Ordinamento giuridico e leggi

Lasciamo ai filosofi la discussione sulla appartenenza o estraneità al mondo del diritto della locuzione “ordinamento giuridico” e limitiamoci a constatare che è l’art.12 delle “Disposizioni sulla legge in generale” ad affermarne la funzione di riferimento per l’interpretazione delle leggi, stabilendo che: «Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione […] si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato», così chiudendo ogni dubbio e discussione. Quindi, l’ordinamento, non solo è dichiarato esistente, ma è anche un contenitore di principi generali.

“Ordinamento” ha un’etimologia non dubbia: viene da “ordine”, sistemazione razionale e armonica, che significa anche organizzazione di parti secondo una sequenza logica, come avviene per i numeri reali, che, se disposti su un segmento o su una retta, richiedono che dopo un 1 vi sia un 2 e poi un 3 e così via, cioè secondo un certo ordine.

La razionalità insita nella parola ordinamento aiuta a capire anche la teoria del diritto puro di Hans Kelsen, che ipotizza una struttura geometrica piramidale del corpus normativo: una legge costituzionale (fondamentale, Grundnorm, secondo il filosofo praghese) che sta all’apice e, a caduta verso il basso, le altre norme armonizzate con l’apice, che ne condiziona anche la validità. È opportuno ricordare che la struttura kelseniana è dibattuta dai filosofi, non tanto per motivi di rifiuto della razionalità, ma per prevalenza, in loro, di preconcetti ideologico-politici, proprio il contrario della tesi di Kelsen che le norme non devono essere inquinate da preferenze di natura politica. Sta, di fatto, che gli ordinamenti giuridici sono costruiti sulla premessa kelseniana di ordine, poiché diversamente non si riesce a stabilire nemmeno il rango delle leggi e la loro corretta interpretazione, come si legge nel citato art. 12 delle “Disposizioni sulla legge in generale” italiane. Diversamente: senza ordine non c’è ordinamento e non ci sono principi, ma un accumulo di sedimenti giuridici, stratificati solo secondo il tempo e non secondo la logica, come avviene nel diritto di matrice anglosassone. Per avere un ordinamento si derivano codici e testi unici, cioè posti in armonia. Troviamo nella storia un precedente antico: dopo secoli di legiferazione della Roma repubblicana e imperiale, a metà del VI secolo d.C. l’imperatore Giustiniano ordinò la formazione di un Codex per dare organicità a mille anni di incrostazioni normative: ciò significa che il bisogno di dare un ordine alle norme, cioè creare un corpus, era diventata esigenza indifferibile.

Questa è semplicemente una premessa, uno schizzo di opinioni, per affermare che le norme, codici o no, devono avere una sistemazione non contraddittoria.

Correntemente, si definisce ordinamento «L’insieme degli imperativi giuridici vigenti in una determinata comunità [che] costituisce un tutto unitario, cioè un ordinamento giuridico» (Alberto Trabucchi, Istituzioni di Diritto Civile). Questa definizione suggerisce una constatazione e la opportunità di una integrazione. La prima (constatazione) è che la parola “insieme”, ragionando per analogia in termini matematici, implica un’area circoscritta (può essere un cerchio, meglio se una piramide), per cui ciò che sta fuori dall’area non può ritenersi appartenente all’insieme; inoltre, la locuzione “tutto unitario” rafforza l’idea, che ovviamente non può essere una impossibile reductio ad unum,  ma un riferimento all’insieme. La seconda (integrazione) potrebbe anche non essere necessaria ma opportuna, è che non guasterebbe l’aggettivo “armonico” prima di “ordinamento giuridico”, oppure potrebbe essere una sostituzione della locuzione “tutto unitario” con “tutto armonico”.

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Gli amici e pazienti lettori, si chiederanno il perché della tiritera soprascritta in forma di premessa. Il fine è di constatare che, in concreto, l’ordinamento giuridico italiano è svilito, è un ectoplasma giuridico, perché ha perso – e ogni giorno il solco si allarga – le caratteristiche di armonia e organicità, qualità che, se violentate, riducono l’insieme a una massa scoordinata di leggi, che già per il loro numero (centinaia di migliaia) sono segno evidente di una “corruptissima repubblica”, per dirla con Tacito. In un ginepraio labirintico di norme emanate ogni giorno alla rinfusa, nemmeno i giuristi ci si raccapezzano più. Ma, del fenomeno esaminiamo la testa (causa) e la coda (effetto). La prima è nella proliferazione degli organismi abilitati a dettare le norme (stato, regioni, province, comuni, organismi collaterali) stimolate non da necessità oggettive, ma dall’imperversare malefico di parti politiche, partiti, lobby, sindacati, che ignorano scientemente l’unità del sistema per vantaggi di parte, con il che, invece di un ’”ordinamento”, si produce solo “disordinamento”. Ogni organo politico diventa un centro di potere autonomo per conseguire vantaggi economici, al di fuori della “moralità della legge”. L’effetto è, oltre che il disordine, la produzione di spazi sempre più ampi alla magistratura, che spesso “crea” le leggi, e alla burocrazia che le aggira e le distorce, dando spazio alla corruzione e alla concussione. Ma tra gli effetti negativi vi sono anche da considerare le ricadute: a) sulla nazione e b) sul grado di civiltà.

a)      Sulla nazione. È limitativo ritenere che la nazione si fondi su una koiné linguistica, sulla storia, sui costumi. Una nazione è un’affermazione di civiltà, soprattutto giuridica, secondo una corrente di pensiero che risale al grande filosofo napoletano Giambattista Vico.

b)      Sul grado di civiltà. La civiltà di un popolo è in primis nelle sue leggi e non basta istituire un guardiano come la Corte costituzionale, che, tra l’altro, è organismo di estrazione politica. Le leggi devono essere coordinate e armoniche all’insieme nel momento della formazione: dopo è troppo tardi. Se le leggi sono scoordinate, ad personam, ad factionem, ad collegium, i danni sono irreparabili, perché passano anni prima che vengano rimosse quelle fuori sistema.

Sul punto ricordo che, mentre nei DPR 597 e 598 del 1973 relativi alle imposte dirette si leggeva la definizione di reddito, da cui derivavano tante conseguenze logiche e armoniche, con la redazione del Testo Unico 917/1986, la definizione è stata soppressa e sostituita da una “casistica”, cioè da allora non si va più per sistema, ma per “caso previsto o escluso”, perché non contemplato. Ciò ha segnato una perdita di organicità nel diritto tributario delle imposte dirette.

Il metodo è purtroppo dilagato ad altre branche del diritto, con buona pace dell’ordinamento giuridico, che dovrebbe essere unico per definizione, ma è diventato un insieme di sottordinamenti, a vantaggio di interessi particolari.

È così che la culla del diritto è diventata il letto di Procuste.