Testo della conversazione tenuta dal dott. Pietro Bonazza il 18 maggio 2009, alla “Libera Associazione Culturale FORUM per domani” di Castegnato

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Titolo:

Se la fabbrica non c’è più!

il mondo produttivo è in trasformazione

– il ruolo della globalizzazione economica

– il valore etico rappresentato dal lavoro

– le prospettive future del sistema economico italiano

– in quali settori produttivi potremo ancora primeggiare?

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a) Premessa

È mia abitudine, ma è un dovere di chiarezza, prima di avviare una conversazione, esaminare criticamente il titolo, anche se proposto da me.

Il titolo di questa conversazione è: “Se la fabbrica non c’è più!“. Qui dobbiamo subito fare i conti con la parola “fabbrica”. Fabbrica vuol dire stabilimento, cioè luogo (io direi organizzazione), sotto il cui tetto si producono beni fisici. Per essere più precisi, bisognerebbe usare il termine “opificio”, che vuol dire immobile industriale con una presa di forza motrice. Ora, mi vengono in mente due personaggi:

– uno fasullo: il Celentano del “Ragazzo della via Gluck”, con la sua ideologia di ambientalismo nostalgico a buon mercato e irreale, cioè, se la fabbrica non c’è più, faremo prati verdi per far brucare gli uomini;

– l’altro: il più grande filosofo dell’era moderna: Emanuele Kant, che nella seconda delle sue fatidiche domande si chiede: “Che cosa posso fare?”; perché qualcosa dobbiamo fare quando la fabbrica non c’è più. È Kant che ce lo dice, proponendo un imperativo categorico del tipo: “non so ancora che cosa, ma so che devo fare”. Non possiamo stare con le “mani in mano”, l’homo oeconomicus occidentalis, non accetterebbe, non solo perché spinto dal bisogno, ma perché il “fare” è nella sua natura. Ricordo che in Germania dell’Ovest, soprattutto in Baviera, quando, finita la guerra, c’era solo un cumulo di macerie, i tedeschi decisero di ricostruire le fabbriche prima delle case. Ma se la fabbrica non c’è più per cause non belliche, che si fa? I bresciani hanno l’economia più forte del mondo, non perché abbiano materie prime. Abbiamo carotato tutta la Bassa alla ricerca di petrolio e di metano: niente, neanche una goccia o un sospiro! Avevamo miniere di siderite in Valtrompia, che abbiamo chiuso perché povere e antieconomiche. Ma, abbiamo la più grande delle risorse: il lavoro!

Tutte le grandi imprese bresciane: S. Eustacchio, Breda, ATB, OM, Franchi Armi, Glisenti, Pietra, ASM spa, COGEME, per citarne solo alcune, sono sparite. Ma l’economia bresciana non è morta! Quelle fabbriche non ci sono più, però ne sono sorte di più piccole e flessibili. Come hanno reagito i nostri padri, così faremo anche noi; magari tirando parolacce in italiano anziché in dialetto, perché le nuove generazioni sono acculturate; ma reagiremo. Io ho non una speranza, ma una certezza! Vi suggerisco la lettura del libro di recente pubblicazione edito dal “Sole-24Ore” di Egidio Bonomi e Alfredo Casotti, “La fabbrica delle imprese“, che, seppur ristretto al caso Lumezzane, può essere generalizzato almeno alla Provincia di Brescia. Per sintetizzare il mio concetto vi proietto l’incisione del Dürer “Il cavaliere, la morte, il diavolo“. Osservate quel volto di barbaro, che guarda solo in avanti, incurante dei compagni di viaggio che gli stanno dietro. È il simbolo della determinazione. Il cavaliere non doma il destino, ma non si fa impaurire. Questo è anche l’imprenditore.

Richiamo anche un brano dell’economista Keynes, che nella sua “Teoria generale” scrive: «La maggior parte, forse, delle nostre decisioni di fare qualcosa di positivo, le cui conseguenze si potranno valutare pienamente soltanto a distanza di parecchi giorni, si possono considerare soltanto come risultato di “slanci vitali” (animal spirits), di uno stimolo spontaneo all’azione invece che all’inazione...». La forza dell’economia bresciana è la sua ricchezza di animal spirits, che sono un connubio di: fantasia, propensione al rischio, creatività, incontenibile voglia di fare. Per ottenere il risultato bisogna essere un po’ barbari come il “Cavaliere” di Dürer. Però, è necessario che uno Stato impiccione e rapinatore non mortifichi, con la pressione fiscale e i mille lacci burocratici, la voglia di fare. Non sto predicando anarchia, ma democrazia, quella vera, che riduce lo stato e gli enti territoriali a funzioni più essenziali, con il minor dispendio possibile di risorse.

Sussidiarietà deve essere la funzione dell’ente pubblico.

Le due affermazioni dopo il titolo sono:

la prima un collegamento apparentemente contraddittorio: la globalizzazione e l’etica del lavoro;

la seconda è una proposta dubbiosa sulla domanda kantiana: che cosa fare?

Ritengo sia chiaro, da questa premessa, che il tema propostomi è, in realtà, una serie di temi e per svilupparli in modo minimamente soddisfacente servirebbe un tempo più lungo di una conversazione serale. Mi avete proposto un romanzo a puntate; ma ve ne faccio grazia.

b) Se la fabbrica non c’è più

La chiusura della fabbrica è da cercare in una causa economica, visto che non siamo in guerra! Qui la evidenziazione delle cause è di grande importanza. Per esempio:

– l’imprenditore è invecchiato senza successori e non ha provveduto in tempo alla managerializzazione o alla cessione;

– l’imprenditore non si è accorto o non ha accettato la critica che si è posto fuori del mercato e non ha saputo evolversi;

– errori gestionali e realizzazione fuori tempo di piani industriali (oggi si dice anche business plan) di investimenti di medio-lungo termine finanziati con esclusivo ricorso all’indebitamento, da cui è seguita una crisi finanziaria che ha portato al fallimento. Ricordiamoci che “fuori tempo” vuol dire anche troppo in anticipo;

– il mercato rifiuta i prodotti della fabbrica, non per mancanza di qualità, forse addirittura per eccesso di qualità, che costringe a prezzi non competitivi. Siamo nell’era dell’usa e getta per i prodotti di largo consumo e, o ci si ritira in un mercato di nicchia, oppure si sparisce;

– vale il contrario per la “meccanica fine”, dove la qualità è richiesta come condizione per stare sul mercato e quando si parla di meccanica fine si deve includere assieme alla esecuzione anche la progettazione e qui deve intervenire anche la preparazione professionale dell’operaio e non solo la presenza dell’ingegnere;

– etc.

Vi invito a notare che in nessun caso, che io abbia potuto osservare, la colpa è del mercato o di altre cause oggettive. La colpa è sempre dell’uomo, nel nostro caso dell’imprenditore. Vorrei ricordarvi un giudizio di Luigi Sturzo: “quando l’idea trionfa il merito è dell’idea; quando fallisce la colpa è dell’uomo“. Andate a dirlo a un politico dei nostri giorni; per lui è sempre il popolo che non capisce!

Allora: tutte le cause che ho prima elencato ci fanno capire che, se la fabbrica non c’è più, è affermazione errata, perché bisognerebbe dire che non c’è più quella fabbrica, ma sotto le stesso tetto ci sarà prima o poi una nuova impresa, che farà probabilmente altre cose. Il vero problema è un altro: quanto tempo durerà l’inattività? Si parla di parentesi “frizionali” e va bene; ma quanto tempo? Ecco perché ci sono gli ammortizzatori sociali, la Cassa Integrazione Guadagni, l’indennità di disoccupazione, ecc, fino ai prepensionamenti, che sono un’aberrazione economica, perché, senza cadere in alcuna ideologia: il lavoro crea lavoro. In questi giorni va di moda sostenere: lavoriamo di meno e così lavoriamo tutti! A me fa venire in mente l’economia della Russia staliniana: non esistono disoccupati, perché ci pensa il piano. Ma così l’economia “va piano“. Si dice che sono stati lo scudo stellare degli Usa e Papa Woytila a mandare in tilt l’Unione Sovietica. Ma è veramente così? L’economia sovietica si è autodemolita, perché l’economia di piano non funziona e, se quella del libero mercato è piena di magagne, è comunque migliore. Ricordiamoci il giudizio di Churchill: “è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate finora“.

c) Il mondo produttivo è in trasformazione

Bisognerebbe prima intendersi sul significato di “trasformazione”, perché il mondo dell’economia delle imprese è sempre in trasformazione. La stasi in economia è una finzione mentale: se c’è, è solo un cammino verso il fallimento. In economia o si va avanti o si va indietro e non è consentito segnare il passo sul posto, come le reclute. Persino chi ha la fortuna di operare in settore di nicchia può permettersi la stasi. Si pensi ai “settori maturi”: possono avere ancora lunga vita residua, ma devono comunque aggiornarsi.

Per dare significato al sottotitolo del nostro tema, bisogna aggiungere al sostantivo “trasformazione” l’aggettivo “straordinaria”, perché siamo giunti a un punto critico e dobbiamo fare scelte straordinarie e strutturali. Quali possano essere in concreto non saprei dire, se non altro per non imitare quegli economisti che hanno sempre ricette e consigli da distribuire “a pioggia”. Però, sono convinto che le nostre imprese devono realizzare innovazioni di prodotto (ricordiamoci che il miglioramento della qualità può essere un tipo di innovazione di prodotto), e, soprattutto, di processi produttivi e qui sta il nodo principale. Bisogna, cioè, abituarsi a vivere sul filo di una velocità accelerata, che esaspera:

– la flessibilità (cioè la capacità di rapido adattamento);

– la produttività, ottenibile non tanto con tagli di personale, ma con investimenti mirati;

– l’economicità, cioè l’incremento del risultato economico, che si ottiene con la razionalizzazione dei costi e la remuneratività dei ricavi, mediante continui miglioramenti della qualità dei prodotti, che prima o poi paga.

Ma, per raggiungere questi obiettivi occorre un salto di qualità nella cultura d’impresa e anche nuove relazioni industriali, cioè sindacali, a condizione che i sindacati, abbandonando il massimalismo dell’oggi, sappiano assumere un ruolo più propositivo e qui ci dobbiamo riallacciare all’etica del lavoro.

d) Il ruolo della globalizzazione

Si parla di globalizzazione, ma molti preferiscono “mondializzazione”, che però sono termini generici e senza precisazioni sono privi di significato.

Innanzi tutto si deve distinguere la internazionalizzazione della finanza dalla globalizzazione delle produzioni di beni e servizi non finanziari.

Gli economisti chiamano globalizzazione il fenomeno per cui scambi e investimenti internazionali crescono più della crescita dell’economia mondiale, creando una specie di rete mondiale (network), in cui ogni economia nazionale si pone in rapporti di interdipendenza con le altre.

È bene precisare che la globalizzazione non è una realtà solo dei nostri tempi, ma è sempre esistita, perché l’idea di “economia chiusa” è solo una semplificazione della teoria economica, solo che la globalizzazione è diventata esplosiva negli ultimi tempi grazie all’intervento di tre istituzioni sovranazionali: FMI (Fondo Monetario Internazionale), WB (Banca Mondiale), WTO (Organizzazione Mondiale per il Commercio), che hanno accelerato gli scambi; ma non bisogna dimenticare che la causa principale è stato il computer, che, nella sua applicazione di Internet, ha reso veramente piccolo il mondo. Sono le telecomunicazioni in tempo reale, che hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione. Un minuto dopo aver sviluppato in Svezia il progetto di una nuova macchina industriale, il relativo disegno con le specifiche operative è sullo schermo in visione tridimensionale sulla scrivania del capo della produzione in uno stabilimento a Singapore.

Ma globalizzazione vuol dire più precisamente altra cosa, come rivela il titolo di questa conversazione, che abbina in un rapporto di causa-effetto la “fabbrica che non c’è più” con la globalizzazione. In effetti il collegamento è solo indiretto, ma è intenso. La globalizzazione rende possibile e conveniente trasferire linee di produzione o addirittura imprese da Paesi altamente industrializzati e con costi di produzione troppo elevati a Paesi in via di sviluppo con costi minori e ciò vale per l’industria, ma anche per l’agricoltura e alcuni servizi, come, per esempio, i call center. Il consumatore si avvantaggia, però non deve pretendere la qualità! Ora, in questi casi si deve parlare più propriamente di “delocalizzazione”, cioè la fabbrica si trasferisce altrove.

Tenuto conto che la delocalizzazione è prevalentemente per produzioni ad alto assorbimento di manodopera, che, in alcuni casi, si abbina a bassa tecnologia produttiva, ci si aspetterebbe che la conseguenza logica sia in una creazione di posti di lavoro nei Paesi in via di sviluppo. E, allora, come si spiega il fenomeno di immigrazione in Europa e in Usa di milioni di extracomunitari provenienti da tutto il mondo in prevalenza clandestini? o la globalizzazione non ha funzionato o la causa è un’altra, e sorge il dubbio che possa essere in un’esplosione demografica, che crea continuamente più bocche da sfamare che risorse disponibili e posti di lavoro. È inutile nasconderci dietro un dito: sono in pericolo gli equilibri sociali mondiali.

In questi tempi l’intera economia mondiale è in crisi e in recessione. Uno studio dell’Università Bocconi, reso noto in questi giorni, denuncia pesanti cali di ricavi nel 61,5% delle imprese del campione statistico. Si dice che la colpa sia della internazionalizzazione della finanza, lasciata a se stessa senza regole; ma, secondo me, non è l’unica causa; parlerei di globalizzazione senza regole, così attraendo al fenomeno anche il mondo della produzione, che ha fatto la sua parte di errori.

Io non mi pongo contro la globalizzazione, ma in questi ultimi tempi assistiamo a un ripensamento: la de-globalizzazione. Cioè molte imprese, che avevano scelto di delocalizzarsi in paesi in via di sviluppo per sfruttare i minori costi di lavoro e di infrastruttura, stanno tornando in Italia. Il fenomeno non mi stupisce affatto: nella mia attività professionale ho sempre sconsigliato in passato di trasferire le aziende nel Mezzogiorno, un tipo di globalizzazione interna, per sfruttare le agevolazioni fiscali, tra l’altro a durata limitata. Ho sempre pensato che è troppo fragile la motivazione fiscale per spostare una fabbrica: ci vogliono spiegazioni più ampie e convincenti. Ebbi ragione allora e credo di averne anche oggi seppur in un arco geografico più ampio.

Non da oggi la globalizzazione ha sostenitori, ma anche nemici. Chi vuol saperne di più può leggere dell’economista statunitense J.E. Stiglitz: “La globalizzazione e i suoi oppositori“, edito da Einaudi.

e) Il valore etico rappresentato dal lavoro

Io sono fortemente critico verso la parola “etica” per l’uso ipocrita che troppi ne fanno. Imperversano “codici etici”, “regolamenti deontologici”, persino “banche etiche” presiedute da presidenti “etici” dal volto ieratico e il cerchietto di santo sulla zucca pronti a far miracoli con fusioni e incorporazioni e conseguenti tagli di posti di lavoro; forse pensano di creare “disoccupati etici”!

Ora, non vorrei essere frainteso: non sono certo un tifoso del “posto a vita” inventato dai giapponesi, anche perché i risvolti negativi sono pesanti. Pretendo solo chiarezza di rapporti e faccio il tifo per la mobilità del lavoro, ma non per lo sfruttamento che se ne fa con “abuso del diritto”. So di un’azienda bresciana, ora milanesizzata, che è riuscita a tenere a “bagnomaria” giovani dipendenti per sette anni con rinnovi di sei mesi in sei mesi del rapporto precario a termine. So di imprese che tengono giovani laureati in bilico con contratti a progetto “senza progetto”. Abbiamo abolito l’apprendistato, ma abbiamo creato un precariato demotivante. Non faccio politica e mi limito a constatazioni. Se poi un ministro come quel tal Schioppa chiama i giovani lavoratori “bamboccioni”, c’è da stupirsi che non lo abbiano centrato con pomodori e uova marce.

L’etica del lavoro non è, a mio avviso, la conservazione del posto in condizioni antieconomiche per la singola impresa. Etica del lavoro è: creare posti di lavoro in condizioni dignitose e di sicurezza! Solo così la mobilità diventa un valore anche per il lavoratore. Quindi, non ottuso conservatorismo sindacale, ma interpretazione di fenomeni sociali dinamici.

Io voglio proporvi di sostituire la parola “etica”, che pare il leit-motiv del “Manuale delle giovani marmotte” dei nipotini di Paperino delle strip di Walt Disney, con una parola non equivoca: “morale”.

Se non temessi di essere ancor più frainteso, vi proporrei di sostituire anche la parola “morale” con “umanesimo del lavoro”. Vi leggo due frasi:

– la prima di un economista liberista, che scrive: «…il mercato del lavoro non è un mercato come tutti gli altri. In esso non si tratta una merce qualsiasi, bensì l’uomo, il suo sforzo, il suo tempo, con la sua sensibilità, la sua individualità

la seconda di un filosofo, di cui io non condivido la teoria fondamentale, ma che scrive: «All’umanesimo della cultura, che fu pure una tappa gloriosa della liberazione dell’uomo, succede oggi o succederà domani l’umanesimo del lavoro. Perché la creazione della grande industria e l’avanzata del lavoratore nella scena della grande storia, ha modificato profondamente il concetto moderno della cultura. Che era cultura dell’intelligenza soprattutto artistica e letteraria, e trascurava quella vasta zona dell’umanità, che non s’affaccia al più libero orizzonte dell’alta cultura ma lavora alle fondamenta della cultura umana, là dove l’uomo è a contatto della natura, e ‘lavora’. Lavora ‘da uomo’, con la coscienza di quello che fa, ossia con la coscienza di sé e del mondo in cui egli s’incorpora. Lavora dispiegando cioè quella stessa attività del pensiero, onde anche nell’arte, nella letteratura, nell’erudizione, nella filosofia, l’uomo via via pensando pone e risolve i problemi in cui si viene annodando e snodando la sua esistenza in atto. Lavora il contadino, lavora l’artigiano, e il maestro d’arte, lavora l’artista, il letterato, il filosofo. Via via la materia con cui lavorando, l’uomo si deve cimentare, si alleggerisce e quasi si smaterializza; e lo spirito per tal modo si affranca e si libera nell’aer suo, fuori dello spazio e del tempo: ma la materia è già vinta da quando la zappa dissoda la terra, infrange la gleba e l’associa al conseguimento del fine dell’uomo. Da quando lavora, l’uomo è uomo, e s’è alzato al regno dello spirito, dove il mondo è quello che egli crea pensando: il suo mondo, sé stesso. Ogni lavoratore è ‘faber fortunae suae’, anzi ‘faber sui ipsīus’.

Bisognava perciò che quella cultura dell’uomo, che è propria dell’umanesimo letterario e filosofico, si slargasse per abbracciare ogni forma di attività onde l’uomo lavorando crea la sua umanità. Bisognava che si riconoscesse anche al “lavoratore” l’alta dignità che l’uomo pensando aveva scoperto nel pensiero. Bisognava che pensatori e scienziati e artisti si abbracciassero coi lavoratori in questa coscienza della umana universale dignità.

Nessun dubbio che i moti sociali e i paralleli moti socialistici del secolo XIX abbiano creato questo nuovo umanesimo la cui instaurazione come attualità e concretezza politica è l’opera e il compito del nostro secolo. In cui lo Stato non può essere lo Stato del cittadino (o dell’uomo e del cittadino) come quello della Rivoluzione francese; ma dev’essere, ed è, quello del lavoratore, quale esso è, con i suoi interessi differenziati secondo le naturali categorie che a mano a mano si vengono costituendo. Perché il cittadino non è l’astratto uomo; né quello della «classe dirigente» – perché più colta o più ricca, né l’uomo che sapendo leggere e scrivere ha in mano lo strumento di una illimitata comunicazione spirituale con tutti gli altri uomini. L’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale. Perché è vero che il valore è il lavoro; e secondo il suo lavoro qualitativamente e quantitativamente differenziato l’uomo vale quel che vale». Diciamocelo francamente! Questo scritto è troppo bello per essere vero e per avere speranze di avverarsi.

f) Le prospettive future del sistema economico italiano

A questa domanda ho già dato in parte risposta in precedenza. Se qualcuno mi chiede: “solo finanza e servizi turistici?” , do una risposta secca: no!

La crisi che stiamo vivendo e che non è paragonabile nelle cause ad alcuna precedente, perché ogni crisi è speciale, ci rivela che l’idea che tutto sia stato causato dalla finanza e dalla sua internazionalizzazione è parziale. In realtà, vi sono più cause: errori della politica, errori dell’economia reale, egoismi e personalismi di manager autoreferenziati e autostimati, ecc.

Se ci limitiamo all’economia, constatiamo che i paesi che hanno lasciato più sciolte le briglie della finanza: Stati Uniti e Inghilterra, hanno subito la crisi più profondamente. La stessa Svizzera che si vantava di avere due tra le più grandi banche del mondo: UBS e Crédit Suisse, ha sfiorato la crisi totale della sua economia proprio con la crisi di queste due imprese finanziarie. Per non parlare del Giappone e dei suoi imprenditori, che non si sono ancora accorti che non esiste l’economia dei samurai! Ecco perché dico no a una economia impostata prevalentemente sulla finanza.

Sui servizi turistici sono più aperto, perché l’Italia ha la fortuna di giacere su quel letto di petali di rose che è il Mediterraneo. L’Italia è come una donna bellissima: non mandiamola a fare la clarissa, ma nemmeno sul marciapiede. Esibiamola con una targa ammonitrice: guardare, ma non toccare! Il turismo è una risorsa: sfruttiamola con attenzione e professionalità.

Ma il futuro italiano è più complesso. Guardiamo come esempio la nostra Provincia; c’è tutto: un’agricoltura intensiva ai massimi livelli mondiali, una meccanica fine tra le più raffinate, servizi industriali di alta professionalità, turismo raffinato e selettivo, siderurgia dei materiali ferrosi e non ferrosi, elettronica applicata alle produzioni, ecc. Quando va in crisi un settore, un altro può ancora tirare, realizzando quello che in economia si chiama “frazionamento del rischio”. Qual è il ruolo della finanza? Deve essere solo “infrastruttura” e non “sovrastruttura”. Sono termini marxiani, ma rendono l’idea del fenomeno della crisi attuale, di cui la finanza ha le sue responsabilità, come ben ha denunciato il Fondo Monetario Internazionale, in disaccordo con la Fed, perché per il Fondo la finanza attuale e senza regole svolge un ruolo prociclico, cioè esalta le punte alte e quelle di caduta del ciclo economico, rendendo più problematica la risalita. Ma, detto per inciso, non bisogna dimenticare che i media (giornali della carta stampata e telegiornali) svolgono un’azione prociclica ancor più intensa della finanza sregolata, esagerando fenomeni che incidono profondamente sulla psicologia dei risparmiatori. Ovviamente, mentre la finanza si può regolare, i media sfuggono a ogni misura, in nome della libertà di stampa o, meglio, in nome della mancanza di professionalità; ma del fenomeno i media ovviamente non parlano.

L’imprenditore che vuole improvvisarsi finanziere è destinato male! E gli esempi nostrani non si contano!

Ecco perché dico “no” all’idea di un’economia fatta solo di “terziario avanzato” (qualcuno dice anche: “quaternario”) e qui ci dobbiamo riallacciare alla globalizzazione. È stato sostenuto che l’evoluzione tecnologica spinge all’estero le produzioni povere, ma lascia all’interno le parti della filiera del prodotto che hanno più alto valor aggiunto. È vero, ma solo parzialmente e comunque è concetto da non assolutizzare. Prendiamo come esempio l’economia di Como: un tempo era basata sulla produzione della seta. Ora la seta viene dalla Cina e a Como si fanno solo stampe e disegni, cioè la parte incorporata nel foulard che rende di più. Ma tutto questo è diventato Cinadipendente. Capisco esportare l’intera filiera, ma non dipendere dalla politica altrui. Spezzare la filiera del prodotto è un rischio molto elevato, vuol dire correre lo stesso rischio di dipendere dal petrolio e dal gas di importazione: ti chiudono il rubinetto e resti al freddo in pieno inverno, come è successo con la vertenza Cina-Ucraina nell’inverno 2008-2009.

g) In quali settori produttivi potremo ancora primeggiare?

Lancio un memento, che è un richiamo alla nostra storia. Prima della globalizzazione, che come già detto esiste da sempre, l’Italia ha inventato i “distretti industriali”, che io chiamo “globalizzazione interna e locale”. Sui “distretti” vi sarebbe molto da dire, soprattutto in relazione al fatto che l’Italia è il sistema Paese con il maggior numero di Pmi, che, se da un lato, consentono la massima flessibilità dei sistemi produttivi, dall’altro creano grossi problemi per il reperimento delle risorse da destinare agli investimenti e una dipendenza dalla grande impresa per chi produce semilavorati o una fragilità di rapporti commerciali per chi fabbrica prodotti finiti, fragilità mitigata da Internet che è sempre più una finestra aperta sul mondo. Ma limitiamo a considerare che il “distretto” è una rete di piccole imprese, un network in inglese, che opera come le dita della mano: se lavorano insieme consentono una presa sicura.

Ma l’Italia ha anche un prodotto non esportabile e non imitabile: il cosiddetto italian-style, che non vuol dire solo moda e abbigliamento, ma anche disegno industriale: Pininfarina, Giugiaro ecc. per intenderci, ma con attenzione, perché la Pininfarina è in crisi profonda e quante altre carrozzerie sono sparite, Brescia compresa? Perché? Perché l’imprenditore è un condannato alla innovazione continua di prodotto e di processo. E qui sta il problema della scuola, università compresa; finché sperpereremo risorse nel sostenimento delle spese per corsi bizzarri e inutili, che creano illusioni di occupazione prima e disoccupati con titoli accademici poi, non otterremo quella professionalità che serve al Paese. Non abbiamo bisogno di laureati in scenografia o storia dei partiti e con Schopenhauer, che è un grande filosofo, potremmo sostenere di abolire anche le facoltà umanistiche. Abbiamo bisogno di tecnici e ingegneri, perché il mondo va nella direzione della techne, come dice, marciandoci sopra, il filosofo Severino. Abbiamo bisogno di una cultura elastica per vivere la techne, ma anche per dominarla.

Noi costruiamo le migliori biciclette da corsa al mondo, abbiamo buoni muscoli: pedaliamo! E poiché ho parlato di muscoli e cade il Centenario della fondazione del Futurismo, chiudo proiettandovi la fotografia di una scultura tra le più significative di quel movimento, “Forma unica nella continuità dello spazio” di Umberto Boccioni, che mi spiace di non poter esporre in tridimensionale, che esalterebbe la perfetta fusione tra la forza del muscolo e il suo stiramento realizzato nella velocità. È una rappresentazione profetica, perché esalta una caratteristica dei nostri giorni: la velocità accelerata, che pare la rappresentazione dello spazio-tempo della teoria della relatività.

In conclusione:

per primeggiare bisogna porsi una regola aurea: far bene ciò che sappiamo far meglio o, con altre parole, esaltare il core business, nella tensione della velocità.