Con la sentenza 8 luglio 2002, n. 9884, la Corte di cassazione, reiterando proprie precedenti sentenze del precedente decennio, insiste nel ritenere che il numero dei tovaglioli passati dal ristorante alla lavanderia sia un riferimento logico, legittimo e sufficiente per motivare un accertamento su base indiziaria e parametrica dell’Amministrazione finanziaria. Come sia ancora sostenibile una simile tesi in un’epoca di sostituzione dei tovaglioli di cotone con l’usa e getta di quelli di carta, acquistati senza fattura all’ipermercato, è veramente “fuori dal mondo”. Probabilmente i giudici cassazionisti consumano i pasti in ristoranti raccomandati, dove i tovaglioli devono essere rigorosamente di batista o cotone in filo di Scozia! Da qui il dubbio che i tovaglioli non servano per pulirsi la bocca, ma per fare accertamenti (Si veda in proposito il mio articolo Probabilità e prova nel processo tributario, in questa rivista informatica, 22.10.2005).

Con la sentenza 21 ottobre 2005, n. 20398, continua l’altalena della Corte di cassazione in tema di elusione fiscale e di accertamento.

Non sono sorpreso. Nel mio articolo Le valide ragioni economiche nell’art. 37-bis del DPR 600/1973, pubblicato nella rivista Bollettino Tributario, n.13/2006, ho constatato che l’art. 37-bis DPR 600/1973 non è norma antielusiva generale. Nel mio articolo Principio di ragionevolezza, pubblicato in Boll. Trib. 30.1.2006, n. 2, ho criticato le sentenze 17.9.2001, n. 11645 e 30.10.2001, n. 13478 con cui la Suprema Corte, nel tentativo di giustificare un accertamento presuntivo richiamò la violazione del “principio di inerenza” e affermai che porre a causa dell’accertamento dell’Amministrazione il nascondimento da parte del contribuente della realtà di un rapporto contrattuale può integrare un caso di simulazione. Ma, la Cassazione, con la sentenza 20398/2005, va oltre e sostiene, seppur obiter dictum, che l’art. 37 bis, comma 3, DPR 600/1973 sia norma antielusiva generale. Infatti, afferma: «…prima dell’introduzione, da parte dell’art. 7 del d.l.vo 8 ottobre 1997, n. 358, del nuovo testo dell’art. 37-bis d.P.R. n. 600/73, non esisteva una clausola generale antielusiva nell’ordinamento fiscale italiano…». Invece, secondo la Cassazione, ora esiste e sarebbe l’art. 37-bis! Ma chiunque legga questo articolo, anche dopo la sua introduzione e successive modificazioni, conclude che non può essere una clausola generale! Ma che dire? Ogni giudice ha diritto di far soffrire delle sue traveggole giudiziarie!

Con la sentenza 20398/2005, la Cassazione, presa dall’ansia evidente di dar ragione all’Amministrazione finanziaria:

· Smentisce sue precedenti affermazioni giurisprudenziali. Scrive a pag. 26 l’estensore: «Il Collegio è consapevole del precedente costituito dalla sentenza n. 3345 del 7 marzo 2002, secondo cui il potere, previsto dall’art. 1421 cod. civ., di declaratoria della nullità ex officio è limitato al caso in cui sia l’attore a far valere la nullità o l’annullabilità del negozio, il giudice non potrebbe rilevare ex officio una nullità, ovvero una nullità di tipo diverso dalla causa d’invalidità fatta valere. Secondo la citata sentenza, occorrerebbe considerare che, nel processo tributario, l’impugnazione del contribuente instaura un rapporto processuale nel quale è l’Amministrazione finanziaria a rivestire il ruolo di attore, tanto è vero che ad essa incombe l’onere di provare i fatti costitutivi della propria pretesa. Pertanto, nel caso di specie, sarebbe l’Amministrazione-attrice a far valere l’invalidità o inefficacia di un negozio, la cui piena validità ed efficacia, anche nei confronti del fisco, è sostenuta dal contribuente-convenuto. Con la conseguenza che il giudice non potrebbe dichiarare la nullità per ragioni diverse da quelle dedotte. A ciò si aggiunge che, in ogni caso, il carattere impugnatorio del processo tributario non consente l’esame di questioni non specificazioni dedotte come vizi dell’atto impugnato. Il Collegio non condivide tale impostazione ». Bene! È come dire: Ieri abbiamo detto così, oggi ci gira diversamente! Prosegue la Cassazione: «…l’affermazione della giurisprudenza della Corte, secondo cui il processo tributario ha per oggetto un rapporto giuridico, non deve essere enfatizzata al punto da far dimenticare che esso resta sempre un processo di annullamento di atto autoritativo che, se non rimosso, fissa in modo definitivo l’an e il quantum dell’obbligazione tributaria. Si tratta, come generalmente riconosciuto, di un classico esempio di azione costitutiva, il cui esercizio non comporta, per il ricorrente, l’assunzione della qualità di convenuto, anche se non si accoglie l’orientamento che ricollega l’esercizio dell’azione costitutiva all’esistenza di un diritto potestativo sostanziale…».

· Partendo da un caso di dividend washing, la Cassazione, riconosciuta l’inapplicabilità dell’istituto di frode alla legge e nemmeno del motivo illecito invalidante, mancando motivi che integrino il perseguimento di finalità contrarie all’ordine pubblico o al buon costume o di altri scopi espressamente proibiti dalla legge, va oltre l’ipotesi di simulazione oggettiva o di interposizione fittizia o reale e ne dichiara superflua ogni indagine, poiché – e qui sta la novità – si tratterebbe di un contratto “inficiato da difetto di causa, che dà luogo alla nullità dei contratti collegati di acquisto e rivendita di azioni” (artt. 1418, comma 2 e 1325, n. 2, cod. civ.). Peraltro, osserva la Corte richiamando sue precedenti sentenze, sono nulle le pattuizioni volte alla modifica di un regime fiscale e inoltre, rigettando una tesi difensiva del contribuente, la simulazione del contratto può essere affrontata anche incidentalmente ed ex officio dal giudice di legittimità, anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 12, comma 2, della Legge 28 dicembre 2001, n. 448, perché derivabile da principi generali dell’ordinamento, così superando la propria precedente sentenza 7 marzo 2002, n. 3345.

Contratto afflitto da “difetto di causa” è ricorso a un concetto fondamentale del diritto civile, che a chi, come me, si è fatto sostenitore della motivazione dell’accertamento con ricorso all’istituto della simulazione, fa piacere scoprire che la Cassazione richiede una motivazione, senza ricorso a surrettizie perché inesistenti norme antielusive generali o al principio di ragionevolezza. Però, il difetto di causa non è una categoria autonoma del contratto di specie, che, invece, una causa ce l’ha ed è il fondamento della simulazione stessa.

Quindi, ben vengano le provocazioni culturali con la fantasia anima del diritto, purché siano appropriate. Sono convinto che l’operazione bocciata dalla sentenza della Suprema Corte sia stata fatta con intenti più in frode alla legge che elusivi e che, perciò, sia da combattere nell’interesse pubblico. Soprattutto a chi non fa parte della categoria, i furbi non sono mai piaciuti. A me, meno di altri. Ma non si possono perseguire “a ogni costo”, rivelando spirito di strumentalizzazione di una legge inesistente. Se una norma non c’è, se ne faccia carico il legislatore. L’elusione non si combatte tanto con le sentenze, ma con le leggi.

 

Pietro Bonazza