Queste pagine sono la conversione in racconto di una finzione [1]. Suppongo sia venuta da me la vicina di casa di un certo Mario Rossi e mi abbia consegnato una busta sigillata a me indirizzata con chiara indicazione del mio nome e indirizzo. La storia di quell’incontro è molto semplice e persino verosimile.

***

È il 30 aprile 2010. Sono le sei di sera. Sono rientrato da poco da una visita alla bottega (così la chiama lo stesso proprietario con tono autoironico) di un libraio, amico da trent’anni, ex bancarellista, invecchiato tra i suoi libri, che vende poco, ma quel poco lo ha letto e dà giudizi sempre precisi e critici. Resiste alla concorrenza dei supermercati e delle grandi librerie solo perché è proprietario dei muri e non ha commessi da stipendiare. Quando vende un libro lo tiene in mano come un messale e, da come lo porge, sembra quasi che abbia rammarico a privarsene, perché non ha mai più di una copia e, per sincerarsi che finisca in buone mani, consiglia sempre: «Mi raccomando, dopo che lo ha letto venga a riferirmi il suo giudizio, così lo confronterò col mio». Non c’è dubbio che non direbbe altrettanto, se vendesse una di quelle raccolte di fogli rilegati, anzi incollati, che ogni cretino che è convinto di essere un comico o un giornalista che si crede Machiavelli, sfornano ormai ogni giorno. Il mio amico non tiene quella “roba”, perché, dice lui, non sono libri e, quindi, non è merce per la sua bottega. Oggi, con il solito rito, mi ha consegnato una nuova traduzione del De rerum natura di Lucrezio e mi ha precisato: «roba per palati fini e spiriti liberi» e «per librai con la “l maiuscola”»¸ ho soggiunto io. Ha sorriso lusingato. Se lo merita.

Ho appena depositato il pacchetto sul tavolino del salotto, che sento suonare alla porta. Vado ad aprire. Una signora sulla sessantina mi chiede: «È lei il signor Pierano Bartozzi?». «Veramente sono Peano e non Pierano, ma penso sia indifferente» preciso. «Mi scusi, ma Peano non mi viene», mi risponde.

«La capisco, ma capita quando uno nasce da un padre matematico, che si è illuso che il nome sia di buon auspicio».

La invito a entrare e la faccio accomodare in salotto. Mi siedo anch’io, perché non si senta a disagio.

«Posso offrirle un caffè? È da macchinetta automatica, sa, di quelli fatti con la cialda, perché io sono scapolo e non uso la moka, perché poi dovrei lavarla».

«Grazie, a me piacciono i caffè fatti con la cialda».

Prendiamo il caffè insieme. La mia visitatrice sembra a suo agio; si appoggia una grossa busta gialla sulle ginocchia.

«A che devo la sua visita?» chiedo e lei incomincia il suo racconto.

«Vede, signor Peano, io abito al secondo piano in uno stabile di Via Carducci, 5. Sono in pensione e vivo sola. Non sono curiosa, ma certe cose non posso non notarle. Sul mio pianerottolo ci sono, oltre alla mia, altre due porte e una, quella confinante alla mia, dà accesso a un bilocale, occupato da molti anni, fino a due giorni fa, da un signore, che viveva solo. L’ho incontrato solo una decina di volte al massimo. Buona sera, quando rientrava, e basta. Perché il mattino usciva molto presto. Dal suo appartamento nessun rumore. Mai. Come non avesse radio né televisione né alcun elettrodomestico. Mai una visita né maschile né femminile. Un fantasma, se così posso dire. L’unico rumore che sentivo era la sera intorno sei, perché girava la chiave nella toppa e io non sono ancora sorda per non sentire la porta che si apre e si chiude. Però, tre sere fa non ho sentito quel rumore e nemmeno l’altro ieri sera. In un primo momento ho pensato fosse in vacanza. Ma, poi, mi sono detta: impossibile. Dove vuoi che vada uno che da anni non manca mai all’appuntamento delle sei di sera con la sua porta? Forse si è ammalato. Forse ha bisogno di aiuto. Mi sono avvicinata alla porta. Nessun rumore. Ho provato a chiamare. Nessuna risposta. Allora, mi sono insospettita e ho incominciato a fare supposizioni piuttosto lugubri. Sa, vivendo soli si è portati a questo genere di pensieri. Lei saprà senz’altro che nella parallela di via Carducci c’è un distaccamento di un commissariato di polizia. Ebbene, vi presta servizio il figlio di una mia conoscente. Si chiama Marco. Un bravo giovanotto, che mi saluta sempre quando lo incontro per strada. Sono andata all’ufficio di polizia e gli ho raccontato i miei sospetti, ma anche i miei timori di esagerare e violare la privatezza del mio vicino di casa. Il poliziotto mi ha detto: “tra un quarto d’ora finisco il servizio e vengo da lei in via Carducci. Arrivederci”». Dopo poco è arrivato Marco. “Ancora nessun rumore?” mi ha chiesto. “Niente” ho risposto. “Io non potrei entrare senza un mandato. Ma prima di averlo, se stesse male, farebbe a tempo a morire. Mi fido di lei. Ora io sono abbastanza abile da saper aprire una porta anche senza chiave, se non è agganciata una catena all’interno. Lei mi deve promettere di non dire niente a nessuno. Ora, se non riceviamo risposte, entriamo. Vediamo se è accaduto qualcosa, poi usciamo. Se non è successo niente non lo saprà nessuno, in caso contrario lei tornerà all’ufficio di polizia e faremo una denuncia-verbale, poi si seguirà la solita procedura”. Ci avvicinammo alla porta e Marco bussò. Nessuna risposta. Allora estrasse dal giubbetto una specie di ‘paspartu’ e aprì con circospezione. Riaccostò la porta e accese l’interruttore. In camera da letto seduto per terra con la schiena appoggiata al letto giaceva il mio vicino di casa, in pigiama, immobile con i palmi delle mani aperte: nella destra teneva un crocefisso senza il Cristo ma con i segni dei chiodi nel legno, nell’altra un bossolo vuoto, che il signor Marco giudicò a prima vista un calibro 9. Nessuna arma. Rimasi come impietrita dalla scena. Quel pover’uomo, che mi era stato vicino di casa per tanto tempo senza fare alcun rumore, se n’era andato nella più totale solitudine. Che brutta morte, morire soli. Penso sempre a me stessa. L’idea mi terrorizza.

“Dobbiamo andarcene subito. Lei venga domattina al Commissariato denunciando il suo sospetto che possa essere accaduto qualcosa al suo vicino di casa. Poi vedremo”. Ci avviammo all’uscita, ma sul tavolino della prima stanza notai che c’era questa busta  gialla con il suo indirizzo. “Signor Marco” dissi “questa busta stava per essere imbucata, perché è già pronta affrancata. Io la spedirei. Mi parrebbe di eseguire un’ultima volontà”. “Va bene, purché non dica niente a nessuno. Ci penserà il destinatario. Ma forse più che imbucarla bisognerebbe consegnarla a mano, perché il timbro postale reca la data della partenza e non sarebbe credibile che fosse stata imbucata dopo la morte. Ci pensi lei. Dica al destinatario che il mittente glie l’aveva affidata per imbucarla e lei poi se n’era scordata e così ha pensato di recapitarla a mano per recuperare il tempo perduto“.

Richiusa la porta, ci salutammo a bassa voce. Io rientrai in casa, ma ero molto turbata, perché sapere che al di là della parete accanto c’è un morto, dà sensazioni spiacevoli. Questa è la busta. Conto che lei capisca. Sono tornata al commissariato stamattina secondo gli accordi presi con il poliziotto e due ore fa sono venuti i vigili del fuoco che hanno aperto forzando la serratura. Poi hanno chiamato un’ambulanza, hanno rimosso il cadavere e non ho più avuto altre notizie».

«Ecco la busta» e così dicendo me la porse. La rigirai più volte fra le mani controllando l’indirizzo. Era esattamente il mio. Non c’era mittente. La signora si alzò. L’accompagnai all’ingresso e la ringraziai, promettendole di non dire mai a nessuno come ne ero venuto in possesso.

Ricontrollai la busta, prima di aprirla. Ero perplesso, anche se il racconto della signora che me l’aveva recapitata era credibile. Avevo la sensazione che contenesse un libro o qualcosa di analogo. Alla fine mi decisi ad aprirla. C’erano una lettera senza data, firmata Mario Rossi e un’agenda. Il mittente aveva scritto:

Egregio signor Peano Bartozzi. Le mando un diario: è il racconto della mia misera vita, che nessuno ha mai conosciuto. Per scrivere non ho trovato di meglio che una vecchia agenda voluminosa con spaziose pagine bianche e mai utilizzata per segnare gli impegni dei giorni. Sappia che io sono povero, come capirà meglio leggendola –  perché sono certo che lei la leggerà – e capirà perché non ho potuto usare singoli fogli bianchi. Lei si chiederà perché Le ho destinato queste memorie. Lei non mi conosce e il mio nome non Le dice niente, perché è il più banale e diffuso in Italia, ma io La conosco e so che è un giornalista scrittore molto onesto, diversamente dai molti che rigano la sabbia. Ne faccia ciò che riterrà opportuno, perché a me non servono più le memorie dei miei giorni, ma se ne ricaverà uno scritto cambi i nomi, affinché dai nomi non si risalga a una storia reale. Quando riceverà il plico io non sarò più in questo mondo, non perché intenda darmi la morte, ma perché la sento vicina. Sta venendo da sé, senza chiamarla. Me ne vado senza alcun rimpianto o rammarico. Sono solo molto stanco, più del tempo che il destino mi ha assegnato. Le auguro ogni bene e soddisfazione professionale. Cordialmente. Mario Rossi.

P.S. In casa, sopra una pila di libri troveranno una mia lettera aperta contenente il mio testamento. Sono molto povero, ma sappia che ho disposto di nominare il dott. Spinelli beneficiario della mia indennità di fine rapporto di lavoro come premio di laurea e gli lascio anche i miei libri; non sono molti, perché ho letto e riletto sempre gli stessii. Il più gualcito perché il più studiato è l’Inferno della Commedia di Dante, mentre non ci sono il Purgatorio né il Paradiso. Penso che ogni volta che uno legge attentamente un libro è come lo riscrivesse a modo suo e se lo legge più volte, ogni volta lo riscrive in modo diverso. Ecco perché i miei libri non occupano più di mezzo metro cubo, ma quante volte li ho riscritti! È come se anch’io, nel mio niente, sia stato uno scrittore. I pochi mobili non hanno alcun valore e li porterà via una qualche cooperativa dello scarto. La prego di verificare che la mia volontà sia eseguita, ma senza mai collegare la mia vicenda umana e il mio nome con la famiglia del defunto poliziotto Spinelli, affinché nessuno sappia. Grazie ancora.”

Sfogliai l’agenda. Pagine scritte con grafia minuta, ma chiara, di chi riferisce eventi, da cui si è distaccato per tempo trascorso o per disinteresse personale. Ero perplesso, ma anche incuriosito. La cosa mi appariva quanto meno strana. Perché mandare a me un diario? Faccio il critico sulla pagina degli spettacoli di un quotidiano di destra e cerco di riferire i miei giudizi con onestà. Ho pubblicato una raccolta di racconti che qualcuno definisce metafisici per evitare di trattarmi da visionario, ma questo basta per essere destinatario di una storia sicuramente molto personale?

Incominciai a leggere partendo dalla prima pagina. Riportava i fatti salienti di una vita.

Ho pensato di rendere il contenuto in forma di racconto per conservare, nello stile, lo stesso distacco che il compilatore aveva riservato alla storia della sua esistenza. Nella storia data alle stampe cambiano solo i nomi per rispettare la volontà del signor Rossi.

* * *

Giovanni Rossi era un operaio metalmeccanico, di quelli che si potevano definire “cattivi”, nel senso di irremovibili e cazzuti: sempre pronti a ogni sciopero contro tutti, non contava l’obiettivo, purché costituisse una volontà di rottura con il sistema capital borghese, contro i detentori di ogni tipo di potere, contro ogni chiesa, perché coartava la libertà di pensiero. Aveva avuto un figlio che avrebbe voluto chiamare Joseph, come Stalin, o Antonio come Gramsci o Palmiro, ma al momento di dichiarare la nascita all’ufficiale dell’anagrafe comunale aveva ripiegato su Mario, perché non vuol dire niente, quasi un nessuno, un anonimo, soprattutto se abbinato al cognome Rossi. La madre faceva la casalinga, ma arrotondava le entrate familiari facendo le pulizie in un grosso studio legale. Il padre aveva allevato il figlio a pane e Marx, di cui, tra l’altro non capiva niente, ma che rappresentava il simbolo di una contrapposizione ideologica ai sistemi occidentali. I due genitori erano riusciti a far studiare il figlio, che, dopo le superiori, si era iscritto all’università, facoltà di scienze politiche, anche per assecondare il padre che lo vedeva in carriera di partito o sindacale o parlamentare.

Era l’anno 1968. In università si seguiva con grande attenzione e voglia di imitazione la rivolta degli studenti parigini, che avevano fatto scoccare la scintille di un movimento volto a cambiare le regole della società, cioè a cambiare il mondo. Mario, con altri, avevano costituito un gruppo che aveva posto l’obiettivo di una rivolta totale: studiare poco, piani di studio liberi e individuali, voti collettivi, minacce ai docenti, lotte violente ai cosiddetti “baroni”.

Gli scioperi si moltiplicavano, la piazza e la strada prendevano il posto dell’aula, la reazione diventava ogni giorno più violenta e incontrollabile da parte delle forze dell’ordine.

Nel mese di novembre le cose peggiorarono.  Fu organizzata una dimostrazione  con corteo. Mario Rossi era tra i più attivi organizzatori della sfilata. Bastoni di legno a forma di manganello, passamontagna in testa pronto a essere calato sul volto per sfuggire a ogni riconoscimento. Qualcuno si era portato anche un’arma da fuoco, forse per sentirsi più guerriero di altri.

Dalla strada erano spariti i passanti. Le saracinesche dei negozi abbassate, qualche coraggiosa automobile parcheggiata o meglio abbandonata da guidatori impauriti. I rivoltosi gridavano slogan contro tutti in un bailamme che faceva paura a chi guardava da dietro le persiane dei piani più alti.

Il corteo, sempre più barricadiero, raggiunse una piazza e qui la polizia aveva schierato uomini in assetto “rivolta”, idranti e furgoni blindati.

Alcuni manifestanti abbassarono le calzamaglie e lanciarono blocchetti di porfido contro i poliziotti, che tentavano di proteggersi dietro gli scudi di plastica. Giunsero a contatto e iniziò una rissa. Vicino a Mario Rossi uno studente estrasse dallo zaino una pistola, ma sul punto di sparare una pallottola di gomma sparata dalla polizia lo colpì alla spalla, costringendolo a mollare l’arma per terra. Mario la raccolse e, preso da un istinto condizionato da anni di odio, sparò contro un agente. Lo vide accasciarsi e, preso da paura raccolse il bossolo, arretrò in mezzo alla calca, si portò a lato dei rivoltosi vicino a un cassonetto dei rifiuti, constatò che la matricola fosse stata abrasa, gettò l’arma nel cassonetto  e poi fuggì.

Nonostante il suo odio ereditario verso tutto ciò che poteva essere considerato ordine consolidato, anziché soddisfazione per essersi comportato da coraggioso guerrigliero provò un senso di indefinibile disagio.

Il giorno dopo lesse per la prima volta un giornale considerato moderato. Riportava una fotografia dei tafferugli. Si vedeva un rivoltoso con passamontagna che teneva una pistola ancora alzata contro un agente barcollante. Si riconobbe, anche se aveva la certezza che nessuno, nemmeno i suoi compagni, avrebbero potuto individuarlo. Ma la notizia più drammatica riferiva che l’agente trasportato in ospedale vi era giunto privo di vita: era morto sull’ambulanza durante il tragitto. Lasciava la moglie e un figlio di cinque anni.

Mario Rossi ebbe una prima reazione di autoassoluzione: era o non era una guerra contro il potere e i suoi servi? E nelle guerre non c’è sempre chi muore? Dunque era destino che lui raccogliesse quell’arma e sparasse e un agente morisse! Non aveva premeditato niente. Aveva solo raccolto un’arma per terra e si era difeso. Ecco ciò che cercava: una spiegazione di legittima difesa.

Nei giorni successivi, quasi senza rendersene conto, incominciò a diradare le sue frequenze al centro sociale dove i più arrabbiati continuavano a progettare resistenze e insurrezioni. Si sentiva meno sicuro, meno orgoglioso di prima, anche se continuava a cercare attenuanti e autoassoluzioni.

Dopo alcuni mesi si laureò. Ma la conclusione degli studi non costituì motivo di autostima né di soddisfazione. Che se ne faceva di una laurea in scienze politiche in concorrenza con tanti compagni che tendevano a sfruttare il titolo per una occupazione tutto sommato borghese? Presentava il curriculum, ma all’incontro con il capo del personale riceveva sempre la stessa risposta formale ma evasiva: “Grazie per averci sottoposto i suoi dati, ora esamineremo il contesto e se ci saranno possibilità di un seguito, la richiameremo”. Ma Rossi capiva, osservando l’interlocutore, che era quella laurea in scienze politiche che risultava sgradita. Così decise di cercare un posto di lavoro senza declinare titoli di studio oltre la terza media e finalmente trovò occupazione come magazziniere. Gli assegnarono il compito di guidare un carrello elevatore munito di forca: doveva spostare bancali di merce e allinearli sulle scaffalature. Ecco dov’era finito il sogno di un futuro di giornalista arrabbiato o di politico arringatore di folle.

Incominciava a capire che per guadagnarsi da vivere bisogna lavorare e sudare: altro che guerriglia da strada! Con quella si può anche ammazzare un poliziotto, ma poi bisogna fare i conti con la propria vita, che non vale più di quella degli altri. Ma, soprattutto, incominciava a ragionare sul rapporto tra la carne da cannone buttata allo sbaraglio per le strade e i furbi che li strumentalizzavano a beneficio della propria carriera politica.

Dopo un periodo di auto giustificazione, incominciò a ripensare e a rivedere la scena del poliziotto che cade colpito da un colpo di pistola e a mano a mano che i giorni passavano quella scena gli pareva un’ombra di Banco. Si rendeva conto che intorno a lui stava prevalendo il nulla e stava scivolando verso un nichilismo autodistruttivo.

Aveva conservato il ritaglio del giornale che informava della morte dell’agente, Pasquale Spinelli. Così risalì all’indirizzo. Una sera finito il suo turno di lavoro, vi si recò, controllò la pulsantiera del citofono. La moglie dell’agente abitava ancora in quella casa. Si fermò davanti all’ingresso proprio mentre un uomo stava uscendo. “Scusi abita qui la signora Spinelli?” chiese fingendo di non aver controllato i campanelli. “Sì. Se cerca la vedova dell’agente Spinelli, abita qui, ma ho visto che sta scendendo le scale” rispose l’uomo, che si allontanò di fretta.  Mario Rossi rimase a lato dell’ingresso e dopo pochi secondi vide uscire una donna di bell’aspetto, sulla trentina con un bambino per mano. Si allontanò in direzione opposta, perché la donna non sospettasse di essere seguita.

Quel senso di auto giustificazione che lo aveva sorretto nei primi tempi sembrava attenuarsi. “Ho pur sempre ucciso un uomo!” si diceva. “Ed era un lavoratore come tanti altri, venuto dal meridione, perché non aveva trovato di meglio per mantenere sé e la sua famiglia e io l’ho ucciso. Posso continuare a colpevolizzare il sistema e a subire le direttive di chi sta in alto e non conosce nemmeno Carlo Marx, perché di questo pensatore non gli importa nulla, perché per lui un Marx vale un altro? Ma il fatto che io abbia tirato quel grilletto in quelle circostanze può continuare a considerarsi un’attenuante? Ma anche se fosse un’attenuante che cosa cambierebbe? Un’attenuante attenua un fatto che comunque esiste ed è quel fatto che conta!”.

Le ideologie incamerate nel centro sociale e le letture sparse e poco digerite di libri di sociologia e politica non riuscivano più a giustificare il gesto criminoso e a cancellare il ricordo di quell’uomo che stava cadendo a terra dopo lo sparo. Le sue certezze incominciavano a oscillare e lentamente a sbandare. Ma il colpo di grazia glie lo diede una sera tornando dal lavoro il giorno successivo ad altri scontri che continuavano sulla scia di quello che ormai chiamavano il Sessantotto. Era su un tram semivuoto. Sul sedile vicino al suo un ragazzino adocchiava i titoli del giornale che il padre stava leggendo. «Papà, perché quelli che uccidono non vengono arrestati?». «Perché così è la vita!» rispose il padre in evidente imbarazzo a trovare una risposta migliore.

Questa domanda e l’evasiva risposta avrebbero dato a Mario Rossi spunti di riflessione assai problematici.

* * *

Aveva troncato definitivamente con i compagni di tanti tumulti. Per lui il centro sociale era come una casa abbandonata. Le ideologie che avevano agitato la prima giovinezza erano scadute. Non pensava a un futuro, viveva solo in una sterile quotidianità. Il passato si allontanava. Rimaneva solo il rumore di quello sparo confuso nel tumulto e la figura di un uomo che crolla per terra. Quella non illanguidiva nella memoria, anzi, rimaneva vivida come un tormento della mente e a poco a poco dell’anima, anche se di questa l’agitatore non ne accettava l’esistenza.

Non si chiedeva perché aveva ucciso un uomo. Questo lo sapeva. Era semplice da incasellare nelle categorie dei comportamenti umani. Il crescente tormento era nella domanda di quel ragazzino a sua padre quella sera sul tram: “perché quelli che uccidono non vengono arrestati?”. Già, perché lui era libero? Perché non era stato individuato! Ma questo non giustifica. Non basta nascondersi dietro un passamontagna. Non era certo un lettore della Bibbia, ma aveva letto il Cain di Byron e ricordava che se uno non giustifica i suoi atti davanti agli uomini deve comunque fare i conti con se stesso.

Per un attimo Mario Rossi pensò che avrebbe potuto costituirsi, autodenunciarsi e liberare il tumulto che lo tormentava come un pensiero fisso, inamovibile, in qualche recesso della sua mente, perché non voleva ammettere di avere una coscienza. La coscienza è un inganno a se stessi, aveva sempre pensato. La ricordanza, che sia o no un fenomeno biologico o più precisamente neurologico, è pur sempre un tarlo di cui ci si può liberare solo cancellando la vita o con la caduta in uno stato vegetativo. Costituendosi avrebbe chiuso la partita. Confessando si sarebbe come liberato. Il senso di sgravante liberazione è la molla che fa scattare molte confessioni. Inoltre, sapeva che i giudici erano molto comprensivi. Le attenuanti c’erano tutte. Forse l’avrebbero persino assolto, perché c’erano anche giudici che ritenevano, applicando con massima elasticità il nuovo principio della interpretazione evolutiva della legge, che ammazzare un poliziotto non è reato. Avrebbe pagato il suo debito con la giustizia con poco, forse con niente. Ma poi pensava: si può ritenere di aver pagato un debito solo perché il creditore ha avuto un momento di paura o di generosità. Che giustizia è quella che consente di non pagare i debiti? Ricevere un’assoluzione o beneficiare di un’amnistia cancellano un reato, non il fatto criminoso che oggettivamente persiste. E se un giorno Uno disse: ti sono rimessi i tuoi peccati, non fu per giustizia o generosità, ma per misericordia, che non è un istituto giuridico, ma attiene alle prerogative dell’Uno.

Già! Una lieve condanna o un’assoluzione non avrebbero fatto tornare in canna quel proiettile assassino. Quell’uomo che stramazza era un figura appiccicata alla sua mente; ormai ne faceva parte. L’Uno non assumeva una identità trascendente, ma una giustizia non dell’uomo e delle sue leggi e dei suoi gestori incominciava a radicarsi e mettere in moto un auto processo, in cui non esistevano: un accusatore, un difensore e un giudice, ma una colpa che attendeva una espiazione e un risarcimento. No! La giustizia degli uomini non gli andava bene. La riteneva inadeguata. E poi, non era contro la giustizia degli uomini che aveva eretto barricate, distrutto automobili, infranto vetrine e… sparato a un uomo?

La conclusione del processo, dopo aver scartato quello degli uomini perché troppo facile e benevolo, quindi ingiusto, era una condanna a vita e un risarcimento occulto alla vittima del delitto, fino al punto che lui stesso sarebbe diventato una vittima. L’orfano che aveva visto uscire dal portone con la mano nella mano della vedova era la prima vittima; la seconda sarebbe stato lui stesso, come se il proiettile assetato di sangue fosse tornato indietro come un boomerang  colpendo anche colui che l’aveva sparato.

Così decise e di conseguenza si comportò.

* * *

Mario Rossi svolgeva le sue mansioni di magazziniere carrellista con diligenza e continuità. Il datore di lavoro non aveva alcun motivo di lamentarsi, anzi ogni anno gli riconosceva un premio di produzione di spontanea volontà. D’altra parte il dipendente lo meritava: mai un’assenza per malattia, mai uno sciopero, nessuna iscrizione a sindacati, nessuna lamentela di colleghi o superiori, mai un errore per aver collocato pacchi di merce fuori ordine; un dipendente modello, come si direbbe. Mancava solo di spirito di socializzazione; era silenzioso come un automa. Non mangiava in mensa; ma alla pausa pranzo, che durava un’ora, scartava un panino e lo mangiava in un angolo del magazzino, vicino a un termoconvettore nella stagione fredda. In azienda lavoravano prevalentemente uomini. Nel magazzino svolgeva mansioni anche un’impiegata addetta alla contabilizzazione delle bolle di carico e scarico della merce e un giorno gli fece capire che avrebbe gradito un po’ di compagnia; ma il Rossi manifestò in risposta una disarmante freddezza. Si diceva: “forse un recluso può pretendere o accettare compagnia femminile? Una condanna è una condanna. Chi sbaglia paga e cappellani, psicologi e giudici di sorveglianza ci sono solo per le carceri mandamentali; per i reclusi che sono in attesa della fine della condanna, non per chi ha subito un auto processo”. Non aveva rimorsi, né istinti di rivolta verso sistemi sociali. Per uno come lui che aveva lottato e sparato per demolire un sistema ed era transitato dall’anarchia al nichilismo esisteva solo il tempo monotono che scorre verso la sua fine. Il nichilismo è sostanzialmente questo: è la soppressione di ogni spirito di reazione, è un suicidio incompiuto, quindi permanente. Non voleva contatti con l’organizzazione della società; per questo incassava la paga in contanti alla cassa e così non aveva avuto bisogno sin dall’inizio di aprire un conto bancario per l’accredito. Non era odio verso il potere finanziario, ma voleva star lontano dalle organizzazioni burocratiche e le banche, ai suoi occhi, erano soprattutto come occhi di un “grande fratello”, che, alla fine, entra nella tua privatezza e Rossi la sua privatezza la difendeva come l’unico e l’ultimo dei suoi diritti.

* * *

Era la settimana di Natale in un inverno rigido. Alla neve era seguita una leggera pioggia, ma il giorno dopo la temperatura era scesa alcuni gradi sotto zero. Era gelato tutto. Dai tetti pendevano stalattiti come cristalli appuntiti. I marciapiedi erano una lastra di ghiaccio. Rossi, finito il turno di lavoro, si era recato in una ferramenta che sapeva ben fornita di appendiabiti. Camminava con attenzione per timore di scivolare e si ricordò che il negozio era in una trasversale della via dove aveva scoperto che abitava la vedova del poliziotto. Provava un senso di disagio a passare nei pressi, ma ormai era vicino. Camminava davanti a lui una donna avvolta in una sciarpa con un sacchetto di plastica per mano. Evidentemente era andata a far spese come si capiva dalla pubblicità dei sacchetti. Su un tratto ghiacciato la donna improvvisamente scivolò, rovesciando per terra il contenuto dei due sacchetti. Rossi corse verso di lei e l’aiutò a rialzarsi, ma la donna si reggeva a fatica. Aveva preso una storta dolorosa. Rossi le raccolse gli acquisti e li ripose nei sacchetti; ma la donna, che ora vedeva più attentamente e gli pareva una figura non nuova non riusciva a camminare con il suo carico di alimentari. Rossi, si offrì di accompagnarla. La donna lo ringraziò: «Non ce la farei proprio da sola. Devo aver fatto un passo troppo lungo e sono scivolata» disse, quasi per giustificarsi, perché chi cade da sé si sente istintivamente in colpa. «Non si giustifichi» soggiunse Rossi «stava capitando anche a me pochi passi prima di lei. Il ghiaccio è traditore. Si appoggi alla mia spalla; io le porto i sacchetti». Lentamente camminarono per un centinaio di metri. Giunti davanti a un portone, che ora Rossi incominciava a ricordare di aver già visto, la donna disse: «Sono arrivata. Ora devo salire le scale fino al secondo piano». «L’aiuto» soggiunse Rossi. Salirono ancor più faticosamente. La donna estrasse dalla tasca un mazzo di chiavi e riuscì ad aprire la porta. Si appoggiò allo stipite e poi a un mobile. Rossi la seguì con i sacchetti fino al tavolo della cucina dove li depose e si preparò ad uscire. La donna insistette perché si fermasse un attimo per un caffè. Rossi non si sentì di rifiutare, anche se il suo disagio aumentava. «Glie lo faccio fresco in un attimo. Ora carico la moka e ne prendo anch’io con lei, perché mi sono veramente spaventata e ho bisogno di un tonico. Se non ci fosse stato lei, sarei ancora sul marciapiede. Mio figlio, che fa la terza media e promette bene come studente e anche come giocatore di pallavolo è andato in palestra per un allenamento e non avrebbe certo potuto vermi incontro. Non badi al disordine, perché, dopo la morte di mio marito, lavoro anch’io, non bastando la pensione per mantenere agli studi il mio ragazzo». Sorseggiarono il caffè, poi Rossi si accomiatò. La donna lo ringraziò di nuovo e l’uomo scese in strada. Si avviò verso la ferramenta, ma il suo animo era in subbuglio: aveva fatto la figura del buon diavolo proprio con l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare, perché essere solleciti con chi continua a penare per una propria colpa non è riparazione, ma è ironia della sorte che sembra irridere al sentimento di colpa.

Rossi tornò a casa e per ore continuò a pensare a quella famiglia di madre e figlio, in evidenti ristrettezze finanziarie, che avrebbe vissuto per sempre, per qualsiasi futuro, in un vuoto incolmabile di affetti, per colpa di un pazzo esaltato, che con lucidità un decennio prima aveva tirato un grilletto. ” Il minimo che possa fare, per pagare una rata del mio debito è di disporre un aiuto finanziario. A me, per vivere, basta la metà del mio salario. Devo trovare una soluzione per far pervenire il mio soccorso nel più impenetrabile anonimato”.

Pensò varie soluzioni, che ad una ad una scartò ritenendole non sicure per l’anonimato. “Non posso transitare per una banca, né posso lasciare una busta con soldi nella cassetta delle lettere, perché la donna potrebbe portare il contenuto alla polizia, nel dubbio si trattasse di danaro di illecita provenienza, né posso chiedere l’aiuto di un parroco perché non so se la famiglia beneficiaria sia vicina o lontana dalla chiesa. Ci deve essere un’altra soluzione”. La trovò.

* * *

Il notaio Gelmini, godeva fama di gran galantuomo. Non aveva uno studio affollato di segretarie, o di “signorine” come si dice, perché aveva sempre rifiutato l’idea dello studio-azienda. Aveva scartato la clientela del diritto societario e preferiva occuparsi di successioni, di testamenti e diritto di famiglia. D’altra parte, poteva permetterselo, avendo una solida situazione patrimoniale per eredità dal padre. Erano le sei del pomeriggio. Rossi suonò alla porta dello studio. Una segretaria venne ad aprire.

«Buona sera. Desidererei conferire con il signor notaio» disse Rossi. «Veramente il notaio tra mezz’ora intende chiudere lo studio» disse la segretaria.«Se è per questo, non è un problema, a me basta anche meno». «Devo chiedere. Chi devo annunciare chiese. «Mario Rossi». «Già: Mario Rossi! E perché non Pietro Bianchi» lesse l’uomo nello sguardo perplesso dell’impiegata, che, poco convinta, si avviò verso lo studio del notaio. Dopo aver constatato che non stava telefonando, entrò. Ritornò dicendo:«Si accomodi. Il notaio la riceve».

Rossi si fermò sulla porta in attesa dell’invito a entrare. «Venga» disse il notaio «In che cosa posso esserle utile».

«Grazie per avermi ricevuto, anche perché ricevere uno che dice di chiamarsi Mario Rossi esige un certo coraggio. Ora sappia che mi rivolgo a lei, perché sono note la sua onestà e la discrezione. Io ho bisogno di una prestazione professionale, detto in termini tecnici, ma soprattutto di un suo piacere personale, che, oso sperare a titolo pressoché gratuito. Veda. Io vorrei fare pervenire ogni mese a una vedova la somma di seicento euro, ma nel più totale anonimato. Voglio essere certo che la signora in questione non abbia dubbi sulla liceità di questa erogazione e un notaio, soprattutto se si tratta del notaio Gelmini, dà tutte queste garanzie, ma soprattutto non ne deve conoscere la provenienza. Ora, signor notaio, lei si chiederà perché un operaio, quale io sono, versi metà della sua paga mensile a un’altra persona, che tutto sommato non ha mai nemmeno conosciuto. Ma è così. La prenda come una bizzarria della vita. La somma è risibile, ma io non dispongo di mezzi superiori. Non mi chieda di più, perché non saprei nemmeno io cosa risponderle. Mi rendo conto di importunarla per così poco, ma la prego di aiutarmi a risolvere un mio problema. Non c’è niente di disonesto, semmai è una bizzarria». Il notaio Gelmini aveva ascoltato senza mai interrompere il suo interlocutore, ma lo aveva scrutato a lungo e si era convinto che si trattava di una persona strana, ma per bene.

«Si può fare» disse il notaio. «Mi dia l’indirizzo e le generalità della signora. Lei mi porti ogni mese la somma e io la riverserò alla persona da lei indicata, chiedendole ogni volta una ricevuta, che poi le girerò. Capisco che dietro questo gesto ripetitivo ci devono essere motivi profondi, che io non desidero nemmeno conoscere. Le farò questa prestazione a titolo gratuito, perché capisco che in caso contrario dovrei trattenere una parte della somma riducendola a danno della beneficiaria».

Rossi si profuse in sentiti ringraziamenti e dalla fine di quel mese portò al notaio la somma annunciata e questi a versarla alla signora Spinelli, che, nella impossibilità di conoscere il nome dell’erogante, incassava ogni volta la somma ringraziando la Provvidenza dell’aiuto che sollevava le sorti del suo bilancio familiare.

* * *

Passarono quasi dieci anni. L’orfano del poliziotto stava portando a termine i suoi studi universitari. Rossi si era informato alla segreteria dell’università sui nomi dei laureandi e la data di discussione delle lauree. Il giorno previsto, preso un giorno di ferie, si era volutamente confuso con i parenti e i conoscenti di altri laureandi per non farsi notare da Spinelli. Vide la vedova, un po’ invecchiata ma ancora piacente, in attesa nel corridoio della facoltà. Uscì un ragazzone con una sorriso di soddisfazione. Madre e figlio si abbracciarono a lungo commossi. Le donna piangeva. Rossi la udì solo dire «Ah! Se ci fosse qui il tuo papà». Rossi si allontanò. Gli pareva che il destino si fosse compiuto.

Uscendo dal palazzo universitario, passò davanti a un cassonetto dei rifiuti e vide per terra una croce in legno senza Cristo. La raccolse; la intascò e per l’ultima volta rincasò.

* * *

Ho sorvegliato l’esecuzione del testamento. Tutto si è svolto come era stato disposto. Parola di giornalista onesto.

Il notaio Gelmini alla fine del mese incontrò la signora Spinelli per l’ultima volta. «Signora, le devo comunicare che questo è l’ultimo versamento, perché il suo benefattore mi ha comunicato alcuni giorni fa che non sarà più in grado di versare somme. Credo che sia un brav’uomo, perché credo di aver capito che le riservava metà del suo salario mensile» disse il notaio.

«Se lo incontra ancora gli rappresenti tutta la mia gratitudine. Ora sono anche più sollevata perché mio figlio si è laureato in giurisprudenza pochi giorni or sono e ora potrà cercarsi un posto di lavoro» soggiunse la signora Spinelli.

«Si è laureato bene, cioè con buoni voti?» chiese il notaio.

«Ottimi voti e nel tempo giusto» precisò la signora con giusto orgoglio.

«Se interessa, lo mandi da me mercoledì prossimo alle dieci. Può darsi che abbia qualcosa da offrire» disse il notaio.

La signora Spinelli ringraziò commossa. Qualche volta la vita pare essere meno grama di quel che sembra.

Ma queste ultime considerazioni non sono ovviamente scritte nell’agenda, che si ferma qualche giorno prima, ma sono una mia breve e libera aggiunta.

Mi chiedo spesso: quanto vale la vita di un uomo? Niente e tutto? E se la stessa sorte accomuna due uomini? Ancora niente e tutto. La vita vale perché è vita.

***

[1] ilDialogo pubblica un racconto di Peano Bartozzi con la speranza che non ritorni di attualità in questi giorni “agitati”.