24 novembre: Catania e tutta l’Italia, compresi i no-global e i filomusulmani, in lacrime (vere?) e in preghiera (ma va!), presenti in carne o in spirito ai funerali di Maria Grazia Cutuli, l’inviata del “Corriere della Sera” in Afghanistan, mitragliata alla schiena dai talebani (ma, io direi più precisamente: dagli afghani, perché nelle loro feroci e tribali diversità sono tutti eguali). Il “Corriere della Sera”, poi, che da giorni dedica pagine alla caduta sul fronte del giornalismo avanzato, era presente in persona del suo direttore: il dottor Ferruccio De Bortoli. Questa parata tipicamente italiana, di un’Italia tartufesca, che ignora l’inno di Mameli e la bandiera, salvo toglierla dalla naftalina e avvolgercisi come fosse una coperta per l’immigrato clandestino infreddolito, questa parata, dicevo, mi ha lasciato un vuoto maggiore di quello per la scomparsa, che, tra l’altro, era anche carina e questo non guasta mai, perché rende più umana la bravura.
Chi, come me, non fa vero giornalismo, ma critica giornalistica, non può non essersi turbato (è un eufemismo, lo sapete!) per la retorica sfoderata a più livelli, dai politici governativi a quelli di opposizione, dai Tiggì alla carta stampata e, d’obbligo, al “Corrierone”.
Scelgo a caso, da quest’ultimo:
a) 20 novembre, pag. 1: Ferruccio De Bortoli firma l’editoriale “Il fiore della passione”. Bel pezzo. Penna agile, che non inciampa nelle impurità del foglio. Penna a sfera, che scivola elastica, suvvia! Però, a un certo punto del tentativo di commemorazione, leggo: « Inquieta ma non imprudente. Appassionata ma non temeraria. Non avrebbe mai messo in pericolo la propria vita inutilmente. A fine ottobre, per il suo compleanno, le proponemmo di tornare, dopo tante settimane. Disse di no, non c’era verso. ». Ma alla pagina successiva c’è un articolo di Ettore Mo, che ha un titolo virgolettato molto significativo: «Non dite che doveva tornare indietro. Al suo posto avrei fatto la stessa cosa. » Scrive Mo: «Tutti i ragazzi che vogliono fare questo mestiere [si riferisce agli inviati] vogliono andare in guerra. Io cerco di sconsigliarli, anche se è vero che è più facile scrivere quando hai per le mani una storia grossa da raccontare. » Pare di capire che Mo avrebbe voluto dire anche qualcos’altro, come, per esempio: “i ragazzi e le ragazze sono un po’ imprudenti”. Ma in terza pagina leggo di Andrea Nicastro: « I colleghi caduti nell’imboscata avevano preso le precauzioni che dovevano prendere. Proprio per limitare i rischi avevano scelto di viaggiare in convoglio. In una colonna di sei auto a un chilometro di distanza una dall’altra. In modo che chi segue è in grado di dare l’allarme se succede qualcosa a chi è davanti. Dare o chiamare soccorso. Solo che ieri in Afghanistan non c’era nessuno che potesse o volesse intervenire per salvarli. » Confesso che Nicastro è molto abile nelle petizioni di principio. Che vuol dire “prendere le precauzioni che si devono prendere” e poi soggiungere che i giornalisti viaggiavano in colonna di sei auto distanziate di un chilometro? Io credevo che in Afghanistan si scannassero come polli da sempre e ancor più in questi giorni. E in questo territorio di terroristi, di banditi, di tagliagole, i nostri attenti giornalisti attraversavano in auto distanziate di un chilometro passaggi e gole controllate da sbandati di ogni tipo – a pagarone dei quali Ghino di Tacco, il Passator Cortese e i briganti della Sila, sembrano dame della carità! Ma avevano preso le precauzioni! Già, quelle descritte da Nicastro, tipo pollicino che attraversa il bosco lasciando indietro molliche di pane. Ma andiamo! Cambiamo il vocabolario, perché la parola “precauzione” mi appare sconvolta nel suo significato! La verità viene fuori dall’articolo dello stesso Nicastro
b) a pag. 3 del 21 novembre: « Un punto ideale per le imboscate”. Se lo sa Nicastro, perché la Cutuli non lo sapeva? Devo ritenere che lo sapeva. E allora? Lascio a chi legge le conclusioni.
c) Il “Corrierone” magnifica il 20 novembre l’alto contributo di Maria Grazia alla scoperta della verità vera: un pacco di fiale o barattoli contenenti “gas nervino”, pubblicato il 19. Ma questo è scoop? Anche un sedentario come me, che schiva persino i telegiornali, sa che in Afghanistan si trovano più armi batteriologiche che bombolette per lacche dei capelli delle signore statunitensi! Così come so che ci sono e si troveranno fosse comuni. Ma perché, o boy-scout, pensate che i morti ammazzati li portino uno per uno al cimitero con corone e benedizioni salmodiando Bibbia o Corano? Ma sapete che vuol dire “guerra”? Guerra viene dal germanico wella e vuol dire battaglia improvvisata, scontro, agguato, non battaglia ordinata.
d) Ma il giornale milanese tocca l’acme domenica 25 a pag. 7: con un titolo in linea: L’addio di Catania: « Maria Grazia, non morirai mai. », che riporta anche la dichiarazione di De Bortoli in ansioso appello alla verità: «Verrà, insidiosa, la sfida della verità e delle memoria. Senza verità, la memoria affievolisce. Noi viviamo intensamente il presente, ma bruciamo il passato per necessità e talvolta, per viltà: non deve accadere. » Non so perché, ma mi viene in mente una poesia di Cesare Pavese e penso che tra pochi giorni di Maria Grazia si ricorderanno solo i suoi familiari, altro che le retoriche debortoliane.
La mia analisi comincia da qui, premettendo che
– anch’io vorrei conoscere la verità, che, forse, non è la stessa che vogliono conoscere i giornali;
– appartengo alla categoria degli apoti, che rifiutano di bere qualsiasi retorica o irrazionalità.
Da qui la domanda:
chi era Maria Grazia Cotuli? Risposta: era un’inviata del “Corriere”. Se c’è un’inviata deve esserci un inviante. E allora: quali ordini “perentori” aveva impartito, se lo aveva fatto, il direttore del giornale alla sua inviata di non mettere a repentaglio la propria vita? Perché io non riesco a capire come mai, se un muratore cade da un’impalcatura e si ammazza, il suo datore di lavoro viene condannato, mentre se un giornalista viene ucciso sulla impraticabile e sconsigliata mulattiera di Kabul non è nemmeno un incidente sul lavoro, ma un atto di eroismo. Solo i giornalisti sono eroi, mentre i muratori sono fessi o sfortunati? Fuori la tanto invocata verità: la Cutuli aveva o no ricevuto ordini tassativi di non esporsi, oppure li ha trasgrediti consapevolmente? E se è così, per quale motivo? Amore della notizia? Ma andiamo… nessuno è in grado di dirci che cosa sta accadendo in Afghanistan, nemmeno gli afghani. E allora? La Cutuli era una cronista che andava in cerca del sensazionale? Era un tipetto da sesto grado superiore sulle pareti del Monte Bianco in pieno inverno? Era un pilota di moto, che scarica adrenalina su un circuito? Era una poveretta che aveva bisogno di esporsi per mantenere il posto al giornalone? Perché questo insinuante e malevolo sospetto? Perché il 20 novembre, a pag. 6 del foglio della benpensante borghesia lombarda, Michela Mantovan scrive che la Cutuli era stata assunta dal “Corriere” con contratto a termine, ma non si precisa quando – però sono passati pochi anni – e nemmeno se tale fosse ancora la sua posizione attuale. Domanda legittima, no? Il muratore Bianchi è morto cadendo dall’impalcatura: ebbene, la prima cosa che fa il preposto all’indagine è stabilire il suo rapporto con il datore di lavoro. Perché ci sono lavoratori (i giornalisti lo sono, no?) che per guadagnarsi un pezzo di pane sono costretti a lavorare in sedi disagiate. Vorremmo sapere! È questione di trasparenza!
Il fenomeno di psicologia sociale mi ha costretto a due riflessioni, difficili da spiegare, ma, garantisco, di buona fede:
1. serve sacrificare la vita per una non-notizia? Perché da un fronte che non esiste – lì è solo guerriglia e pioggia di bombe dal cielo – la notizia non esiste. Siamo onesti!
2. se una “ragazza” fa l’inviata, in che rapporti si trova con il s
uo inviante?
Più che dispiaciuto, sono triste perché sono costretto a dire: cara Cutuli, nonostante la straripante retorica giornalistica sei morta invano, perché la morte, che è fenomeno ancor più naturale della vita, è veramente inutile quando il fine per cui si è vissuti non è raggiunto. Parce sepulto! Il tuo direttore si consolerà rapidamente nei salotti milanesi, dove il “popolo grasso” (l’alta borghesia) si gode il tempo e la vita rubati agli illusi, categoria a cui iscrivo una siciliana intrepida e guascona, morta per lettori che alla fine, dopo un fugace momento di commozione, si consolano con una telenovela.
Scusate, pochi e scelti amici del “dialogo”, ma sono costretto a dirVi il mio pensiero, perché mi brucia in gola.
Per me Maria Grazia Cutuli non era giornalista “normale”. Era un essere pieno di poesia e di ineffabile curiosità, incapace di fare un qualsiasi calcolo come solo i poeti non sanno fare, perché è l’unico modo di fare qualcosa.
Il “Corriere” ha perso un’occasione per rispondere senza retorica a un’assenza definitiva: una prima pagina completamente bianca con una traccia di lacrima in mezzo al foglio. Un’ombra di lacrima può voler dire tutto: rimpianto, cordoglio, ma anche richiesta di perdono. L’orgogliosa siciliana, da quell’angolino in cui stanno i giornalisti-poeti, l’avrebbe gradita più di tante chiacchiere.