Abuso del diritto e rinuncia al credito

 

Elusione e abuso del diritto sono diventati sinonimi.

L’art. 10-bis della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente), che ha sostituito l’art. 37-bis del DPR 600/1973 apportando modifiche più formali che sostanziali talché è possibile utilizzare giurisprudenza risalente, recita:

 

«1. Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni.

Ai fini del comma 1 si considerano:

  1. a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato;
  2. b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.

Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente.

Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale…».

In sintesi la nuova normativa sollecita a considerare coincidenze tra elusione e abuso del diritto, che, almeno sul piano sostanziale sembrano in rapporto da species a genus.

 

In una rinuncia al credito (rimessione di debito) dall’impresa A all’impresa B, la Commissione Regionale di Milano ha ritenuto esistere evasione d’imposta e ha negato la detraibilità della minusvalenza dal reddito imponibile, argomentando sulla base di una valutazione di merito dei fatti recati in un verbale della Guardia di Finanza. La Corte di Cassazione, 20 luglio 2012, n. 12622, ha confermato la sentenza di secondo grado, ma correggendone la motivazione nella qualificazione dell’atto del contribuente: da evasione in elusione.

Il caso esaminato è complesso, sia perché i confini tra evasione ed elusione non sono sempre netti sia perché il caso è costituito da almeno due componenti, che si intersecano e sovrappongono ed è facile, se ci si ferma a una lettura superficiale, cadere nell’errore di generalizzare una fattispecie particolare.

Innanzi tutto si osserva che la rinuncia al credito, nel caso de quo, non rientra nell’art. 101 TUIR, che si riferisce alle perdite di crediti sofferte nell’attività dell’impresa. Pertanto, non è possibile estendere la sentenza a tutti i casi di rimessione del debito o rinuncia al credito, perché anche nel caso dell’art. 101, bisogna comunque fornire la prova della esistenza “di elementi certi e precisi”, che giustifichino la scelta del creditore-imprenditore di agire, pur nel rispetto della sua libertà gestionale, secondo il principio di inerenza. Quindi si tratterebbe di specie diverse. Il caso esaminato riguardava un credito collegato al prezzo di cessione di una partecipazione in un contesto di più operazioni articolate e di non facile giustificazione.

Da qui la correzione della Cassazione 12622/2012 della scelta dell’imprenditore da evasiva a elusiva rientrante nei termini dell’art. 37-bis, DPR 600/1973.

La correzione, non porta ad alcuna differenza sostanziale per l’imprenditore, che, con quella rimessione, ha ridotto il proprio reddito imponibile, perché sia stata evasione o elusione il risultato ai fini dell’accertamento del reddito imponibile non cambierebbe, trascurando problemi sanzionatori.

Semmai la parte più interessante della sentenza è quella che riguarda la motivazione.

La sentenza della Corte suggerisce alcune riflessioni che si elencano brevemente al solo fine di stimolare approfondimenti:

  1. se la Corte ha qualificato correttamente il fatto come elusivo (ora abusivo del diritto), significa che la Regionale ha preso un abbaglio, perché non si possono confondere evasione ed elusione, a meno di ritenere che il confine tra i due comportamenti sia così labile da giustificare l’equivoco. Se, invece, in base agli atti, si è trattato di evasione, allora l’abbaglio l’ha preso la Cassazione: tertium non datur. Secondo consolidata dottrina e giurisprudenza si ha evasione quando vi è sottrazione od occultamento di materia imponibile per scansare illegalmente accertamento e pagamento dei tributi mentre l’elusione è l’uso di strumenti giuridici legittimi che consentirebbero al contribuente un onere fiscale minore: in altre parole, il contribuente è forzato, contro logica ma anche contro diritto, a scegliere la via che lo penalizza di più;
  2. la Cassazione, che, incentrando la propria motivazione in riferimento all’art. 37-bis, DPR 600 (ora si direbbe art. 10-bis Statuto del contribuente) non aveva bisogno d’altro, ricorre all’abusato “abuso del diritto”, enfatizzato da giurisprudenza della Corte di Giustizia europea e, a prescindere, dichiarato immanente nel nostro ordinamento (Cass. n. 1372, infra), che lo applica spesso contro l’imprenditore, ignorando quanti abusi del diritto compie quotidianamente il Fisco. Abuso del diritto ed elusione non sono lo stesso fenomeno e si potrebbe persino dimostrare che sono incompatibili tra di loro, a parte la considerazione preliminare che “abuso del diritto” è una contradictio in terminis. Nella sentenza n. 12622 la Cassazione scrive: «l’abuso del diritto consiste nel conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta». Se leggiamo attentamente il comma 1 dell’art. 37-bis DPR 600/1973 (ora si direbbe art. 10-bis Statuto del contribuente), constatiamo che questa è la definizione di elusione fiscale nei casi tassativamente previsti dall’articolo stesso. In sostanza secondo la Cassazione, anticipando la modificazione legislativa, si può scrivere “abuso del diritto”=”elusione fiscale”, allora, si potrebbero cestinare l’art. 37-bis e la sua evoluzione, però con sospetto che la Cassazione sia ben consapevole della forzatura ma intenda superare la tassatività dei casi previsti dalla norma, in altri termini la si è cestinata per sostituirla con una più elastica ideologia giurisprudenziale incentrata sui principi che il giudice può costruirsi facendoli passare come “immanenti” nell’ordinamento. Questo aggettivo immanente ci porta all’immanentismo giuridico, in cui si scivola dal diritto positivo al diritto implicito.  Ma la confusione (rectius: fusione) tra abuso ed art. 37-bis (elusione) apre un problema di prova e soprattutto sulla relativa incombenza. L’art. 37-bis è una norma articolata, ma organica e coerente, oltre alla sua applicabilità ai soli casi tassativamente stabiliti, e prevede un’attività preliminare e dialettica tra Amministrazione e contribuente ritenuto elusore e solo dopo il suo esaurimento può essere emanato un accertamento da essere “specificamente motivato a pena di nullità” (comma 5), ma comunque con le attenzioni e la prudenza ben imposti dalla sentenza Cass. 21 gennaio 2011, n. 1372, mentre altrettanto non può dirsi per l’abuso del diritto, che nella sua immanenza è anche privo di guarentigie specifiche a favore del presunto abusante, consentendo elasticità interpretative e applicative spesso a vantaggio solo dell’Amministrazione finanziaria. La sentenza n. 1372 si distingue anche per un’affermazione che, pur nella sua evidenza e accettabilità, pone seri dubbi sulla sua validità costituzionale. La sentenza rileva, imponendo al Fisco una particolare attenzione, che la scelta tra soluzioni possibili, riconducibili alle due categorie basilari: valide ragioni economiche e risparmio d’imposta, da valutare diversamente per i gruppi di imprese e per gli altri imprenditori ordinari. Ammesso che questa particolarità possa essere accettabile sul piano economico, resta evidente che una tale distinzione pone seri problemi di sostenibilità in riferimento agli artt.  3 e 53 della Costituzione.

In conclusione: è auspicabile che le due categorie abuso del diritto ed elusione siano tenute ben distinte, a prescindere da pronunzie europee, almeno finché non ci sarà, se mai ci sarà e sia auspicabile, un diritto organico del diritto comunitario.

La rinunzia al credito (specularmente: remissione del debito per il debitore) costituisce un fenomeno articolato secondo una casistica multiforme. Isoliamo il caso, a diffusione crescente soprattutto in periodi di crisi economica, di un creditore-impresa soggetta all’obbligo di bilancio, trascurando i casi dei crediti di modesta entità, quasi sempre espulsi per operazioni ricorrenti di “pulizia del bilancio” e quelli coinvolti in operazioni di procedure fallimentari e di ristrutturazioni dei debiti. Due sono i punti di riferimento: a) il principio economico della libera scelta dell’imprenditore e b) l’art. 101, c. 5, Tuir, che contrasta abusi di discrezionalità, costituenti un periculum di sottrazione di materia imponibile.

  1. La libertà di scelta dell’imprenditore non è assoluta, perché deve rientrare nei limiti dell’inerenza, che esclude, per logica elementare, comportamenti antieconomici, contrari non solo agli interessi del Fisco, ma talvolta anche alla stessa economia dell’impresa. Diversamente opinando, si cadrebbe nell’arbitrarietà e nell’abuso del diritto, sia dell’ex art. 37-bis P.R. 600/1973, sia del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che, almeno sul punto che qui si commenta, segna una sopravvivenza di validità sia in dottrina sia in giurisprudenza del primo, soprattutto sulla condizione fondamentale che non debba trattarsi di “operazioni prive di sostanza economica” finalizzate a conseguire «vantaggi fiscali indebiti». La libera scelta dell’imprenditore trova realizzazione e limiti nel miglior risultato finale della perdita sofferta con la rinuncia rispetto ai costi di una evidente attività di recupero di prevedibile risultato infruttuoso, come nel caso di pignoramento negativo o di motivato parere legale. Il problema si sposta, così, sul piano della prova ripartito secondo il principio enunciato dalla Cassazione in sentenza 21 gennaio 2011, n. 1372: «…Incombe all’amministrazione finanziaria l’onere di spiegare, anche nell’atto impositivo, perché la forma (o il complesso di forme giuridiche) impiegata abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa, mentre è onere del contribuente provare l’esistenza di un contenuto economico dell’operazione diverso dal mero risparmio fiscale», sentenza da ritenere tuttora richiamabile per la continuità sostanziale della novella norma del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 rispetto all’abrogato art. 37- bis D.P.R. 600/1973.
  2. L’esito finale della scelta rinunciataria dell’imprenditore è la deducibilità fiscale della perdita sofferta, riguardata dal Fisco con dialettico sospetto. La norma di riferimento è il citato art. 101, c. 5, Tuir, che, pretendendo la sussistenza di valide condizioni di detraibilità, recita «Gli elementi certi e precisi sussistono inoltre in caso di cancellazione dei crediti dal bilancio operata in applicazione dei principi contabili». Il Principio contabile a cui fa rinvio l’art. 101 è l’OIC 12, la cui premessa concettuale è un implicito comportamento di razionalità economica e ragionevolezza. Quindi, la norma fiscale non contraddice le altre norme che, parallele e/o complementari, regolano il rapporto fisco-contribuente e che si riassumono nel triangolo: art. 101 Tuir-principi contabili-abuso del diritto.

Nel quadro qui sintetizzato si deve anche osservare che resta incerto il confine tra evasione ed elusione fiscale, sulla cui distinzione, forse per la complessità della materia, non vi è convergenza di opinioni in giurisprudenza. Si richiama della Cassazione, la sentenza 20 luglio 2012, n. 12622, che, parzialmente riformando la sentenza appellata della Commissione Regionale di Milano, ha corretto da comportamento di evasione a elusione la rinunzia al credito, segno della incertezza tra le due qualificazioni. Ma di incertezze ve ne sono altre, giustificando il giudizio di alcuni commentatori che ritengono troppo timida la riforma sull’abuso del diritto operata dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128.

Inoltre si deve considerare il caso di rinunzia al credito tra società dello stesso gruppo, che hanno optato per il regime del consolidato fiscale in cui è evidente che la perdita di una società creditrice è simmetrica alla sopravvenienza attiva della debitrice, con il risultato finale di algebrica compensazione. Nella vigenza dell’art. 37-bis D.P.R. 600/1973, la giurisprudenza non si è espressa con valutazioni particolari in caso di rinuncia al credito tra società nell’ambito del gruppo, come si evince dalla sentenza Cass. 12622/2012 che è un caso di gruppo, valutazioni non messe in rilievo dalle parti in causa e forse perché l’operazione di rinuncia al credito non rientrava comunque in un programma di ristrutturazione di gruppo. Si osserva che né la norma abrogata né la novella n. 128/2015 hanno previsto norme speciali per i gruppi, ma, comunque, soccorre in aiuto della non abusività la possibile esistenza di: «…operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o gestionale…».

 

Pietro Bonazza – dottore commercialista

Giulia Bonazza – dottore commercialista