È da pochi giorni in libreria, per i tipi della casa editrice “Il Prato” di Saonara, la raccolta di racconti “La batracomachia di Bayreuth” di Anacleto Verrecchia. L’autore non è riuscito a vederne ultimata la stampa, perché la morte improvvisa, il 4 febbraio, ha spezzato la sua penna straordinaria, ma da poco aveva consegnato all’editore l’opera completa, come si evince anche dalla sua “Avvertenza” al lettore datata dicembre 2011. Quindi postuma è solo la stampa, non il libro, che non ha richiesto interventi esterni sul testo concluso da Verrecchia con l’abituale ricercatezza. Non intendo fare una recensione, parola che l’autore giudicava con sospetto, anche perché è impossibile recensire gli scritti di Verrecchia: si finisce per recensire l’autore. “Lo stile è l’uomo stesso” diceva il naturalista Buffon e l’affermazione è tanto più vera per il nostro, che non si accontentava di una dote naturale filtrata da una cultura umanistica raffinata e introiettata, ma vi aggiungeva un controllo della parola, che deve essergli costato non poca fatica. Il risultato finale non è solo una somma di lemmi azzeccati e provocatori, ma è appunto lo stile: il suo, inconfondibile. Tra tanti artigiani della penna, Verrecchia è artiere della parola e sono convinto che il suo perfetto impasto della lingua italiana si sia giovato di quella scrupolosa metodicità dello spirito tedesco, che lui, germanista di valore, aveva recepito vivendo per anni in Alemagna come addetto culturale italiano. Sono certo che abbia ricambiato i tedeschi con lo spirito esuberante e ironico della nostra lingua. Questo vale per la “Batracomachia” come per tutte le sue altre opere, che meritano di essere lette e rilette da chi vuol arricchire il proprio bagaglio culturale e affinare il bello scrivere.
La “Batracomachia” ha per sottotitolo “Nietzschiani contro wagneriani” e ironizza sui comportamenti, che sfiorano il ridicolo, dei fanatici di Nietzsche e di Wagner in visita a Bayreuth in occasione di un festival annuale della musica wagneriana, in quel teatro che doveva essere un tempio della musica renana e invece ricorda “un mercato coperto”. Verrecchia raccoglie i dialoghi tra cinque visitatori del tempio wagneriano, che discutono, in stile e spirito critico inconfondibilmente suoi, i comportamenti ridicoli degli epigoni di Nietzsche e Wagner.
Non si tratta di un libro di filosofia nel senso accademico del termine, perché Verrecchia considera questa disciplina come una dama d’altri tempi, che nasconde una parte del viso dietro un ventaglio ammiccante, senza riuscire a velare la discrezione. Per il nostro, la filosofia deve essere umile, personale; da considerare come conquista e non come eredità immeritata; deve stare nelle cose, nella natura, nei giudizi, nei rimandi e non nei paroloni e nelle contorsioni di certi accademici. Ciò spiega anche la critica serrata e impietosa che Verrecchia fa in ogni occasione di Hegel e l’apprezzamento sincero e motivato per Schopenhauer.
La “Batracomachia” non è solo la rappresentazione ironica di un contrasto tra nietzschiani e wagneriani, perché dopo il primo racconto, che dà titolo al libro, ne seguono altri sei altrettanto ricchi di stile e contenuti filosofici indiretti, direi: ricchi di umanità.
Si consiglia la lettura. In mezzo a tanto ciarpame attuale, sfornato da scrivani che si atteggiano a scrittori, ogni tanto una perla preziosa.
Un ricordo personale, che riferisco ai lettori del “Dialogo”: nel corso della sua faticosa opera di rifinitura e integrazione, Anacleto Verrecchia mi chiese consiglio sulla copertina e io gli suggerii di riprodurre semplicemente il profilo del suo volto, ma lui scartò l’idea per quel pudore che lo ha sempre caratterizzato. A posteriori, sembra ora una premonizione, come se avessi inconsciamente suggerito di farsi ricordare in un’immagine; ma devo riconoscere che la riproduzione della “Rissa” di Fortunato Depero rende in termini oggettivi ed emblematici uno scontro tra fanatici di due partiti.
Sul titolo devo anche fare una precisazione ai lettori, che potrebbero pensare facilmente a un lapsus, ingannati dal sottotitolo, che sembra evocare il poemetto pseudo-omerico “Batracomiomachia” () cioè battaglia delle rane e dei topi, cui fece seguito nella storia della letteratura il nostro Leopardi con il poemetto eroicomico “Paralipomeni della Batracomiomachia”. Viene spontaneo chiedersi perché Verrecchia, conoscitore profondo della civiltà ellenica, titolò il suo libro “Batracomachia”. Certamente non dimenticò un “mio” nella sua penna forbita. Invece, intese che le polemiche tra nietzschiani e wagneriani non evocavano contrasti tra rane e topi, ma quelli tra sole rane gracidanti, tra batraci, quindi una Così, qualificava ironicamente i contrasti tra le due parti come cachinniche flatulenze, che recano un pessimo servizio: a Nietzsche, al quale Verrecchia aveva dedicato uno studio approfondito nel suo drammatico “La catastrofe di Nietzsche a Torino” ricco di umana pietà per un filosofo a cui stava venendo meno il ben dell’intelletto e a Wagner, la cui musica ascoltava con ammirata passione nelle sue solitarie passeggiate sul lungoPo a Torino coronato da alberi secolari.
Natura, cultura, amore per la nostra terra, filosofia nascosta, padronanza del linguaggio, sono le cifre caratteristiche di Anacleto Verrecchia, che tutte si ritrovano nella “Batracomachia”.
Auguri di buona lettura.
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Anacleto Verrecchia, “La batracomachia di Bayreuth” – “Il Prato, casa editrice”- Saonara (Padrova) –
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