, varrebbe solo la volontà del pianificatore. Ognuna delle due parti: lavoratori e impresa, deve fare i propri calcoli di convenienza e poi si può dire: vinca il migliore! E se il migliore è il più forte, pazienza, l’importante è che vinca il libero mercato. Ciò che invece deve essere scartato, perché inaccettabile sul piano dei principi, è il convincimento che il merito sia solo di una delle parti, mentre il contributo non è solo del lavoro, né solo del capitale. Capitale e lavoro sono non i due corni del problema, ma la complementarità necessaria, come il carburante e il motore: se ne manca uno, il veicolo non si muove. Non risulta che sia stata proposta la soluzione: che l’incremento di reddito, attribuibile alla produttività, sia accantonato in una riserva speciale non distribuibile, se non dopo che ha generato un incremento di occupazione. Non è una proposta, perché le difficoltà di applicazione concreta sono innegabili, ma è una provocazione, un invito a riflettere. Ovviamente si dovrebbero introdurre delle barriere di controllo, affinché non accada che l’effetto positivo dell’incremento di produttività non venga disperso dal “padrone delle ferriere” in speculazioni o in presidenze di squadre di calcio.

4)    Produttività e strategia: rapporti puntuali (produttività) e prospettici (strategia).

I collegamenti tra produttività e strategia richiedono di affiancare immediatamente all’analisi della produttività, quella dell’analisi dei rendimenti e allora bisogna valutare se la produttività è cresciuta in parallelo all’andamento dei rendimenti e qui formulare ipotesi di analisi interna ed esterna, tenendo conto che strategia implica un obiettivo di conquista di un nuovo posizionamento sul mercato. Ma forse si può ipotizzare strategico anche un disegno che si limiti al consolidamento delle posizioni attuali.

Comunque, l’abbinamento produttività e rendimenti è essenziale per la politica della gestione.

In un primo momento, si può distinguere, a tal proposito, un’analisi che si svolge direttamente sui rendimenti e considera autocriticamente cause interne. Per esempio, se si constata che l’impresa ha uno sfruttamento della capacità produttiva del solo 60%, si deve analizzare se la causa risiede nella disorganizzazione interna o nel ciclo economico esterno generale di mercato o di settore. Secondo la risposta che è data, si può considerare che in nessuno dei due casi (ma vi è una eccezione, di cui si dirà) è consigliabile avviare una politica di investimenti. Infatti se la causa è interna, occorre far intervenire l’organizzazione; se è esterna è un grave errore investire quando si possono porre fondate previsioni di permanenza della debolezza del ciclo per un lungo periodo (la strategia vincente è fare investimenti alla vigilia dell’uscita dal tunnel della depressione, per essere pronti nel momento della ripresa, non certo all’inizio di una depressione). L’eccezione di cui si diceva, si ha quando si constata che il basso rendimento non è nella disorganizzazione, ma in una condizione della tecnologia del capitale fisso che impedisca interventi adeguati di riorganizzazione, salvo la sostituzione di capitale fisso con nuovi investimenti. Per esempio: in un impianto siderurgico la parte acciaieria (forni) può essere talmente sconnessa con il resto da creare bottle-neck (colli di bottiglia). In tal caso non resta che procedere a investimenti sostitutivi per recuperare rendimenti e, quindi, incrementare la produttività.

Poi, si deve anche esaminare il rapporto che lega la produttività del lavoro alla produttività del capitale. Innanzi tutto si osserva che una politica di investimenti in capitale fisso peggiora in un primo momento la produttività del capitale, che riprenderà a crescere e a superare la precedente anteinvestimenti dopo che i nuovi capitali fissi saranno entrati a regime.

Analogamente la produttività del lavoro aumenta se si riduce il denominatore, cioè si riduce il lavoro. Ma può aumentare anche senza ridurre il lavoro, quando:

Ø sono effettuati nuovi investimenti in capitali fissi, che consentano al lavoro di esprimere potenzialità non concretizzabili con lo stato precedente. Si tratta di una sinergia capitale-lavoro, che produce un effetto moltiplicativo per la sua efficacia che rende massimo il risultato finale (redditività). Se, però, nonostante i nuovi investimenti, il lavoro non sa esprimere maggiori sinergie, il risultato finale non sarà massimo, ma solo migliore del precedente, però constatando che il merito dell’incremento della produttività globale è solo del capitale. Qui si presenta il problema meritocratico prima esaminato;

Ø quando l’impresa attua una riorganizzazione, per cui vi è un impiego più razionale delle risorse umane esistenti, ottenendo miglior impiego con più motivazione del personale e quindi con miglioramento dell’efficacia;

Ø quando l’impresa fa investimenti in riqualificazione del personale, corsi di formazione ecc.

L’analisi di produttività può, inoltre, essere settoriali nei gruppi. Per esempio, un gruppo o un’impresa unitaria ma organizzata per divisioni operative (ogni divisione, uno stabilimento) può e in molti casi deve rilevare la produttività per singolo stabilimento, soprattutto se la strategia organizzativa difensiva o espansiva si propone di incidere con politiche diversificate stabilimento per stabilimento. Se si prendono i casi Cirio o Parmalat ecc., l’analisi della produttività stabilimento per stabilimento diventa necessaria sia in caso di turnaround e sia nel caso di cessione dei “gioielli di famiglia” o i “gioielli” possono essere unità operative (stabilimenti) ad alta produttività, perché più appetibili da interessati all’acquisto.

Come si è notato la produttività è normalmente un indice consuntivo e ci rivela come sono andate le cose in un certo periodo di tempo trascorso, o meglio, alla chiusura di un certo esercizio. Ma il dato, utile nei rapporti di lavoro e nelle interpretazioni che i manager devono dare alla gestione dell’esercizio sotto esame, può avere utilità anche nelle proiezioni. Dipende dal momento in cui si trova l’intera politica dell’impresa. Se per esempio, il ciclo degli investimenti è compiuto e la complementarità con tutti gli altri asset si è consolidata, almeno dall’esercizio penultimo, è poco probabile che si possa pensare a un’ulteriore crescita. Se, invece, il ciclo degli investimenti è nella sua fase iniziale e la complementarità-omogeneizzazione con gli altri asset è ancora da attuare, è fondato ipotizzare che, a meno di aver fatto scelte di investimenti errate sul piano tecnico, la produttività attuale diX possa diventare DX, con D>1.

Ma si può ipotizzare che la produttività sia innestata in un piano strategico. Per strategia intendo: «…un programma globale elaborato dal “direttivo” (management) con individuazione di fini e di mezzi, implicante una riorganizzazione generale dell’impresa tale che, dopo la realizzazione, in genere nel periodo medio-lungo, questa conseguirà un posizionamento sul mercato, diverso da quello in cui si sarebbe trovata mantenendo lo statu quo ante ». Ora dobbiamo constatare che un’impresa senza strategia è come una nave che va senza avere una meta precisa e, quindi, come navigasse senza carte nautiche e senza bussola: è destinata a un probabile naufragio, se tenta di navigare non in vista della costa, cioè se si distacca dal piccolo cabotaggio. Dobbiamo però prima precisare che il concetto di strategia è qui inteso applicato ai processi produttivi e non a quelli finanziari. Nemmeno una banca ha una strategia unicamente finanziaria! Ma che vuol dire elaborare un piano strategico, in cui si deve porre il target espansivo di un nuovo posizionamento sul mercato? Vuol dire porre, in molti casi (e non dico “tutti”, perché nell’economia d’impresa questo aggettivo sostantivato non esiste!) l’obiettivo della crescita della produttività attuale. Allora, la produttività diventa uno strumento per il raggiungimento dell’obiettivo strategico.

L’analisi della produttività richiede un’ulteriore considerazione della massima importanza e che attiene alla sua corretta interpretazione. Per esempio, se dopo aver aumentato il capitale si osserva una diminuzione della sua produttività, si possono trarre conclusioni errate o prive di significato. Infatti, fermandoci all’espressione puramente algebrica del rapporto e rilevandone la diminuzione per effetto dell’aumento del denominatore, si può dimenticare il tempo necessario all’entrata a regime dei nuovi investimenti. È ovvio che in un primo momento si potrà verificare, in molti casi, una diminuzione dell’indice di produttività, ma la corretta interpretazione non è sul dato puntuale, ma su quello prospettico e qui l’analisi può avvalersi dell’andamento, in parallelo, dell’indice di rendimento, che potrà misurare il trend di avvicinamento dell’utilizzo reale della capacità produttiva altarget teorico. Allora, il vero problema dell’analisi della produttività è il suo rapporto al tempo o al “tempo di reazione”, che al momento della decisione di investimento è stato posto come previsione di entrata a regime. Un piano strategico o un qualsiasi business plan non possono trascurare il tempo di reazione e, successivamente all’investimento, eventuali scostamenti tra la “tabella di marcia” effettiva e quella teorica o programmata: una specie di indice di rendimento del tempo.

A ben vedere il successo di molte imprese e di intere economie si può spiegare proprio con il tempo di reazione ai progetti.

Significativo può essere il caso Pietra, che dopo aver subito ritardi per more burocratiche nella costruzione dello stabilimento di Roncadelle, ha potuto avviare con ritardi la produzione di tubi in acciaio senza saldatura e destinati al mercato americano, ma dopo pochi mesi l’impresa è incappata in uno shock petrolifero, che ha fatto crollare le vendite. Questo non sarebbe avvenuto se i tempi di reazione al progetto fossero stati più brevi.

Sempre nell’ambito della strategia imprenditoriale si può osservare che la risposta a queste domande:

perché si globalizza?

perché si delocalizza?

perché esistono i distretti industriali?

che cosa distingue i settori maturi da quelli hi-tec?

può essere ricondotta all’analisi della produttività, perché si insegue la produttività più alta in un luogo rispetto a un altro a causa di situazioni istituzionali più favorevoli. Questa scelta deve essere però basata su analisi di lungo periodo, perché i costi di spostamento possono essere più alti dei risparmi immediati. In queste analisi un serio “piano industriale” (o come si dice oggi: un business plan) è determinante.

5)    Produttività nelle imprese produttrici di beni; in quelle di servizi; nelle bancarie e assicurative

Ø Nelle imprese produttrici di beni l’indice di produttività si ottiene dal rapporto tra produzione in quantità fisiche al numeratore e, preferibilmente, ore lavorate al denominatore o, talvolta, numero dei dipendenti.

Ø Nelle imprese commerciali il calcolo è fatto in genere per rapporto tra “valore aggiunto” e n. dipendenti. Qualcuno opta per porre al numeratore il fatturato, ma in tal caso, più che un indice di produttività si ottiene il fatturato pro-capite.

Ø Nelle imprese di servizi in generale, il calcolo della produttività si fa più difficile, perché vi è poco di fisico-materiale e molto di monetario, ciò che, invece di rendere più facili le cose, come ingannevolmente si sarebbe portati a pensare, invece le rende più difficili, o, quanto meno, l’interpretazione dei dati esige più attenzione. Pensiamo a una multiutility, nel campo dei servizi pubblici: se vende gas potremmo mettere a rapporto i m3 venduti con le ore di lavoro, o, se vende, energia elettrica, i Kwh con le ore lavorate. Sembra facile ma non lo è, perché dovremmo distinguere i clienti-imprese ad alto assorbimento di fattori energetici rispetto alle utenze domestiche. Se un’impresa di vendita di energia elettrica vende 20 milioni di Kwh annui a 20 industrie basta un addetto a seguire i rapporti, se vende la stessa quantità a 20mila utenti domestici ha bisogno di un numero di addetti più che proporzionale rispetto al primo caso. Così per il gas e per la distribuzione dell’acqua. Pensiamo ancora a una impresa di trasporti urbani: i passeggeri usano il mezzo, a prescindere che l’autobus sia confortevole e l’autista abbia il tocco secco o morbido.

Ø Nelle banche la produttività è calcolata per rapporto tra “margine di intermediazione” e costo del lavoro.

Ø Nelle imprese di assicurazione la costruzione di un indice produttività deve piegarsi alle caratteristiche del settore. Possono essere ritenuti indicatori di produttività i rapporti:  Premi/n° dipendenti e anche n° polizze/n° dipendenti o n° agenti.

Come si nota, oltre a difformità metodologiche per l’adattamento dei valori del rapporto, resi necessari dai diversi tipi di attività, per cui si passa da indici a quantità fisiche delle imprese manifatturiere a indici a valori per altri settori,  esistono anche difficoltà oggettive nella predisposizione e nel trattamento dei dati. Ma non si deve perciò ritenere che la produttività non sia calcolabile o inutile. È questione di strumenti di misurazione e capacità di interpretazione. D’altra parte le economie occidentali sono connotate per diventare sempre più società di servizi e meno di produzione.

6)    Produttività e valutazioni dell’azienda

Nonostante chi parla di produttività e di efficienza intenda spesso i due termini come sinonimi , dati i nessi che legano i due concetti, non si deve cadere in confusioni. Efficienza è un impiego razionale delle risorse o fattori della produzione in modo da ridurre al minimo sprechi e dispersioni. È evidente che maggiore è l’efficienza, maggiore è la produttività e, indirettamente, maggiore può essere l’economicità finale, cioè la redditività dell’impresa; però, si deve anche constatare che l’efficienza non è un indice, ma una politica settoriale e mirata, una strategia specifica in genere di carattere organizzativo, il cui risultato incide sulla produttività. Quindi, tra efficienza e produttività esiste un rapporto di causa-effetto, ma non di identità e la produttività non comporta con sé automaticamente: né l’efficienza, né la redditività, anche se può essere una delle condizioni, almeno per la redditività dell’attività caratteristica. A non creare una diretta ricaduta sulla redditività sta il costo della finanza e, quindi, il costo delle fonti del finanziamento degli asset. Si tratta di esaminare il reddito operativo RO anziché il reddito netto RN. Un’analisi incentrata sulla produttività consente di scegliere, in astratto e ammessa l’intercambiabilità tra i due fattori, tra lavoro e capitale, ma, inoltre, di effettuare valutazioni dell’azienda più proiettive.

Anche l’esistenza di contratti interni di lavoro con dinamica salariale legata alla produttività può essere un elemento da considerare per la valutazione dell’azienda. Un’impresa che ha produttività del lavoro elevata potrebbe valere di più coeteris paribus, ma devono essere esaminati in prospettiva i cicli degli ammortamenti, tenendo conto che senza nuovi investimenti il capitale fisso diminuisce già per effetto degli ammortamenti, pur mantenendo l’efficienza e il rendimento. La produttività del lavoro non dipende solo dalla politica di investimento e dal grado di meccanizzazione, ma anche – e in taluni casi soprattutto – dalla organizzazione dell’impresa. Eppure l’organizzazione (compreso il layout) non entra nelle formule.

In tema di valutazioni di azienda si deve ancora osservare che l’adozione del criterio reddituale considera indirettamente anche indici di produttività. Infatti, attualizzando i flussi di reddito futuri, che incorporano, tra gli altri elementi, anche la produttività, si ottiene un valore attuale (capitale economico dell’impresa), che è influenzato dalla produttività. Però, la produttività resta nascosta o implicita e per conoscere il peso che questo indicatore può avere nei flussi di reddito è necessario fare analisi ulteriori. Più diretta è invece la conoscenza della produttività in un business plan, poiché la sua funzione di obiettivo di sviluppo futuro rende necessario evidenziare la produttività come un target settoriale da realizzare assieme al piano.

Anche il curatore fallimentare quando deve formare la relazione ex art. 33 L.F. sulle “cause del dissesto” e il commissario giudiziale del concordato preventivo e a maggior ragione il commissario dell’amministrazione controllata che devono formare le relazioni sul grado di meritevolezza o sulle possibilità di ritorno in bonis possono trovare nell’analisi di produttività validi riferimenti per distinguere se le cause principali delle situazioni patologiche siano di natura finanziaria oppure di struttura industriale dei processi produttivi.

7)    La produttività degli altri (clienti e affidati) come parametro per stabilire limiti di affidamento

Sia fatta l’ipotesi che nella singola impresa, di produzione di beni o di servizi, gli indici di produttività non siano tenuti in considerazione. Non per questo si deve rinunciare a calcolare la produttività degli altri, con cui si viene in contatto di affidamento. Il problema riguarda poco le compagnie di assicurazione, ma in quelle industriali produttrici di beni e servizi, commerciali e bancarie, valutare la produttività degli altri può essere un elemento di giudizio di massima importanza, almeno per due motivi: a) se l’impresa presa in considerazione sta lottando per conquistare quote di mercato a suon di ribassi di prezzi, conoscere la produttività dei concorrenti può essere un elemento per capire se si hanno probabilità positive di sfondare; se una banca, ma anche un’impresa produttrice di beni o servizi, se ritengono di ampliare linee di credito esistenti a un cliente, potrebbero inserire nei parametri di valutazione per determinare un nuovo limite di affidamento anche quello dell’andamento della produttività dell’impresa cliente. Se questa è statica o addirittura in discesa, non dovrebbe risultare opportuno espandere il credito, perché una produttività non in crescita non è un indice di maggiori probabilità di rientro in futuro dalle linee concesse e se la banca o l’impresa fornitrice, avessero necessità di riduzioni di fido bancario o commerciale per proprie politiche finanziarie interne, potrebbero incontrare difficoltà nella manovra.

Si è già rilevato che la produttività non è la redditività, però un collegamento tra i due indici esiste e in genere va nella stessa direzione, seppur senza che la redditività abbia la stessa proporzionalità, né la stessa velocità di crescita. Ovviamente si deve intendere per redditività quella che deriva dall’attività caratteristica dell’impresa. In presenza di operazioni finanziarie speculative la redditività generale dell’impresa potrebbe incorporare saldi attivi o passivi provenienti dall’attività speculativo-finanziaria e allora il rapporto tra produttività e redditività risulterebbe inquinato. Però, se si continua a sostenere – e non credo si possa fare diversamente – che i debiti si pagano con il reddito, si dovrebbe ritenere che le probabilità di gestione del credito da parte del debitore risulterà più problematica per l’impresa che ha bassa o decrescente produttività.

Ma se è vero che gli affidanti non praticano con sistematicità la valutazione di indici di produttività delle imprese affidate, è altrettanto vero che queste, in genere, non fanno molto per mettere in evidenza gli incrementi della propria produttività.

Si potrebbe concludere, sul punto, che è questione di cultura generale.

8)    La produttività come spiegazione del successo dell’impresa in analogia con la spiegazione della ricchezza delle nazioni

La crescita della produttività è, a mio avviso, una delle cause fondamentali per spiegare la ricchezza delle nazioni e il gap tra nazioni ricche e paesi poveri. Se la produttività non cresce, è difficile che il PIL reale possa aumentare.

Scrive P. Krugman: « Si può ritenere invece che, con un’approssimazione abbastanza precisa, il tasso di sviluppo del benessere generale degli Stati Uniti equivale al tasso di incremento della sua produttività.»

Non diversa è la spiegazione che può essere data al trend di crescita della singola impresa. Le esperienze di questi ultimi anni sembrano significative in proposito e la storia economica già dimostra che l’aumento della redditività netta di un’impresa, che sia conseguito fuori da un andamento crescente della produttività può essere ottenuto per via finanziaria. Ma questo è un fenomeno molto ingannevole oltre che quasi sempre precario e pieno di rischi di inversioni di tendenza, a cui seguono registrazione di forti perdite finanziarie. Però, anche quando il risultato positivo della componente finanziaria permanesse a lungo, si renderebbe ancor più necessario un continuo monitoraggio della produttività della gestione caratteristica, quella direttamente riferibile all’oggetto sociale e ciò per stabilire se il processo produttivo vero e proprio non abbia andamenti statici o negativi. È noto l’esempio di quell’industria bresciana produttrice di interruttori elettrici, che, dopo un periodo di forte liquidità investita in BOT e in CCT anziché in rinnovi di macchinari e impianti, si ritrovò un conto economico con reddito positivo costituito dalle cedole e dagli interessi attivi bancari, ma un conto industriale pressoché negativo. Nel momento della vendita, gli asset erano così ridotti e obsoleti – cioè la produttività così scarsa – che i compratori pagarono un prezzo di poco superiore alla liquidità + i titoli. In pratica l’impresa industriale non esisteva più e l’avviamento svanito. Proviamo a pensare a una valutazione di azienda incentrata sul MOL di un’impresa in simili condizioni e ne ricaveremo una conclusione non priva di logica economica.

9) Conclusioni

La conclusione la dobbiamo dedicare ai filosofi e agli psicologi, perché, se è vero che la produttività è un fenomeno strettamente economico, è altrettanto vero che esistono premesse e considerazioni finali che vanno oltre l’economia, a riprova – se mai ce ne fosse bisogno – che questa disciplina fa parte delle scienze dello spirito e non di quelle della natura, per seguire la nota e a mio avviso ancora attuale distinzione di Dilthey.

Partiamo dall’economia e affermiamo che l’incremento della produttività aumenta il reddito. Ora, se questo incremento è equamente – ma direi piuttosto: “intelligentemente” – ripartito, concorre a realizzare l’obiettivo di una maggior libertà. In filosofia si distinguono una “libertà da” e una “libertà per”. La prima (“libertà da”) è quella che ottiene l’uomo quando esce dalla soglia di schiavitù dei bisogni primari, al di sotto dei quali deve rinunciare alla libertà stessa. È facile parlare di libertà da parte di chi ha la pancia piena; bisogna provarci con lo stomaco vuoto. Si pensi al detto che per fare una rivoluzione ci vogliono almeno duemila calorie al giorno. Quando questa subordinazione dalla fame è superata, si può pensare alla “libertà per”, cioè a una libertà dei fini. Si pensi all’aforisma: primum vivere, deinde philosophari. Quindi, se la produttività consente, unitamente all’ “intelligente” distribuzione, di realizzare una “libertà da”, allora la produttività diventa un sano obiettivo.

Se la produttività diventa un traguardo posto in un continuum, come se il bersaglio al quale scagliare la freccia continuasse ad allontanarsi, allora questa conquista della libertà può avere, con tutti quelli positivi, anche effetti negativi, ben conosciuti dagli psicologi del sociale. Si pensi all’obiettivo americano del more and more. Cioè al “di più, sempre di più”. Qui si può entrare in uno stato di stress continuo, che porta ad una forma di alienazione, forse non del tutto diversa dall’omino con i baffi rappresentato da Charlot nel film Tempi moderni. L’omino alienato, per una vita alla catena di montaggio di natura fordista, può essere una visione marxista di critica al capitalismo. Ma in che cosa è diverso il russo Stachanov? Capitalismo privato il primo, capitalismo di stato il secondo. Che differenza fa? Non è il capitalismo il nemico dell’uomo. Il nemico dell’uomo è l’uomo. Qualcuno ha provato a risolvere il dilemma: rendere il lavoro un momento ludico. Ma tutto si riduce a una forma di infantilismo, perché non si può passare tutta la vita nel passeggino. Cosicché, nonostante le apparenti e illusorie conquiste delle 35 ore settimanali, riappare, sotto forme nuove, la maledizione biblica, che si legge nella Genesi: «lavorerai col sudore della fronte», sostituita dalla più moderna, ma non meno angosciante: « lavorerai coi sudori freddi dello stress.»

Pietro Bonazza