(Pietro Bonazza)

Elusione, valide ragioni economiche e principio di proporzionalità

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(Articolo pubblicato in “Bollettino Tributario d’informazioni”, 2002, n. 4)

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Si dice che il francese e l’italiano siano le due lingue più razionali oggi parlate nel mondo. Se lo sostengono i filosofi del linguaggio, possiamo crederlo e magari vantarci con i cugini d’Oltralpe per tanta fortuna, che, però, dovrebbe spingerci a non trascurare almeno la logica elementare, pur senza pedante acribia che, soprattutto nella formazione delle leggi, dovrebbe comunque essere un pregio, affinché le norme siano chiare e precise, con più facile adeguamento dei cittadini. Invece, il nostro legislatore continua in una sciatteria nella formazione dei testi normativi, che contraddice la razionalità del linguaggio di cui dispone, quando addirittura, non per sfoggio di raffinatezza intellettuale, ma per disonesta ambiguità, non ricorra alla metafisica, che nel diritto positivo soprattutto tributario è causa di disorientamento del contribuente e della Amministrazione finanziaria, attivando contenzioso, alla fine risolto sempre in un danno economico per entrambe le parti e, quindi, per la collettività.

Il discorso è anche politico e si aggrava in periodi storici caratterizzati da quell’insano massimalismo, che si associa a una ideologia nemica dell’impresa e della logica elementare.

L’art. 37 bis del DPR 600/1973 è uno dei tanti esempi di “fumi giuridici”, che, alla fine, si risolvono in insulti al buon senso.

La norma vorrebbe essere la madre di tutte quelle che sono qualificate “antielusive” e proprio per questa sua pretesa rappresentatività suggerisce quattro osservazioni:

1. l’analisi del concetto di elusione e gli antecedenti storici dell’art. 37bis;

2. l’analisi del concetto di “valide ragioni economiche”

3. la norma n. 147 della Commissione Associazione Dottori Commercialisti di Milano

4. il concetto di “principio di proporzionalità”.

 

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Concetto di “elusione” e antecedenti storici dell’art. 37-bis

Il sogno di un ministro delle finanze è svegliarsi il mattino e trovare sul comodino della sua camera ministeriale il pacco di miliardi che il contribuente sua sponte gli ha spedito nella notte con tanti ringraziamenti. La vita non è così semplice e talvolta, come è accaduto al ministro Giuseppe Prina nel 1814, finisce in linciaggio. È destino che lo sceriffo di Nottingham non abbia mai pace, perché sotto ogni cielo stellato il rapporto con il contribuente è sempre dialettico. Tre sono le cause che determinano una riduzione del gettito “sperato” o “sperabile”: l’evasione, l’elusione e l’erosione.

Che l’evasione sia un atto delittuoso nessuno lo mette in dubbio, perché viola l’art, 53 della Costituzione oltre che il più fondamentale rapporto di correttezza tra il cittadino e la collettività o la societas, a cui non potrebbe, né vorrebbe rinunciare di appartenere, non certo per patriottismo, ma per tutte le convenienze del vivere in comunità.

L’erosione non dipende dal contribuente, ma dalle leggi stesse, in genere agevolative, che riducono l’imponibile o l’imposta e, quindi, il gettito.

Resta l’elusione, che da espressione dell’intelligenza e della fantasia del contribuente alla ricerca di un minor costo nell’ambito della legalità, una ideologia pro fisco ha trasformato in comportamento colpevole e sanzionabile. La debolezza della tesi ha cercato conforto nella diffusione anche in altri paesi dell’ideologia dell’antielusione, secondo il concetto illogico che “molti fanno legalità”. Se fosse una conclusione corretta, a vincere, secondo il principio maggioritario, sarebbero i contribuenti, che a contarli sono certo ben più numerosi dei ministeri delle finanze di tutto il mondo.

L’elusione può definirsi in molti modi, ma due sono rilevanti:

1) è posto in essere un atto senza alcun senso economico, al solo scopo di ottenere vantaggi tributari. A mio avviso, non si tratta di elusione, ma di evasione vera e propria, poiché manca la razionalità economica, salvo la riduzione del carico fiscale. Non vedo, sul piano concreto e a prescindere da valutazioni etiche o psicologiche, alcuna differenza con il comportamento di chi compie un atto economico e ne sottrae l’evidenza fiscale. Classificare questo atto evasivo nell’elusione, comporta confusione non solo concettuale, ma anche strumentale, poiché non si può combattere l’evasione con gli strumenti dell’elusione. Se, per esempio, viene posto in essere un atto senza oggetto reale mediante una simulazione, si può cadere nella truffa, che non ha nulla in comune con l’elusione;

2) è formalizzato un atto diverso da quello desiderato, ma idoneo a raggiungere lo stesso risultato, comunque rientrante in uno dei tipi consentiti dall’ordinamento, con il vantaggio di essere fiscalmente meno costoso. In altri termini: tra due forme contrattuali o tra due istituti, il contribuente sceglie quello che “costa” meno. Questa manifestazione di intelligenza è chiamata elusione, perché l’ideologia dell’antielusione vorrebbe che il contribuente scegliesse, invece, quella che fa più piacere al Fisco.

È ovvio che la realtà sia più complessa e che vi possono essere situazioni di fatto che oscillano tra le due ipotesi estreme, come è ovvio concludere che se la prima ipotesi è più correttamente evasione e la seconda manifestazione di “intelligenza”, ogni lotta all’elusione finirebbe per non trovare alcuna giustificazione, perché l’elusione non esisterebbe. Ma si può subito osservare che la sua esistenza non è nemmeno necessaria.

Non intendo difendere l’elusione, ma affermare che l’ideologia dell’antielusione è perdente, perché, il soggetto passivo d’imposta ha sempre la possibilità di scegliere il “niente”, con danni per l’economia nazionale, che si ritrova, alla fine, con strutture imprenditoriali ingessate. L’antielusione va contro la logica e la natura, ignora l’antropologia e l’etologia, e, quindi, non riuscirà a conseguire altro risultato che la distorsione dei contratti, le simulazioni, le dissimulazioni, i blocchi di operazioni che il mercato esigerebbe per starci in condizioni di concorrenzialità vincente. Alla fine, è Davide che atterra Golia, cioè il ministero delle finanze.

Queste riflessioni, in sé banali e poco originali, hanno però il pregio di ricondurre il problema alla sua concretezza e consentono di constatare che, escluso il tipo 1) (elusione in realtà evasione), il tipo 2) può essere contrastato con due strumenti legislativi:

a) una norma che individua tassativamente i casi, ai quali si può applicare l’attività dell’Amministrazione finanziaria;

b) una norma di carattere generale, che, al di là di formule ipocrite, si traduca in un imperativo del tipo: “è elusiva ogni operazione considerata tale dall’Amministrazione finanziaria”. Che cosa resti di un sistema democratico che adotti questa soluzione è facile immaginarlo, tanto più se la macchina del fisco non funziona o funziona in un modo per gli amici e in altro diverso per i nemici, secondo la definizione di Giolitti. Si otterrebbe lo stesso risultato dell’affidamento della democrazia in gestione a un dittatore. A meno di scegliere una delle tante terze vie all’italiana, cioè scrivere la norma generale e di seguito una “contronorma”, che renda inapplicabile la prima, così accontentando tutti, compresi i furbi, e generando contenziosi, che dopo generazioni ingombrano ancora la macchina della giustizia tributaria. Gli esempi si sprecherebbero, ma un breve escursus storico non guasta alla definizione del problema.

Negli ultimi anni Ottanta imperversava un ministro delle finanze, che non era una cicala, ma un massimalista emulo e più fortunato del Prina (oggi i ministri delle finanze non si linciano, semmai, finito il mandato, si danno in pasto ai giudici!). Presentò, nel 1988, il d.d.l. 1301, il cui art. 31 divenne famoso come esempio di pasticcio all’italiana, perché nel primo comma dettava la seguente definizione; « Si ha elusione di tributo quando le parti pongono in essere uno o più atti giuridici tra loro collegati al fine di rendere applicabile una disciplina tributaria più favorevole di quella che specifiche norme impositive prevedono per la tassazione dei medesimi risultati economici che si possono ottenere con atti giuridici diversi da quelli posti in essere », mentre al secondo prevedeva un contraddittorio sistema di elenco degli atti ritenuti elusivi, lasciandone però l’individuazione alla discrezione del ministero, cioè della stessa Amministrazione finanziaria, e con effetto retroattivo su atti già compiuti prima della inclusione nell’elenco [1]. La proposta, ritenuta troppo oscena, venne bocciata dal Parlamento, ma il ministero ci riprovò altre due volte, finché nella Legge 408/1990 riuscì a infilare un art. 10 che, rinunciando a definizioni, come nell’abortito art. 31, rovesciò il concetto in negativo, nel senso che consentì: «… all’amministrazione finanziaria disconoscere ai fini fiscali… i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta.» Sono note le tribolazioni applicative e processuali che la norma ha offerto per la presenza di tre locuzioni chiave: “valide ragioni economiche”, “ed allo scopo esclusivo”, “fraudolentemente”. Dopo modifiche dell’art. 10 e cogliendo l’occasione del D.Lgs. 358/1997 sulle “operazioni societarie”, che in effetti si prestano ad atti di ingegneria, fantasia o furberia dei contribuenti e dei loro inspiratori, è sortito l’art. 37 bis incluso nel D.P.R. 600/1973 che sembra una fusione tra il vecchio art. 31 e il sostituito art. 10, perché recita:

« 1. Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.

2. L’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione.

3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano a condizione che, nell’ambito del comportamento di cui al comma 2, siano utilizzate una o più delle seguenti operazioni: (segue elenco). »

Indubbiamente il testo attuale è migliore, meno discrezionale e più pragmatico con la soppressione dell’avverbio “fraudolentemente”, che trova significati nel diritto penale e non certo in quello tributario “ordinario”. Resta da esaminare il concetto della mancanza di “valide ragioni economiche” negli atti che l’amministrazione ritiene inopponibili. L’analisi sarebbe priva di senso, se si trascura che nel contempo il ministero delle finanze ha istituito un “Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive”, con lo scopo di dare pronta risposta ai dubbi degli imprenditori in procinto di fare operazioni e avviando, così, una specie di ruling che di britannico ha il nome, non certo il pragmatismo. Il risultato si è visto con la pioggia di pronunzie, peraltro oscillanti, che vedono elusioni ovunque, il che è anche ovvio, perché il progettista, che sente il bisogno di sottoporre il caso, già enuncia lui stesso il dubbio che l’operazione sia inopponibile.

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Analisi del concetto di “valide ragioni economiche”

Ma nell’art. 37 bis ricompare un altro concetto che, oltre a essere metafisico, è anche una contraddizione linguistica: le “valide ragioni economiche”. È evidente che la parola “ragione”, tanto più se abbinata all’aggettivo “economico”, non accetta mancanza di validità; come a dire che tutte le “ragioni economiche” sono sempre “valide”, se no non sarebbero tali. Infatti, una ragione “non valida” non sarebbe una “ragione” e l’aggettivo “valide” o è pleonastico o è una contradictio in adiecto. Sta di fatto che il binomio fantasia provocatoria dei contribuenti e preconcetti del Comitato dell’antielusione ha aumentato il disorientamento che già dilaga nella materia, soprattutto perché in Italia non si è ancora capito che, avendo rinunciato a un sistema tributario fondato sui principi, sostituendolo con un “diritto a casistica” [2], non si può poi applicare il metodo induttivo generalizzando i casi. Il diritto non è la fisica sperimentale, che può risalire dai casi ripetuti al principio. Il diritto, almeno quello italiano e continentale, è deduttivo per natura: se c’è la definizione vale per tutti i casi, se non c’è ogni caso è a sé stante.

Ma il nostro ministero con preteso ruolo nomotetico, non solo non ha fatto i conti con la logica, ma nemmeno ha considerato che esiste la giurisprudenza delle commissioni tributarie e della cassazione, che, seppur con ritardo, generalmente riesce a ripristinare un sistema di legalità. Ancor più grave aver dimenticato che l’Italia fa parte dell’Europa e di un ordinamento giuridico sovranazionale che, seppur con orientamenti non sempre fermi, riesce comunque a imporre una “legalità”, nella fattispecie arrivata prima della giurisprudenza nazionale.

 

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La norma n. 147 della Commissione Associazione Dottori Commercialisti di Milano

La Commissione per le “Norme di comportamento in materia tributaria”, espressione della Associazione dei Dottori Commercialisti di Milano, ha affrontato il problema della interpretazione del concetto di “valide ragioni economiche” alla luce dell’esperienza giurisprudenziale della Corte di Giustizia Ce di Bruxelles e ha approvato e diffuso la norma 147, formalmente diversa dalle precedenti per la peculiarità della materia trattata e che si riassume in questi fondamentali motivati principi:

a) la giurisprudenza della Corte di giustizia sulle “valide ragioni economiche” si applica all’Italia;

b) è illegittimo qualsiasi principio aprioristico finalizzato ad attribuire o disconoscere validità alle specifiche ragioni economiche che costituiscono causa o oggetto delle operazioni societarie. Pertanto, norme o prassi che escludessero automaticamente dal trattamento agevolato atti o categorie di atti sulla base di criteri predeterminati risulterebbero eccessive rispetto al fine di contrastare eventuali comportamenti elusivi. Il concetto diventa chiaro se si ricorre al termine “surdimensionamento”, che l’ingegneria impiega in progetti e realizzazione di strutture o macchine con capacità di portata o di forza motrice ben superiori alle necessità di carico o di lavoro richieste, con il risultato di dispersioni in termini di economia di risultati (applicazione del principio universale dell’analisi costi-benefici);

c) deve, invece, essere sempre applicato da parte del legislatore nazionale, che pretenda di legiferare in materia, il “principio di proporzionalità”, cioè deve essere considerata la illegittimità di una eventuale “sproporzione” tra la sanzione (inopponibilità dell’atto) e la prova impossibile (talvolta “diabolica”) pretesa dal contribuente, tanto più se la prova deve fare i conti con una situazione evolutiva nel tempo

 

L’utilità pratica della norma 147 non potrà non incidere, o almeno si auspica, sulle future pronunzie del “Comitato” per l’antielusione e finirà per toccare una vasta platea di problemi e di soluzioni connessi alle operazioni straordinarie societarie trattate dal D.Lgs. 358/1997, sicché è possibile affermare che d’ora in poi saranno soggetto a verifica, prima ancora del comportamento dei contribuenti, le motivazioni che la commissione ministeriale pretenderà di dare a dinieghi per presunte mancanze di “valide ragioni economiche” in operazioni prospettate.

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Il concetto di “principio di proporzionalità”

La Commissione milanese ha compiuto un encomiabile sforzo esegetico e comparatistico, ricordando che la Corte di giustizia Ce ha incentrato la propria conclusione sul “principio di proporzionalita”, così come è inteso in ascendenze di diritto nordico. Non è molto importante la provenienza del concetto, perché una volta recepito, l’organo decidente lo fa proprio e il “rinvio recettizio” diventa una curiosità dello storico degli istituti. Così come non cambia l’efficacia o, meglio, la ricaduta sugli ordinamenti nazionali di decisioni di organismi sovranazionali, indipendentemente dall’origine dei principi.

Però si può senz’altro affermare che il recepimento è tanto più facile e automatico se il principio è già parte del singolo ordinamento nazionale. Da qui la domanda: esiste nell’ordinamento italiano il “principio di proporzionalità”, talché si possa considerare che non c’è alcun bisogno di trapianti dal diritto svedese? La risposta, come si dimostrerà, è positiva, ma prima è opportuno ricordare che il concetto di “principi generali dell’ordinamento giuridico”, non è solo materia del filosofo del diritto, se si considera che l’art. 12 delle “Disposizioni sulla legge in generale”, introduttive del Codice civile, li pone come riferimento per l’interpretazione della legge e, quindi, come fonte del diritto, anzi “norme” come sostiene autorevole scuola ben interpretata dal Crisafulli. Questa corrente di pensiero sostiene il carattere normativo e non meramente orientativo dei principi generali, poiché dimostra che, seppur con l’attenzione alla evoluzione storicistica come si legge nella “Relazione accompagnatoria” al codice civile, il principio generale nasce da un processo di generalizzazione di norme positive; ma anche nei casi in cui il carattere normativo non sia dedotto direttamente da norme, il principio ha sempre forza prescrittiva, come d’altra parte si deduce dalla collocazione generalizzata nell’art. 12 citato.

Ora, se il “principio generale” ha questa validità giuridica, è impossibile sostenere che, quando è adottato dall’autorità sovranazionale, non debba avere una ricaduta sul singolo stato aderente all’aggregazione, tanto più se il principio è posto a base di sentenze dell’autorità di giustizia sovranazionale, che il singolo aderente non potrebbe rifiutare. Ma se, addirittura, il principio è “anche” nell’ordinamento nazionale, a fortiori, la materia trova una doppia omogenea fonte normativa e interpretativa.

Anche il “principio di proporzionalità” è da sempre un “principio generale dell’ordinamento italiano” e questa constatazione renderà ancor più difficile la sua inosservanza da parte di “autorità” italiane, che oltre alla lingua dimenticano spesso anche i fondamenti giuridici. Quando si dice “autorità” si deve escludere quella giudiziaria, poiché proprio al principio di proporzionalità fanno riferimento sentenze che, come si dirà in seguito, sono ormai materia consolidata della giurisprudenza italiana.

Si deve invece subito constatare, come premessa, che il “principio di proporzionalita” trova radice nell’ancor più generale “principio di ragionevolezza”, non dedotto dal diritto naturale, ma da quello positivo. Per esempio il vecchio adagio ad impossibilia nemo tenetur è più di un brocardo, ma è una variante del principio che si desume dal punto 27 della sentenza della Corte costituzionale 23 marzo 1988, n. 364, che ha affermato: «…l’inevitabilità dell’errore sul divieto (e, conseguentemente, l’esclusione della colpevolezza) non va misurata alla stregua dei criteri cosiddetti soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche personali dell’agente) bensì secondo criteri oggettivi; ed anzitutto in base a criteri (cosiddetti oggettivi puri) secondo i quali l’errore sul precetto è inevitabile nei casi d’impossibilità di conoscenza della legge penale da parte d’ogni consociato. Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva) mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente caotico (la misura di tale gravità va apprezzata anche in relazione ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari ecc…». In concreto, la Corte costituzionale ha affermato che se la massa “caotica” e l’ “oscurità” di testi legislativi e interpretativi creano una sproporzione tra conoscibile e capacità umana di conoscenza, allora diventano causa di inevitabilità dell’errore sul divieto della norma e, quindi, di mancanza di colpevolezza. Ma la proporzionalità trova riferimenti anche nella “adeguatezza”, concetto che va di pari passo con la ragionevolezza, nel senso che una norma inadeguata non è nemmeno ragionevole, ovviamente ricordando che inadeguato è il contrario di adeguato, dal latino ad aequus, cioè in “giusta misura” anzi “proporzionata misura”. Si pensi al principio filosofico dell’adaequatio come conformità o proporzione tra la proposizione e la cosa, ma si pensi anche al concetto di giustizia commutativa, che è tra i fondamenti delle varie famiglie di diritto occidentale.

Il “principio di proporzionalità” è addirittura assunto dalla Corte costituzionale come condizione di legittimità, cioè di omologazione alla carta costituzionale. Si legge nella sentenza 21 gennaio 1999, n. 2, che l’irragionevolezza di una norma (che conduce al giudizio di incostituzionalità) implica il contrasto col “principio di proporzionalità”, che è alla base della razionalità informante il principio di eguaglianza. Ne fa impiego anche la Corte di cassazione, nella sentenza 8 luglio 1998, n. 6672, che spiega la correttezza della logica dell’art. 6 D.P.R. 26.10.1972, n. 637, nel determinare in modo differenziato la misura dell’imposta di successione in relazione alla diversa entità dei patrimoni ereditari globalmente considerati. La norma trovava fondamento nella progressività del tributo, di modo che non contrastava col “principio di eguaglianza e di proporzionalità” ragionevole tra i mezzi impiegati e gli scopi da realizzare, principio che ispira l’art. 14 della convenzione europea e l’art. 1 del primo Protocollo addizionale. Interessante anche la sentenza 29 dicembre 1998, con cui la Corte d’appello di Milano, in materia di brevetti, ha stabilito che se anche si volesse intendere la legge 93/1992 come restrittiva dell’importazione dei beni immateriali, risulterebbe in ogni caso del tutto rispettato nel merito il principio di proporzionalità, dato che il prelievo fiscale viene commisurato all’entità dei corrispettivi della rivendita ed è determinabile dunque in relazione ad un dato oggettivo incontestabile.

Applicato alle “valide ragioni economiche” e anche a voler trascurare la giurisprudenza della Corte di giustizia Ce, il concetto racchiuso nel “nostro” principio di proporzionalità sarebbe pur sempre quello di ritenere sproporzionata e quindi incostituzionale la dilagante prassi del Ministero delle finanze e suoi consiglieri, commissari e comitati a latere che tendesse a generalizzare inopponibilità di operazioni con il semplice riferimento a timori di elusione, perché il mezzo risulterebbe sproporzionato al fine, tanto più se il complesso dei comportamenti è stabilito con riferimento a eventi successivi nel tempo seppur collegabili a operazioni antecedenti.

Conclusione

La Commissione ADC ha svolto, con la norma 147, un’opera meritoria, rinviando all’autorevolezza di una corte sovranazionale la soluzione di un problema che già esiste tra “mura di casa”, ma che l’Amministrazione finanziaria, legislatore e giudice con buona pace della divisione dei poteri e delle funzioni, continua a trascurare, preferendo lo sport poco vincente e convincente di ignorare lo ius nostrano e dimenticando che il DNA degli italiani rende inutile lo sforzo dei discendenti dei vichinghi di dimostrarci principi trasmessi in primis ai nipoti di Cicerone. Valgono sempre i versi di Giuseppe Giusti nella “Terra dei morti”: «…eravamo grandi,/ e là non eran nati ». Come a dire che prima che nella Bruxelles dei nostri giorni o nella Berlino di Federico II, i giudici erano a Roma e, nonostante le difficoltà della nostra giustizia, vogliamo credere che lì ancora ci stiano.

28 febbraio 2002.

(Pietro Bonazza)


[1] Vedi di Mariano Scarlata Fazio, La elusione, in Boll. Trib., 1989, pag. 447.

[2] Vedi E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano 1987.