La paura

 I filosofi, e ancor più oggi la sottospecie degli psicologi, non hanno mai trascurato la paura. Però, l’hanno considerata nella categoria delle emozioni. Come a dire che un animale, soprattutto l’uomo, se fosse privo di emozioni, riuscirebbe a cancellare anche la paura. La spiegazione, per quanto non priva di fondamenti logici, non mi convince del tutto, nonostante non riesca a dimenticare il racconto breve di Guy de Maupassant intitolato “La paura “, di rara potenza emotiva.

Il principio di causalità è uno dei pilastri dell’indagine filosofica. Schopenhauer ha scritto pagine molto importanti, prendendosela, per l’occasione, con Leibniz, l’ottimista del “migliore dei mondi possibili”. Ora: ogni causa produce almeno un effetto ed è qui che l’uomo si distingue dagli animali, perché questi soffrono la paura avvertendo gli effetti, mentre l’uomo considera la causa attraverso l’esperienza tradotta o trasmessa dalla memoria. E l’uomo ha paura della causa tanto più quando non riesce a spiegarla, ma sa che esiste e la sua paura cresce più la causa è inspiegabile e imperscrutabile. La paura è all’origine di ogni comportamento dell’uomo e degli animali e per esorcizzarla, l’uomo inventò le divinità.

Il mito è figlio della paura. L’uomo che osservò il fulmine incendiare un ceppo, apprezzò l’effetto (fuoco, calore, luce), ma rimase attonito sulla causa e così nacque Giove, il dio del fulmine.

Ma non fu l’unica paura, né l’unico suo scongiuro. La paura nasce con l’uomo e cresce al crescere del suo sviluppo.

Leggendo la Genesi della Bibbia, si potrebbe interpretare che la paura è lo smarrimento dell’uomo cacciato dall’Eden e cosciente di aver perduto la protezione del Dio creatore e di dover affrontare il futuro, cioè il tempo, nella più totale incertezza. La paura nasce con la consapevolezza che è venuta meno la protezione del Creatore e allora tutto il male diventa possibile. La paura è consapevolezza dell’uomo della propria inadeguatezza e l’esempio più classico è la paura di Ettore davanti ad Achille: non è pusillanimità, è coscienza dei propri limiti davanti all’ignoto, che non può essere rifiutato o scansato, ma inevitabilmente subìto.

Basta poco per considerare che la paura non è una species del genus emozione. La paura, genera senz’altro emozioni, e non il contrario.

Dubito che la tesi di Schopenhauer sia del tutto fondata quando sostiene che la volontà (di vivere) è il significato profondo del nostro agire. Invece, mi pare che sia piuttosto la paura il vero significato. La paura è l’emozione del non conoscere la causa e principalmente è paura della morte, non perché non se ne conosca la causa, ma perché è non conoscibile quel che avviene in seguito. Il credente attenua la paura con la “speranza”, ma non la elimina del tutto, perché “speranza” è aspettativa che accada qualcosa, non “certezza”. Se anziché speranza vi fosse “certezza”, allora anche il male del mondo sarebbe superabile: il cattivo, perdendo la certezza della condanna, avrebbe la consapevolezza della dannazione e si asterrebbe dal male; mentre il buono, avendo certezza del Paradiso, non conoscerebbe la paura del dopo e non avrebbe bisogno del ricorso alla speranza, perché la fede assorbe la speranza. È la mancanza di certezza che spiega il male del mondo, ma questo non impedisce all’uomo probo di compiere il bene, semmai spiega le nefandezze dell’uomo cattivo.

 Si deve anche considerare che la paura della morte altro non è che l’istinto di conservazione della specie. Anche il suicidio dei lemming non è altro che istinto di conservazione della specie attraverso il ripristino di equilibrio della popolazione cresciuta a dismisura. In un tempo in cui potevano esserci cinque generazioni al secolo, quando la durata della vita era breve, la generazione di figli era alta .Ora che  è quasi raddoppiata, il numero di generazioni in un secolo diminuisce. Non che la paura della morte sia sparita, ma è differita.

 Montaigne, Saggi, vol. I, cap. XVII, “Della paura”, ed. Adelphi,                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  pag. 95, ricordando la distruzione di Cartagine, conclude:

 «…Tutto fu in disordine e in tumulto finché, con orazioni e sacrifici, non ebbero placato l’ira degli dei. Questo lo chiamarono terror panico».

 Per vincere una battaglia bisogna prima vincere la paura di perderla. Il coraggio, in alcuni, è un fatto istintivo e irrazionale, in altri è il superamento razionale della paura cioè la capacità di non farsi dominare dalla paura e cadere in una forma di schiavitù, che è lo stato psicologico tipico di chi permane nella paura senza la capacità di uscirne.

Anche gli eroi hanno il loro momento di paura, ma sanno superarlo, come dice Omero nei versi immortali dell’Iliade, cap. XXII. Ettore in un primo momento fugge, ma poi supera la paura e muore da vero eroe, il più grande e umano del poema:

«Il riconobbe Ettore, e freddo corsegli per l’ossa

Un tremor; né aspettarlo ei più sostenne,

ma, lasciate le porte, a fuggir diêssi

atterrito…».

 Shakespeare, nel monologo “Essere o non essere” dell’Amleto, ben riassume la causa della paura:

 «… Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione»

a cui sembra rispondere Papa Wojtyla con l’invito

 «Non abbiate Paura di avere il Coraggio!».