Constato il comportamento, dopo la premiazione, di alcuni premi Nobel italiani (degli stranieri non so, ma può darsi sia analogo). Per esempio, uno, che si chiama Dulbecco, va a presentare il Festival di Sanremo, come a dire che un serio diventa scherzoso (non sarà mica una cosa seria quella fiera della canzonetta!); un altro che si chiama Dario Fo e faceva il buffone (non ha forse scritto e recitato “Mistero buffo”?) diventa serio, come se per godersi le lire del premio sia necessario intristire; un altro ancora di nome Modigliani, che non era contrario all’indebitamento, si è convertito al rigore della spesa pubblica, soprattutto italiana, lui che vive beatamente all’estero. Mi viene il dubbio che quell’alloro abbia un effetto liberatorio o inebriante o qualcosa che ha a che fare con l’equilibrio psicologico, per cui al precedente se ne sostituisce uno nuovo, ma non ne sono certo. Bisognerebbe sentire il parere di un etologo o di un antropologo. Oddio, ci possono essere anche altre spiegazioni. Per esempio, il Nobel viene concesso a chi è in età avanzata, quando rimane ben poco da produrre. Non dimentichiamo Schumpeter, economista tra i maggiori del XX secolo, che sosteneva che le idee principali di uno studioso sono raggiunte tutte prima dei suoi trent’anni; come a dire che, dopo, può andare a presentare i Festival, magari dell’Unità, data l’abitudine di Stoccolma di dosare la distribuzione dei suoi diplomi con assegno bancario tra destra e sinistra. Insomma, chi è premiato entra nel circolo ristretto dei “Nobelesse oblige”, con quel che ne consegue sul comportamento umano. Questo preambolo ha un solo fine: parlare di Rita Levi-Montalcini, premiata nel 1986 con un Nobel in riconoscimento dei suoi studi sul nerve growth factor (NGF), per i profani come me: qualcosa connesso con fattori di crescita delle cellule nervose. Si legge nelle enciclopedie che i suoi studi, risalenti agli anni Cinquanta, segnano tappe fondamentali nella storia della neuroembriologia. Sta bene. Sono contento e grato. Un italiano che vince qualcosa e come se facesse vincere qualcosa anche a me. Ma, si dirà: che c’entra tutto questo con la sindrome del post Nobel? Mica è andata a presentare il festival di Sanremo la Rita. Aspetta! La Nostra è nata nel 1909 e porta bene i suoi venerabili anni. Compare talvolta in TV. Capelli raccolti verso l’alto di un bel bianco che vira al violetto, come si addice a una donna di una certa età; abito lilla con collettino bianco di pizzo, sorriso tra l’ironico e il sufficiente, profumo di lavanda (immagino). In breve, sembra uscita da una lavatrice o da un dagherrotipo dell’Ottocento e vien quasi voglia di sussurrarle un “ciao nonna”, con il dovuto rispetto, beninteso, perché si tratta pur sempre di un Nobel. E qui sta il punto: il 9 ottobre 2000, saputo che gli svedesi avevano “nobeletato” Greengar, Carlsson e Kandel (tre medici oltre i settanta, che potrebbero essere suoi figli) per i loro studi sulle cellule cerebrali, una Rita nazionale entusiasta ha così riassunto tutte le sue speranze del futuro della biologia molecolare: «…Il prossimo sviluppo sarà andare alla ricerca dei meccanismi alla base della coscienza…». Dal morbo di Parkinson e dalla schizofrenia alla coscienza il salto è grande! Ehh no, ehh! Gentile signora Rita, lasci stare la coscienza. Lei sarà anche una scienziata che ha scoperto qualcosa che ha a che fare con i miei neuroni, ma nessuno, nemmeno il più incallito positivista, riuscirà mai a dirmi che la mia coscienza sta dentro quei chips (scusate non so come chiamarli) del mio cervello, nemmeno se fosse ridotto a patata. Lei signora Rita, non si permetta di affermare che la mia persona, cioè i miei settantacinque chili di materia organica più la mia anima, è riducibile a una formula chimica o qualcosa del genere. Lei non sa nemmeno che cos’è la coscienza, o meglio: Lei la confonde con la consapevolezza. La parola coscienza è un concetto in cui si inciampa leggendo un qualsiasi filosofo. Che cosa sia, non glielo faccio dire da Socrate, perché troppo vecchio; non da Gentile, perché fascista; non dai Gesuiti, perché inguaribilmente cattolici. Tutti, con varianti di scarso significato, Le direbbero che “la coscienza è la presenza dello spirito a se stesso…”. Invece, glielo faccio dire da Edmund Husserl, filosofo e matematico ebreo, per il quale la coscienza non può non essere coscienza dell’essere, nel quale i cento miliardi di cellule nervose del cervello sono, semmai, una minima parte e solo quella materiale. Non escluderei che a forza di guardare in quel tubicino, che si chiama microscopio, per scrutare l’infinitamente piccolo di una cellula, questi scienziati si dimentichino l’infinitamente grande che è la mia anima. Nervi, neuroni, DNA e compagnia cantante li lascio tutti a voi, io mi tengo la coscienza, quella vera, quella che sopravvive, chiedo scusa della brutalità del termine, a ogni tipo di rincoglionimento.