Tempo, nichilismo ed economia

 

articolo pubblicato nella rivista “Autonomia”, 2010, n. 5.6, pag. 84 – Brescia, Via Volturno, 46

e-mail: tinabianchini@libero.it

 

 

Questa non è una nota di filosofia, disciplina per la quale non ho alcun titolo professionale, ma, se vi sono passaggi qualificabili di natura filosofica sono solo strumentali per capire la collocazione dell’economia nel tempo attuale. Ricordo che in una conferenza di fine agosto 2001 Alan Greenspan, allora Presidente della Fed e stimato economista, ammise, a proposito dell’economia “non capiamo quasi nulla”; da qui la domanda: come capire un poco più di un “quasi nulla”? Sono convinto che bisogna guardare la dismal science dall’esterno, per capire meglio i risvolti dell’azione dell’uomo attuale, che, prima di essere homo oeconomicus, è comunque homo e – non si deve dimenticare – “figlio di Caino”.

Il mondo attuale, salvo poche centinaia di primitivi in via di estinzione e già sepolti in recessi dell’Amazzonia e della foresta indonesiana, è globalizzato, ma di una globalizzazione che parte dall’Occidente. L’uomo occidentale è sempre meno civile e forse anche per questa involuzione, che lo ha abbassato e reso più facilmente imitabile, ha finito per imporre i sui modelli e la sua “visione del mondo e della vita”. È incontestabile che questa weltanschauung è sempre meno spirituale e più tecnica e più economicizzata: una specie di secolarizzazione della vita secolare. Se è così, alcune considerazioni sull’origine di questo fenomeno possono gettare un ponte tra il tempo e l’economia.

L’evoluzione della tecnica fino allo strapotere – e siamo solo all’inizio – ha indotto i filosofi del XX secolo a riflettere sul fenomeno, che in precedenza non presentava manifestazioni evidenti, nonostante sintomi interpretati con particolare intelligenza da un pensatore così atipico, straordinario, istintivo e sulfureo come Nietzsche.

Per introdurre il problema senza alcuna pretesa di novità, è opportuno raccogliere la provocazione del filosofo Emanuele Severino, che pone a fondamento del suo pensiero il convincimento che la filosofia greca, cioè la filosofia dalla sua nascita e in modo più evidente da Platone, afferma che le cose del mondo appaiono dal niente e vi rientrano. Questa oscillazione tra l’essere e il niente costituisce la dinamica del divenire, che genera l’alienazione e l’estrema follia, cioè il nichilismo, cioè il “niente” degli enti e, per reazione, la “volontà di potenza” dell’uomo occidentale, che nella dimensione nientificata e nientificante vive e tenta di reagire, artigliando con violenza il mondo circostante fino all’esasperazione autodistruttiva dell’esplosione della tecnica, che ha perso ogni innocenza e senso della verità.

Il divenire si rivela, allora, nella storia e nel tempo e forse, per l’incertezza che sul punto i concetti assumono, nel “tempo della storia”. Si può non condividere la diagnosi di Severino, ma non si può negare l’esistenza di un nesso eziologico tra l’esasperazione della tecnica, la follia dell’uomo occidentale e la volontà di potenza. Semmai, sulla filiera delle cause e degli effetti, si può contestare che la volontà di potenza sia esclusiva dell’uomo occidentale e che trovi origine in quella oscillazione tra l’essere e il niente. A me pare che la volontà di potenza sia una componente antropologica della stirpe di Caino. Gli esempi e i riferimenti sono innumerevoli. Basti pensare a Gengis Kan, che certamente non poteva essere influenzato dalla cultura ellenica. Quel guerriero, guidatore di orde portatrici solo di distruzione e di morte, esprime forse la più feroce volontà di potenza della storia e non una disperata constatazione di una oscillazione degli enti tra l’essere e il niente, ma, almeno all’inizio della sua carriera, solo una volontà di vendetta fine a se stessa. Eppure anche Gengis Kan avrà pensato, forse ogni volta che saliva a cavallo, che una freccia o un colpo di spada avrebbero potuto recidere il filo del suo tempo. Il tempo con la sua limitatezza deve essergli apparso come la scansione tra una scorribanda e l’altra e come arco di congiunzione tra una causa e un effetto.

Il principio di causalità è il denominatore comune di ogni uomo in grado di collegare due fenomeni concatenati. Così siamo costretti a tornare all’ontologia dell’ente che oscilla. Poniamoci la domanda: il tempo è un ente? La maggior parte dei metafisici e ontologi direbbero di no, perché per ente intendono solo la persona. Altri si riferirebbero ad Heidegger e farebbero proprio un riferimento più generale, ancorché più indefinito, di ente. Scrive Heidegger: “Noi diciamo ente molte cose e in sensi diversi. Ente è tutto ciò intorno a cui parliamo, ciò a cui in un modo o nell’altro ci rapportiamo; ente è anche che cosa e come noi stessi siamo.” Se non vogliamo farci intrappolare nella gabbia dell’idealismo, che riconosce realtà solo ciò a cui può pensare lo spirito e pensandolo lo produce, oppure nella semplicistica definizione leibniziana di “ordinamento delle cose”, dobbiamo ammettere che il tempo non è solo una forma, ma una esistenza in sé e in quanto esistente è ente, che, secondo l’affermazione di Severino, è un oscillante tra l’essere e il niente. Questa ammissione è anche coerente con quanto prima espresso di un tempo che non può esistere prima della prima causa, ma che da quel momento è esso stesso ente, e non potrà esistere dopo l’ultima causa per entrare nel niente e cessare di essere ente. La stessa scienza lo ammette dal Big Bang in poi e non oltre la dissoluzione dell’universo in fuga continua, ma non eterna. Al di fuori di questo campo di esistenza abbiamo un “no” di tempo e qui dobbiamo ammettere che manca un termine preciso, perché se dicessimo “non c’è tempo”, cadremmo in contraddizione, perché negarlo impiegando il verbo “essere”  comporta il farlo esistere. Quindi il tempo o è una forma e allora è una finzione (direi persino un inganno dell’intelletto) oppure è un ente, che, come gli altri, è un oscillante.  Ora, qui si pone un problema molto arduo, perché se il tempo è ente e l’uomo è ente, diventa inevitabile porre un rapporto tra i due enti, che, parafrasando Ilya Prigogine, potrebbe ridursi alla domanda: come si iscrive l’uomo nel tempo? Immagino un teatro con uno spettacolo in corso: esistono tante realtà in svolgimento, ma ne bastano due: i recitanti e il palcoscenico. Che i primi siano enti, nessun dubbio, che il secondo sia un ente nemmeno, con la differenza che il palcoscenico c’era prima dell’ingresso in scena dei recitanti e ci sarà anche dopo che, finito lo spettacolo, se ne saranno andati. I recitanti non sono eterni in quanto recitanti (purtroppo nemmeno in quanto uomini in senso fisico), ma nemmeno il palcoscenico è eterno. Però, esistono entrambi e anzi per un certo lasso coesistono ed entrambi sono complementari allo spettacolo, con funzioni diverse, talché uno non annulla o assorbe l’altro. Si potrebbe dire che un bravo attore non ha bisogno del palcoscenico e può recitare anche sotto le stelle, ma in quel caso, saranno le stelle il palcoscenico.

Ora, il nichilismo, che è il terrore individuale per l’oscillazione tra l’essere e il niente, che però diventa collettivo e genera la prevaricazione della tecnica, può anche essere interpretato come oscillazione del tempo tra il suo nascere e il suo esaurirsi, in senso individuale, collettivo o cosmico. E allora, la paura del vuoto del prima del tempo e del dopo il tempo, è in realtà la paura della morte e del non più essere, non del non ancora essere. Questa paura è la causa della volontà di potenza e del nichilismo, che vedo ben rappresentata nell’incisione di Albrect Dürer, “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo”, del 1513 e nel bronzo dello scultore futurista Umberto Boccioni, “Forme uniche della continuità nello spazio”, del 1913 e le due date sembrano ben più di una casualità. Il nichilismo è, come afferma Severino, la causa della volontà di potenza, che, però, si esprime anche in altre civiltà non elleniche. Gilgamesh e Gengis Kan, pur all’opposto, ne sono esempi. Che cosa, se non la paura della morte, cioè del non tempo, li ha spinti alle loro imprese? Che cosa, se non la volontà di oblio della morte? Quante cose non si fanno per ingannare il tempo dell’attesa! Allora bisogna trovare una molla primigenia al comportamento comune in tutti gli uomini e non solo occidentali, che spieghi questo atteggiamento, che vedo nella scoperta del principio di causalità. Da lì nasce tutto e tutto viene collocato dall’uomo su un palcoscenico più vecchio della sua scoperta e dell’ansia immediata che prova, e del nichilismo, che da lì prende origine.

Se la volontà di potenza è l’effetto finale di questa catena di causalità, allora possiamo constatare che l’economia è la sua espressione più nascosta o ermetica, la cui origine non può essere descritta dall’economista, che nella tragicommedia è calato e recitante, ma dal filosofo, che come un critico è confuso tra gli spettatori. La constatazione che l’economia, strumentalizzando la scienza e la stessa tecnica, assume crescentemente il ruolo dominante, condiziona la vita nei suoi vari livelli e finisce per deviare l’uomo dai suoi obiettivi teleologici e spirituali, allora dobbiamo chiederci se la soluzione, ammesso esista, possa essere lasciata all’economista. Vien da parafrasare Talleyrand: “l’economia è una cosa troppo seria per lasciarla agli economisti”, ma non sarebbe comunque una garanzia di soluzione. Se potessimo immaginare un demiurgo, dovremmo pensarlo come un potente che si sveglia il mattino e si assume il compito di sfamare quasi sette miliardi di individui affamati che del solo “tozzo di pane” e chi di un consumistico companatico, perché i benestanti dell’Occidente non rinunzierebbero al surplus, ma, peraltro, non sarebbe nemmeno auspicabile, perché per produrre quel surplus si creano le condizioni per far avere il “tozzo di pane” ai più poveri, che non sia la mera elemosina, sprezzante della dignità dei beneficiati. Se non vogliamo che a trovare le peggiori soluzioni siano le bombe o il suicidio collettivo dei lemming dobbiamo pur ipotizzare sbocchi positivi. Qui la parola passa agli storici, ai filosofi, ai teologi, ma soprattutto a un nuovo incivilimento dell’uomo, che, sottratto alla sua naturale barbarie di figlio di Caino, sappia rovesciare – con l’aiuto della cultura e dell’estetica – la tecnica e l’economia da dominanti ad ancillae, che è poi un modo diverso di dire che bisogna recuperare l’uomo con i suoi valori veri, tralasciando discussioni metafisiche sull’esistenza o l’illusione del divenire, che, spesso, sono esercitazioni mentali di raffinata intelligenza, ma senza realtà.