OSSERVAZIONI SULLA INTERPRETAZIONE DELLA NORMA TRIBUTARIA

Premessa

La norma tributaria è innanzi tutto  “norma”; da qui la domanda se l’aggettivo “tributaria” sia pleonastico oppure sia un problema di mera classificazione, per cui norma è genus e norma tributaria species. Non è questione cavillosa, perché  ne discendono conseguenze interpretative e applicative rilevanti. Nelle scienze naturali una species non prevale sul genus; ma in diritto è consolidato il concetto che la norma “speciale” prevale sulla “generale”, ancor più se “eccezionale”.

La specialità della norma tributaria non deriva dai contenuti, ma dall’essere strumento per gli interessi dello stato: si potrebbe dire che risente dalla statolatria storica e dilagante nel rapporto tra stato e cittadino. In una dimensione di “stato minimo” alla Nozick, il peso della norma tributaria è leggero, in uno stato “dalla culla alla tomba” la norma tributaria diventa imperante e assoluta. In una dimensione di tipo sovietico il problema tributario non si pone, perché lo stato ha la proprietà di tutto e al cittadino resta solo il suo incasellamento in un piano, nel quale sparisce anche la sua individualità e libertà. Stato “minimo” e stato “tutto” sono i due poli estremi del problema, nel quale si individuano due componenti determinanti:

a)      il diritto di proprietà: possedere beni è la base imponibile, cioè aggredibile con imposizione fiscale, da parte dello stato, che si auto-munisce di capacità impositiva come aspetto determinante, crescente e di auto-legittimazione della sovranità. La sovranità dello stato consente la creazione di uno stato forte ma anche di uno poliziesco, che conculca la libertà dell’individuo;

b)      la giusta misura della sovranità.

Escludendo lo stato di tipo sovietico (“stato tutto”) e quello “minimo”, da ritenere posizioni estreme, il tipo di stato democratico occidentale vorrebbe porsi in una via di mezzo, in cui si tenta di conciliare esigenze di intervento statale, preteso e accettato da communis opinio, e la difesa del singolo, esposto al dilagare della sovranità politica accentuata dalla burocrazia posta al servizio del potere di governo e non, in molti casi, a esserne strumento.

Poiché quest’ultimo tipo rappresenta la realtà delle cose in Occidente, l’interpretazione e la consequenziale corretta applicazione della norma diventano il punto di riferimento e sostegno per salvare la prevaricante sovranità dello stato a insopportabile limitazione della libertà del cittadino, conflittuale, ma troppo spesso soccombente.

Interpretazione della norma tributaria

Ritengo che all’interpretazione della norma tributaria si dovrebbero applicare i canoni ermeneutici generali e, in particolare, la sequenza logica e degressiva dell’art. 12 delle disp. prel. Cod. civ., come afferma anche Gian Antonio Micheli nel classico “Corso di diritto tributario”: «Alla legge tributaria si applicano dunque le  regole generali sulle quali non è il caso qui di intrattenersi partitamente».

Ma, quando si parla di interpretazione in termini concreti, si esclude la dottrina, che è solo propositiva, e la presa di posizione dell’Amministrazione finanziaria (circolari, risoluzioni, comunicati, ecc.), che è di parte, ma la giurisprudenza che è operativa. Se ci concentriamo su questa, premesso che senza una norma formale il giudice è impotente, salvo ricorso all’analogia, che in diritto tributario è spesso impossibile [i], soprattutto in tema di agevolazioni. Osserviamo che il giudice è, invece, libero, purtroppo fino all’arbitrio, nella interpretazione, perché non basta il rispetto del citato art. 12 disp. prel., che ha natura solo metodologica, e la sua libertà può persino creare una norma (sostanziale) entro la norma (formale). Il ricorso all’analogia deve comunque essere inquadrato nell’art. 14 delle Preleggi stabilendo prima se la fattispecie abbia o no natura di “norma speciale o eccezionale”.

La legge nella sua normale genericità non considera sempre i casi e lascia al giudice l’applicazione alle singole fattispecie. È nell’ambito dell’interpretazione che, in particolare sulla norma tributaria, si sviluppa il rischio di una violazione della ratio della norma, la cui individuazione è a sua volta un processo che riserva rischi, perché deve essere dedotta o dalla norma stessa o da un complesso di norme costituite in sistema. Anche questo passaggio è un’interpretazione nell’interpretazione. È per ovviare ai rischi di errore più o meno intenzionali che sono previsti più giudici riuniti in collegio nello stesso grado e più gradi di giudizio fino al giudice supremo: la Corte di cassazione, le cui sentenze sono importanti riferimenti, seppur non fonti del diritto, essendo escluse dall’elenco dell’art. 1 delle Preleggi al  cod. civ.

Nel carattere di definitività e nella facile superficiale generalizzazione delle sentenze della Cassazione, si annida il rischio di interpretazione “politica” delle norme tributarie, perché può prevalere, come preconcetto, l’ideologia del giudice applicata agli interessi erariali, quasi si ritornasse alla vecchia “ragion di stato”, cioè sentenze pro-fisco in omaggio a una statolatria, che, tipica di regimi autoritari, dilaga anche nei comportamenti di fatto delle così dette democrazie.

La constatazione di un orientamento pro-fisco non è nella statistica delle sentenze favorevoli o contrarie, ma nelle motivazioni e nell’esito di crescenti sentenze significative e rivelatrici. Basti pensare, per esempio, a certe sentenze relative al tributo monstre: l’IRAP, in cui la difesa degli interessi erariali è pervenuta a legittimare il concetto di “autonoma organizzazione” in termini di elasticità dell’aggettivo “autonoma”, fino alla sua valutazione anti logica. Ancor più a rischio di preconcetto politico sono parecchie sentenze della Corte costituzionale, che scova nella Costituzione giustificazioni per esiti che non garantiscono sempre la parità processuale delle posizioni cittadino-Stato. D’altra parte è la composizione stessa della Corte Costituzionale a costituire il rischio della valutazione politica.

Queste osservazioni non sono una critica pregiudiziale dell’opera del giudice o meglio del “buon giudice”, che può essere “buono” anche quando sbaglia in buona fede e purché il pregiudizio ideologico resti fuori dalla mente del giudicante. Cioè, è inevitabile che il rischio dell’errore sia di valutazione dei fatti sia di interpretazione della norma, diventa un fatto a sua volta normale, perché il giudice è comunque uomo del suo tempo e questo spiega l’evoluzione dell’interpretazione nel tempo, che allo stesso giudice è consentita nel dinamismo del divenire della sua sensibilità e della capacità e della maturazione ermeneutica. È di Petrarca l’aforisma: “è saggio mutar consiglio” e non si vede perché il giudice dovrebbe esserne escluso. Se riconosciamo, come di dovere, che il giudice sia oggettivo, pur nella soggettività della sua solitudine, possiamo spiegare l’art. 101, comma 2, della Costituzione: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge», che comprende implicitamente anche il divieto di costruire le leggi.

Tutte queste osservazioni sono strumentali per verificare se alcune forme (criteri) di interpretazione erette a sistema a opera dei giuristi, siano o no legittime.

Intendo fermare l’attenzione sui seguenti tipi di interpretazione: analogica, estensiva, restrittiva, funzionale, evolutiva e adeguatrice.

a)      Analogica. Si richiama quanto già espresso sull’analogia e, in specie, la nota n. 1;

b)      estensiva. Questo tipo di interpretazione non dovrebbe costituire un tentativo di surrettizia integrazione della norma da parte del giudicante, ma l’applicazione del principio lex minus dixit quam voluit e rientra nei canoni ermeneutici dell’art. 12 delle Preleggi. Pertanto il giudicante non si allontana dalla norma, né integra il sistema con una norma inesistente come avviene con l’analogia, ma resta all’interno della norma e nella sua ratio, anzi proprio perché rimane all’interno della ratio può estenderne il senso meramente restrittivo della sua espressione formale;

c)      restrittiva. È un tipo di interpretazione analogo ma contrario all’interpretazione estensiva e applica il principio che lex plus dixit quam voluit. Anche qui l’interprete resta all’interno della norma scritta e se ritiene di restringerne gli effetti è proprio perché trova nella ratio la motivazione della restrizione dell’area espressa nella forma letterale;

d)      funzionale.  Questo tipo di interpretazione, tanto esaltato dalla cosiddetta Scuola di Pavia, si propone di avviare un percorso esegetico della norma con il preconcetto di porre a monte della ratio la valutazione degli interessi a cui la norma è stata dettata. Ora, poiché la norma tributaria è dettata per fini di gettito dello Stato, ne deriva che l’interpretazione funzionale diventa un’applicazione del principio quia sum leo e così tutto è giustificabile alla luce di una preminenza ontologica degli interessi erariali, il che diventa una aberrazione dello stato di diritto e fa venir meno ogni parità tra stato e cittadino. Inoltre, sostenere che gli interessi in questione sono da ricercare nella ratio è pleonastico, perché o l’interpretazione funzionale viene ricondotta nei binari della interpretazione ex art. 12 delle Preleggi e allora ritorna a essere l’applicazione di un normale processo ermeneutico oppure è criterio inutile perché la ratio delle norme tributarie è già per natura l’interesse erariale e non ha bisogno di valutazioni specialistiche per essere indagato;

e)      evolutiva. Si tratta di una categoria inutile che riflette più l’intenzione accademica di creare categorie inedite che la necessità di un nuovo strumento interpretativo. La sua definizione ricorrente è la proposta di adeguamento a una realtà attuale mutata rispetto al contesto in cui la norma è stata creata. L’obiettivo rientrerebbe nell’intento di economicità che è la salvezza di norme rese superate dal dinamismo del contesto socio-economico, ma adattate dall’interprete. Si fanno due osservazioni fondamentali:

  1. se il contesto socio-economico è mutato al punto di esigere una interpretazione evolutiva, significa che la norma non è più adeguata alla realtà mutata o che la norma non è abbastanza generica da non sopportare una interpretazione e ancor meno un’applicazione e, allora, vi è l’esigenza di una nuova norma che renda applicabile l’art. 15 delle Preleggi. Cioè, esiste di fatto un vuoto normativo, che non può essere riempito se non da una nuova norma, a meno di voler creare una nuova norma mediante l’interpretazione. Una interpretazione evolutiva, proposta come tipica o particolarmente richiesta dal diritto tributario, è una contraddizione, perché potrebbe superare il limite che impedisce all’interprete di creare la norma. Infatti, l’interpretazione evolutiva potrebbe facilmente sconfinare in una vietata attività di creazione surrettizia di norme;
  2. come già si è osservato, l’interpretazione è evolutiva per natura, nel senso che persino il giudice stesso può cambiare la sua opinione giurisprudenziale nel tempo, perché egli è e deve essere “uomo di mondo”, nel senso che non può non subire i condizionamenti psicologici del cambiamento del contesto socio-economico in cui vive. Non si spiegherebbe diversamente l’evoluzione della giurisprudenza e, anche quando il giudice resiste per volersi attenere alla lettera e alla ratio originaria della norma, è naturale che subisca, anche senza accorgersene,  il dinamismo del “mondo”, che non è il “suo” personale trascorso, ma del contesto generale. L’interpretazione evolutiva è un sistema generale, mentre l’evoluzione personale del giudice è un fatto individuale, che può essere o no ed è un fatto psicologico interiore, diversamente dall’interpretazione evolutiva, che ha la pretesa di essere un canone generale e di sistema. In tal senso la interpretazione evolutiva  diventa una categoria inutile, perché è assorbita nei canoni generali e ordinari dell’attività interpretativa. Questa osservazione ci riporta al concetto che alla norma tributaria si applicano i criteri generali e comuni alle altre norme ordinarie senza esigenze di specialità settoriali;

f)           adeguatrice. Questo tipo di interpretazione riguarda il giudice ordinario tributario chiamato – ma anche per sua autonoma iniziativa (d’ufficio) a valutare se una norma riguardante il caso specifico in questione sia o no “adeguata” rispetto ai precetti costituzionali, così innescando un giudizio da parte della Coste Costituzionale, il cui termine di riferimento e paragone è la Costituzione. La Corte conclude la sua indagine con un giudizio di omologazione di inammissibilità o di rigetto o di accoglimento, con la conseguenza, derivante da quest’ultima eventualità, la morte della norma. Ora, si osserva:

  1. la Costituzione, che resti fissa nel tempo senza alcuna correzione di difetti di origine o di interventi correttivi per rispettare il divenire del mondo socio-economico e politico, finisce per assumere qualità totemiche e sclerotiche. Il processo adeguatore è quindi a un fatto storico risalente che potrebbe essere superato dal tempo. Sostenere una interpretazione adeguatrice potrebbe assumere risvolti oggettivamente negativi rispetto a una evoluzione delle esigenze e delle opinioni sociali;
  2. come già si è avvertito, la stessa composizione della Corte non garantisce giudizi fondati sul mero diritto, ma lascia ampi spazi a ingressi politici, cioè può provocare una “giurisprudenza orientata” [ii]. Ma anche a prescinderne, resta sempre  la non sempre dichiarata premessa pregiuridica che ogni norma tributaria ha per fine la tutela degli interessi erariali, e allora ogni giudizio trova legittimazione nell’art. 53 della Costituzione, che, nella sua elasticità, può prevalere anche su principi dell’ordinamento come il “principio di ragionevolezza”;

Conclusione:

1.)    è evidente, oltre che di comune accettazione, che l’interpretazione della norma tributaria sia riconducibile ai canoni ordinari;

2.)    è confermato che il giudice di qualsiasi grado non può strumentalizzare l’interpretazione fino a creare norme inesistenti. Però, è innegabile che con lo strumento dell’interpretazione, necessariamente elastico, il giudicatore può forzare tutti i limiti, purché non arrivi palesemente alla creazione di norme o, data la specificità naturale delle norme tributarie, nuove specie. In sintesi si potrebbe dire che il giudice non crea la norma, ma, interpretandola, crea lo ius, il che è naturale oltre che auspicabile, se si vuol evitare la sclerosi del diritto. Opportunamente il timore che siano valicati i limiti ha portato, oltre alle previsione di più gradi di giudizio e alla pluralità dei giudicatori in ciascun grado, anche a istituire lo “statuto del contribuente”. Ma anche questo è oggetto di continue violazioni da parte dello Stato in modo smaccatamente palese o mediante la sottile arma della interpretazione;

3.)    gli operatori pratici e professionali del diritto tributario sono avvertiti: la norma tributaria non può più essere il punto di riferimento principale, perché sul piano concreto, se si vuol operare in condizioni di sicurezza, si deve considerare l’interpretazione della giurisprudenza, i cui orientamenti sono più importanti della lettera della norma.

Pietro Bonazza


[i] Scrive Gian Antonio Micheli, nel suo “Corso di diritto tributario”: «Non è dunque possibile, rispetto alle leggi tributarie, enucleare in via generale dei principi speciali in tema di interpretazione analogica. La constatazione, spesso ripetuta e teorizzata, dell’impossibilità di sottoporre ad analogia le norme tributarie impositive, tanto che attengano all’identificazione dei soggetti attivi e passivi della prestazione tributaria, quanto al contenuto della prestazione, sia nei suoi presupposti sia nei nei suoi elementi costituivi oggettivi, non trova alcun valido fondamento se non nella struttura delle norme stesse, congegnata così da escludere l’emersione di un principio, tale da poter trovare, in astratto, applicazione anche rispetto ad un caso non previsto dal legislatore».

Si veda anche la Circolare ministeriale 18/05/2012, n. 3/DF, e Comm. Trib. II Grado di Bologna 22.04.1988.

[ii] La locuzione è impiegata da Enrico De Mita nell’articolo “Lite tributaria senza identikit”, in “Sole-24 ORE, 7 aprile 2002, pag. 9.