Gadamer, un filosofo contemporaneo serio, pacato e metodico, come sa esserlo un tedesco, ci offre una riflessione del famoso e odiato detto di Hegel: «Tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale », affermando che il significato diventa comprensibile, se si considera l’opposto e si proietta la razionalità nel tempo. Infatti, nel lungo andare l’irrazionalità non può resistere e deve lasciare spazio alla razionalità, che, così, diventa anche la realtà. La spiegazione sembra ragionevole. Il problema che non affronta Gadamer è un altro e cioè: la definizione del razionale. Però, senza cadere nella facile tautologia dell’evidente, si può trovare una definizione di “razionale” di comune accettazione; per esempio e rimanendo nell’attuale: Internet è una realtà indiscutibile ed è anche una razionalità; ci sono uomini, pur intelligenti e colti, ma non sempre aperti, che resistono con il “piccione viaggiatore” in nome di un malinteso conservatorismo, ma alla fine, come accadde per tutte le invenzioni della storia umana, dall’aratro alla fissione atomica, la razionalità diventa realtà, relegandoli, se ancora vivi, in un isolato mondo archeologico. Il segreto non è opporsi al progresso, ma cavalcarlo, anzi anticiparlo.
Gadamer svolge la sua argomentazione per trarre una constatazione apparentemente superficiale del divenire: « L’individuo vive e opera con i suoi progetti, le sue azioni, le sue aspirazioni e le sue delusioni, senza però conoscere quali conseguenze abbia alla fin fine questa sua attività per il tutto storico e per l’intera società. Noi infatti possiamo avere una sola esperienza della storia, quella del trovarcisi dentro e del poter sempre dire, in certo qual modo: non sappiamo ciò che ci sta accadendo. Poiché la storia è proprio questo, non sapere ciò che ci sta accadendo e trovarci ciononostante coinvolti nel gioco… »
Sono convinto che pochi politici conoscono queste riflessioni di Gadamer e, se le conoscono, le rifiutano, perché sono una smentita della loro presunzione.
Prendiamo Berlusconi e Cofferati, sono entrambi convinti di fare la storia, ma in realtà si limitano a viverci dentro mentre si fa, perché, senza cadere nel determinismo o storicismo, i tempi maturano e i personaggi di ogni singola commedia, le dramatis personae, si limitano a essere simboli, cioè a prestare le proprie maschere per il fenomeno storico, che, come una reazione chimica, si sta svolgendo in quel bicchiere da laboratorio che è la storia.
Questa premessa ha lo scopo di mettere in evidenza l’errore politico degli avversari della prima figura e l’autolesionismo che compie la seconda su se stessa.
Serve a qualcosa prendersela coi simboli? Si corre solo il rischio, attaccando l’avversario, di perdere l’analisi del proprio malessere e di fare il gioco degli altri.
Berlusconi non ha vinto le ultime elezioni per virtù propria e dei suoi alleati, ma perché gli errori dei precedenti governanti hanno fatto maturate la svolta nell’elettorato, che, alla fine, non perdona, anche se arriva quasi sempre in ritardo. Berlusconi non è l’uomo del destino; può darsi che lui lo creda, ma sarebbe presunzione. Non lo sono stati nemmeno i grandi personaggi della storia. Nemmeno i tiranni resistono a lungo senza il consenso della maggioranza, che è il comune denominatore di ogni regime politico. Quando i tempi sono maturi nessuno può arrestare la storia. Bruto e Cassio hanno soppresso Cesare, ma non hanno potuto arrestare la caduta della repubblica, che era già in crisi di per sé. Oltretutto Bruto e Cassio non avevano nemmeno un progetto di “nuova” repubblica; erano solo propugnatori di un conservatorismo fine a se stesso.
Le sinistre in Italia, accanendosi contro Berlusconi, commettono due errori: rendono ancora più popolare l’avversario e non si propongono con alternative progettuali. In altre parole: hanno rinunciato a fare politica e la loro opposizione diventa sterile e l’opera di agit-prop, giudiziari e mediatici, non serve a nulla. Colmo dell’ironia: con tanti intellettuali e politologi al loro servizio si sono fatti dare una lezione da un cinematografaro!
La commedia di Cofferati non è diversa. Vuole lo sciopero generale a tutti i costi e in gran parte per scopi personali, per realizzare obiettivi di politica, che poco hanno a che vedere con il sindacalismo. L’art. 18 è solo un pretesto, tra l’altro abbastanza fragile. È un po’ come la difesa del muro di Berlino; anche se non usi il piccone, quando i tempi sono maturi crolla da solo.
Il problema è sempre nel rifiutare di capire la storia, in cui si è calati. Se alle prossime elezioni in Germania, Schröder, come è probabile, le perderà, il dominio delle sinistre in Europa diventerà un ricordo e il mondo del lavoro dovrà liberarsi di tante strozzature, che il conservatorismo dei Cofferati non potrà più sostenere, perché è come non togliere il gesso dopo la saldatura della frattura: si finisce per compromettere l’arto.
Il sindacalismo sul modello CGIL, se non si evolverà con i tempi, finirà per autocastrarsi e perderà l’occasione di essere protagonista in modo nuovo e diverso del mercato del lavoro, che, come si riconosce giustamente da economisti di destra (Ricossa) e di sinistra (Solow), non è una merce come tutte le altre, ma non può nemmeno mantenersi “contro” le altre.
Oltre tutto la nostra epoca può essere definita “della secolarizzazione”, che prima ha intaccato le religioni e poi i movimenti ideologici di ogni tipo, politici compresi. Oggi nei singoli paesi europei non sono più in discussione problemi di libertà, né di altre ideologie pregiudiziali e fondamentali, beni che si ritengono acquisiti stabilmente. Pertanto, i programmi politici pre-elettorali ed esecutivi si incentrano in prevalenza su problemi, programmi, promesse e soluzioni di natura economica, ma il tipo di razionalità dell’economia non è lo stesso, o coincide solo in parte, con quello della politica. Però, se la politica perde la sua componente ideologica, si svuota anche la sua parte metafisica e obbliga a orientamenti più concreti, forse persino prosaici. Si potrebbe dire che perde importanza lo slogan (elastico) a favore dell’affermazione economica (precisa). Si potrebbe considerare che la vita non si sta arricchendo nei suoi contenuti ideali, forse anche etici, ma la realtà è quella che è: forse più povera di spirito e più ricca di denaro. In questo contesto il massimalismo, a qualsiasi strategia venga applicato, diventa un substrato anacronistico.
Quando sta per accadere qualcosa, la prima regola è mettersi in ascolto. L’economista americano Krugman nel recente best seller: “Il ritorno della depressione”, descrive il cambiamento nei paesi in via di sviluppo degli ultimi anni e fa questa affermazione significativa: « E poi, improvvisamente, successe qualcosa. Un misterioso insieme di eventi che ancora non abbiamo ben compreso – meno barriere all’ingresso, migliori telecomunicazioni, tariffe aeree più convenienti – ridussero gli svantaggi per chi produceva nei paesi in via di sviluppo. » Krugman si contraddice dicendo che accadde un “misterioso insieme di eventi”, perché gli eventi addirittura li elenca e sono storicamente veri.
Ha torto Gadamer ad affermare che siamo nella storia senza sapere ciò che sta accadendo, perché viviamo l’oggi preparando il domani, ma anche soffrendo gli effetti degli errori compiuti ieri e questi li possiamo conoscere, perché sono già accadimenti. La storia altro non è che questo continuo rimbalzo dalle cause agli effetti, dalle azioni compiute ai progetti. La storia è, alla fine, la coniugazione del verbo essere. Ma Gadamer ha ragione quando interpreta Hegel che a lungo andare non siamo tutti morti, come, invece, affermava Keynes, che – essendo un “diverso” – non credeva nella continuità della specie e quindi nella storia, ma, invece, saremo tutti calati in una nuova razionalità e in una nuova realtà.
Realtà
vuol dire avere i piedi per terra, non per stare fermi, ma per continuare a camminare.

Pubblicato su “ItaliaOggi” del 14 febbraio 2002