Da mesi si dibatte, a livello internazionale, se per uscire dalla crisi che blocca l’economia mondiale, sia più consigliabile l’austerità oppure una politica permissiva, che agevoli la crescita. Come al solito gli economisti e i politici sono divisi in scuole contrapposte, che diventano partiti delle chiacchiere e non dell’azione. Gli economisti dovrebbero essere i soloni, che forniscono soluzioni tecniche e teorie consolidate, sorrette da argomentazioni convincenti e comprovate. Invece, tutto si riduce a dilemma metafisico, dimenticando che la causa originaria è l’esagerato debito pubblico accumulato dai governi di molti paesi, che hanno speculato su un malinteso welfare, usato per nascondere la intenzionale ricerca di consensi elettorali e interessi di lobby e di casta. Le spese pubbliche si sono dilatate con l’espandersi della burocrazia, che è il braccio armato della spesa pubblica. Più si aumenta l’ingerenza dello stato per il dilatarsi delle sue funzioni più si restringe la libertà del cittadino e dell’iniziativa privata, che è l’unica leva di una crescita economica e sociale in un clima meno conflittuale possibile. Invece, si assiste a contrapposizioni partitiche che dal piano politico della chiacchiera ricadono sulla società, creando guerre di piazza e scelte eversive di gruppuscoli, che ripetono le guerriglie tra tifosi del calcio dentro e fuori dagli stadi. Sembra che le parti sociali siano solo preda di furia distruttiva o, meglio, autodistruttiva.

Parlare di stato democratico non ha più senso, se la libertà è conculcata e, allora, la contrapposizione tra “austerità sì-austerità no” diventa un dilemma fuorviante, anche perché nessuno propone una definizione sensata di “austerità”, che in economia designa un regime economico-politico di risparmio nelle spese statali e di limitazione dei consumi privati, imposto dal governo al fine di superare una crisi economica e per quanto sia lemma di origine latina (austeritas) rinvia al termine inglese austerity, originariamente riferito al regime di rigida economia imposto dal governo laburista in Gran Bretagna nel secondo dopoguerra per superare la grave crisi economica seguita alla fine della Seconda Guerra mondiale. L’errore fondamentale della definizione corrente è di invocare politiche restrittive solo quando ci si accorga che la crisi risulta evidente, cioè quando è troppo tardi, invece, deve essere una caratteristica permanente del modello di vita individuale e collettivo: una scelta non occasionale di costume. Austeri bisogna esserlo sempre, non perché il Pil arretra o decade, ma perché è un modo di guardare la vita da qualsiasi punto di vista: individuale e sociale, economico e politico. Bisogna anche rifuggire la tentazione di cadere nella trappola del pauperismo e consumismo sì o no, e di tutti quegli “ismi”: suffissi di tante ideologie perverse. Soprattutto, austerità non è sinonimo di povertà, ma sicuramente è rifiuto di accettare lo statalismo e il chiacchierismo, che è solo un paravento per nascondere l’ignavia e la volontà occulta di non fare. È quindi un grossolano errore quello di restringere l’attenzione alla sola questione economica, perché porta a limitare la soluzione al blocco della spesa pubblica, cioè agli effetti e non alle cause, che sono istituzionali e persino morali.

L’economia si rimette in moto a partire dagli investimenti sia privati sia pubblici e, a seguire, dalla spesa per i consumi. Naturalmente, e c’era da aspettarselo, i prestigiatori a corto di idee estraggono dal cilindro il solito coniglietto di nome Keynes, che, se fosse in vita, dopo aver fermamente asserito, come fece, di non essere keynesiano, li avrebbe bocciati tutti in economia… altro che cattedre universitarie!

Pure fuorvianti sono le contrapposizioni tra:

a) “euro sì-euro no”, perché  dopo gli errori e i costi all’ingresso voluti dal duo Ciampi-Prodi, si dovrebbero sostenere i costi di uscita, ma è più conveniente sperare e attendere che la Ue di Bruxelles cambi rotta e non che la Bce faccia miracoli impossibili, perché la politica monetaria può fare solo alcune cose e non sempre con effetti positivi. L’Europa in sostanza non intende diventare germanocentrica né gli stessi tedeschi, che stanno annusando la potenziale crisi interna, intendono essere gli scolaretti di maestra Merkel. Infatti, il recente studio del Walter-Eucken Institut di Friburgo rileva per la Germania un rapporto “Debito pubblico/Pil” all’80% e in tendenziale aumento a breve al 100%, in presenza di un sistema bancario compromesso: la foga espansionistica ha i suoi costi e, alla fine, presenta il conto.

b) “compressione della spesa pubblica sì o no”. Che si debba operare una compressione è fuori discussione, ma non dimentichiamo che la spesa pubblica non funziona come un interruttore elettrico, non il dualismo dell’algebra binaria espressa in “acceso o spento”, non il fiat lux della Genesi. Gran parte delle spese sono approvate per legge e i loro svolgimenti hanno durate pluriennali, protraggono i loro effetti negli anni e non si possono bloccare in corso di adempimento;

c) “riduzione del debito pubblico sì o no”. Non si tratta di assumere una decisione, ma di avviare un processo articolato, perché si devono fare tre considerazioni: 1) sarebbe già un successo bloccarne la tendenziale espansione, con contenimento e riduzione della spesa pubblica; 2) la quota interessi può essere ridotta solo per diminuzione dello spread, che ha cause anche extranazionali; 3) la riduzione passa attraverso l’incremento del Pil associato alle politiche per realizzare gli obiettivi del punto 1). La variabile strategica è il rapporto “Debito Pubblico/PIL”, che in Italia è ormai al 130%. Se l’obiettivo è la sua riconduzione a limiti di tollerabilità, cioè la sua riduzione, dati i  vincoli prima detti, bisogna almeno bloccare il numeratore ed espandere il denominatore, affinché il valore del rapporto scenda sotto il 130%. È un banale problema di algebra elementare, ma non banale è l’incremento del Pil al denominatore, che significa ripresa dell’economia mediante due leve: l’aumento della fiducia degli imprenditori e dei consumatori e la riduzione della pressione fiscale, arrivata a livelli tali da danneggiare se stessa. Bastava osservare anni addietro la curva di Laffer per capire che, oltre certi limiti di tassazione, il gettito è destinato a diminuire ed è ciò che sta accadendo all’Erario italiano. La tentazione dei nostri politici sarà di reagire a una diminuzione del gettito e delle fonti di sostegno della spesa pubblica aumentando ulteriormente il numeratore del rapporto con incremento del debito pubblico. L’ottusità della classe politica e dei suoi tecnici pescati nelle università è arrivata al punto di ignorare quella regola, più naturale che economica, che il ciclo negativo – ammesso che sia ancora corretto usare questo termine –  va contrastato con politiche anticicliche e non procicliche.

Bisogna che tutti si rendano conto che il mondo è irreversibilmente cambiato e prima di tutto sono cambiate: la scienza, l’economia e la socialità.

a)          La scienza non è più prerogativa dello Stato e la ricerca deve essere libera e agevolata, non punita o contrastata da lobby, interessi di partito o di  casta, che rendono politici gli obiettivi scientifici e culturali;

b)          L’economia è strutturalmente cambiata ed è persino errato parlare di tunnel come tutto si risolvesse nella speranza di ripresa dei cicli. Sono cambiate le forze che reggono i mercati e le interrelazioni tra gli operatori. In altri termini: è cambiato il modo di fare impresa, sono modificate le interrelazioni tra gli agenti, il mondo del lavoro è diventato più fluido e instabile a prezzo di una diminuita fedeltà dei rapporti contrattuali, mutate anche le condizioni e le previsioni delle dinamiche dei prezzi resi fluttuanti dalle pressioni delle componenti speculative, che incidono fuori da ogni controllo sulle forze dell’economia reale ormai condizionata dalle componenti finanziarie. Persino i manuali di economia, consolidati in secoli di esperienze consolidate, sono invecchiati e in parte di valore solo storico. Le certezze del sapere economico, che hanno alimentato e giustificato ricette e menù, sono superate.

c)           Anche i rapporti sociali sono strutturalmente cambiati, trascinando e coinvolgendo nel fenomeno le forze politiche; il che significa: i rapporti tra i partiti, che da dialettici si sono involuti in contrapposizione fisica oltre che ideologica. È la democrazia che deve essere ridefinita. Oggi in Italia la maggioranza non è più tale, quanto meno per la gestione del potere, che è in mano alle minoranze o a gruppuscoli che continuano a “marciare su Roma”, inondandone le piazze, come se la piazza fosse la sede del parlamento e del governo. Comandano i drogati, gli omosessuali, gli abitanti dei centri sociali, i ROM, gli invasori extranazionali, gli stupratori che, quando vengono incriminati, se la scapolano con poco, i magistrati politicizzati, che finiscono per trascinare in cattiva luce giudici onesti, colti ed efficienti lavoratori. La società è ormai tutta secolarizzata e mancano punti di riferimento stabile: conta l’attimo fuggente, il passato non è più storia e non fornisce radici, il futuro non è più né speranza né attesa, il presente è solo l’attesa della sera, perché è la notte che ha preso dominanza sul giorno. Questo è il vero nichilismo, che non è tanto affermazione del nulla, ma proclamazione dell’inesistenza del “qualcosa”.

In conclusione,  si deve porre la domanda: è possibile una coesistenza tra austerità e crescita? La risposta non è univoca, perché dipende dalle condizioni temporali e dell’azione politica. Si può rispondere che un’austerità costante, come politica sociale e di vita individuale, deve precedere la crescita ed essere graduale e applicata da tutte le parti sociali e in primis dallo stato. Solo a questa condizione preliminare, la crescita può diventare un trend costante e sicuro nel tempo, che è ciò che conta  soprattutto se si pensa alle generazioni future. La crescita, causa anche dello sviluppo che si riferisce soprattutto alla qualità della vita, deriva da una politica di continui investimenti e aggiornamenti per stare in linea con il progresso scientifico e tecnologico. Ma per realizzare investimenti sono necessari i capitali, che possono essere alimentati dall’estero a prezzo di pesanti condizionamenti e riduzioni della sovranità oppure dal risparmio interno che garantisce la libertà, ma è reso possibile da una austerità nel regime di vita di cittadini e stato. Se questo sottrae il risparmio con il debito pubblico e/o  con la pressione fiscale, finisce per sottrarlo in effetti all’investimento per destinarlo in alternativa alla spesa pubblica, che si è rivelata nel tempo costantemente distruttiva del capitale e della ricchezza.  In termini diversi, ma è solo questione di forma, gli economisti parlano di crowding out o di spiazzamento. Da un punto di vista geometrico, se non vogliamo cadere nelle allegorie della geometria frattalica, si deve porre una rappresentazione euclidea rigorosamente logica: la crescita è rappresentabile con una retta inclinata positivamente verso l’alto, e sulla stessa ogni segmento deve essere effetto del precedente e causa del susseguente, del tipo: austerità, risparmio, investimento, occupazione, crescita del reddito, distribuzione dialettica ma non conflittuale dello stesso secondo regole che rispettino la democrazia e la libertà. Sbagliando la sequenza e la ragionevole misura di ogni segmento, si torce la retta fino a farla diventare un cerchio, che significa avviluppare su se stesso il circuito economico e sociale. Si potrebbe avanzare la critica: bello a dirsi, ma difficile a farsi. La risposta è: provate a fare diversamente e vi troverete nella situazione attuale di ingestibilità del problema, ancor peggio se tutti i nodi (gli errori del passato) vengono al pettine nello stesso momento. In economia non vale la politica andreottiana: rinviare le soluzioni perché tanto il tempo aggiusta tutto! Il tempo non aggiusta niente e appesantisce la portata del problema. Il tempo è come il tasso usurario e trasferisce il rimborso di capitale più gli interessi alle generazioni successive. Non vale nemmeno il credo di Keynes, peraltro speso travisato, che a lungo andare saremo tutti morti. Solo un omosessuale, incapace di generare, poteva fare una tale cinica affermazione, che implica un “penso solo a me stesso e degli altri me ne frego”. Ben più dolenti i versi densi di rammarico della “Canzona di Bacco” di Lorenzo de’ Medici:

«Quant’è bella giovinezza,

Che si fugge tuttavia!

Chi vuol essere lieto, sia:

Di doman non c’è certezza»

perché, diversamente da Keynes, per Lorenzo il domani esisteva.