ASSOCIAZIONE DOTTORI COMMERCIALISTI DI MILANO

COMMISSIONE NORME DI COMPORTAMENTO E DI COMUNE INTERPRETAZIONE IN MATERIA TRIBUTARIA

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LA COMMISSIONE:

I componenti:

Nicola Cavalluzzo (Presidente), Elisa Aspesi, Mario Bono, Giulio Boselli, Paolo Centore, Nino Clerici, Cesare Gerla, Giuseppe Holzmiller, Silvio Necchi, Antonio Ortolani, Paolo Pensotti Bruni, Marco Peverelli, Marco Piazza, Stefano Poggi Longostrevi (segretario), Daniela Prandina, Paolo Vayno

Gli esperti:

Alberto Arrigoni, Giuseppe Bernoni, Pietro Bonazza, Salvatore D’Amora, Flavio Dezzani, Tommaso Di Tanno, Natale Ignazio Girolamo, Maurizio Leo, Ambrogio Picolli, Raffaele Rizzardi, Franco Roscini Vitali, Francesco Rossi Ragazzi, Enzo Russo, Francesco Tesauro, Giuseppe Verna, Michele Carpaneda (Presidente ADC Milano)

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NORMA DI COMPORTAMENTO N. 158

TRATTAMENTO, AI FINI IVA, DEI MARCHI D’IMPRESA TRASFERITI NELL’AMBITO DI UNA CESSIONE DI AZIENDA

 

 

In caso di trasferimento di un marchio nell’ambito di una cessione di azienda, l’intero corrispettivo percepito per la cessione dell’azienda (o di un suo ramo) quale “universalità di beni” è soggetto all’imposta di registro; non deve pertanto procedersi ad una distinta tassazione, ai fini IVA, del solo valore del marchio.

 

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L’articolo 2, terzo comma, lettera b), del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 dispone che non sono considerate cessioni di beni, ai fini IVA, “le cessioni e i conferimenti in società o altri enti, compresi i consorzi e le associazioni o altre organizzazioni, che hanno per oggetto aziende o rami d’azienda”.

L’articolo 3, secondo comma, n. 2 dello stesso D.P.R. n. 633/72 dispone che costituiscono prestazioni di servizio, se effettuate verso corrispettivo “le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a (…) marchi e insegne”.

Gli atti di cessione d’azienda sono soggetti all’imposta di registro, la cui base imponibile è costituita dal valore venale della stessa (articolo 51, commi 1 e 2, del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131).

 

L’art. 2555 del codice civile definisce l’azienda come il complesso dei beni, materiali e immateriali, organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.

Pertanto, ove sussista una cessione di beni strumentali atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio di un’impresa, si deve ravvisare una cessione di azienda, soggetta ad imposta di registro per il suo complessivo valore venale. Per contro la cessione di beni singoli, inidonei di per sé ad integrare la potenzialità produttiva propria dell’impresa, deve essere assoggettata ad IVA[1].

Nell’ipotesi in cui il marchio venga trasferito quale elemento dell’azienda esso rientra nell’universalità di beni che la costituiscono e, pertanto, il suo valore non può essere separatamente assoggettato ad IVA.

La circostanza che la cessione del marchio sia stata considerata dal legislatore nazionale una prestazione di servizi soggetta ad IVA (nonostante all’epoca in cui fu emanato il D.P.R. n. 633/72 l’articolo 2573, comma 1, del codice civile 2 e l’art. 15 del R.D. n. 929/1942 disponessero che il diritto all’uso esclusivo del marchio registrato poteva essere trasferito soltanto con l’azienda o con un ramo di essa), non può assumere decisivo rilievo3, per i seguenti motivi:

 

1) anche con riferimento alla normativa civilistica vigente anteriormente alla modifica introdotta con il D.Lgs. n. 480/92 era possibile, in casi particolari, cedere i marchi separatamente dall’azienda4;

2) in realtà, il legislatore, con il D.P.R. n. 633/72, si limitò a recepire nell’ordinamento interno le prescrizioni in tema di imposta sul valore aggiunto dettate dalle Direttive comunitarie europee. In particolare, l’art. 6, paragrafo 2, della seconda Direttiva del Consiglio dell’11 aprile 1967, n. 67/228/CEE, statuiva: «Le norme previste nella presente direttiva relative all’imposizione delle prestazioni di servizi, sono applicabili obbligatoriamente alle sole prestazioni di servizi elencate nell’Allegato B»5; il richiamato allegato collocava tra le prestazioni di servizi, al n. 1, proprio la cessione dei marchi di fabbrica e di commercio;

3) la previsione, ai fini IVA, di un’operazione apparentemente non realizzabile secondo l’ordinamento italiano è giustificata anche in relazione alla possibilità di stipulare contratti internazionali di cessione di marchi, separatamente dall’azienda, regolati da leggi di altri ordinamenti, meno restrittivi di quello italiano dell’epoca.

 

La separata tassazione ai fini IVA del valore del marchio, nell’ambito di una cessione di azienda o parte di essa, è stata esclusa anche dalla Corte di Giustizia.

Nella sentenza C-497/01 del 27 novembre 2003 si afferma infatti che «qualora uno Stato membro si avvalga di tale facoltà (di escludere da imposizione ai fini IVA le cessioni aventi ad oggetto aziende o parti delle stesse – n.d.r.), il trasferimento di una universalità totale o parziale di beni non è considerato come una cessione di beni ai fini della sesta direttiva. A norma dell’art.2 della stessa direttiva, un siffatto trasferimento non è quindi soggetto ad IVA… Ne consegue che uno Stato membro che si sia avvalso della facoltà conferitagli dalla prima frase dell’art.5, n. 8, della sesta direttiva deve applicare la regola della non avvenuta cessione a qualsiasi trasferimento di una universalità totale o parziale di beni e non può quindi limitare l’applicazione della detta regola solo ad alcuni di detti trasferimenti…». Inoltre la Corte di giustizia, nella citata sentenza, prosegue affermando che: «(…) la nozione di “trasferimento (…) di una universalità totale o parziale di beni” deve essere interpretata nel senso che in essa rientra il trasferimento di un’azienda o di una parte autonoma di un’impresa, compresi gli elementi materiali e, eventualmente, immateriali che, complessivamente, costituiscano un’impresa o una parte di impresa idonea a svolgere un’attività economica autonoma (…)».

 

Milano, novembre 2004


[1] Conformi ad esempio, Cass., sez. trib., 25 gennaio 2002, n. 897; Cass., sez. I, 24 gennaio 1997, n. 753; Comm. Trib. Centr., sez. XVI, 15 dicembre 1995, n. 4291; Comm. Trib. Centr., sez. XIII, 27 aprile 1990, n. 3177; Comm. Trib. Centr., sez. I, 17 marzo 1989, n. 2155; Comm. Trib. Centr., sez. IX, 5 dicembre 1985, n. 10646. In senso opposto, Cass., sez. trib., 10 settembre 2002, n. 13192.

2 Poi modificato con l’art. 83 del D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, in attuazione della Direttiva CEE 21 dicembre 1988, n. 89/104/CEE.

3 Contra Cassazione, sez. trib., sentenza 26 marzo 2003, n. 4452; Cassazione, sez. trib. 1° aprile 2003, n. 4974. Secondo la prima delle sentenze citate l’assoggettamento ad IVA della cessione del marchio – nell’ambito di una cessione di azienda – è giustificato in quanto “il legislatore ha inteso riferirsi all’unica ipotesi all’epoca possibile di cessione del marchio da parte di un imprenditore, quella cioè del suo trasferimento con l’azienda o con un ramo aziendale” e “… al mutamento della disciplina civilistica non si è accompagnato alcun mutamento di quella fiscale”.

4 La Cassazione aveva avuto modo di affermare che, in deroga al divieto di legge, i diritti sul marchio potevano essere autonomamente ceduti qualora il marchio stesso non fosse mai stato utilizzato dal titolare (Cass., 17 dicembre 1987, n. 9404), e che appariva comunque sufficiente trasferire, insieme al marchio, il diritto di fabbricare e vendere in esclusiva il corrispondente prodotto ed i particolari elementi conoscitivi necessari alla sua realizzazione (Cass., 13 marzo 1993, n. 3034; Cass. 6 marzo 1995, n. 2578; Cass. 9 febbraio 2000, n. 1424). Inoltre, sempre la Corte di Cassazione ammetteva che il trasferimento del marchio e quello dell’azienda (o del ramo) potessero avvenire in tempi diversi, purché i due atti avessero un collegamento funzionale ed economico (Cass. 20.11.1982 n. 6259).

5 Disciplina ora trasfusa nell’articolo 5, paragrafo 8, della sesta direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE.