Perché nelle aule di giustizia, anche in quelle più periferiche e modeste, campeggia la scritta “La legge è uguale per tutti”? È un’affermazione? È una certezza? È una garanzia? È una speranza? È un memento? È una promessa? Non è facile scoprirlo. Prima bisognerebbe sapere che cosa vuol dire “eguale”; poi bisognerebbe stabilire chi sono i “tutti”. Ma anche dopo aver risolto questi non superficiali problemi, si dovrebbe comunque concludere per l’inutilità di questa scritta, perché la legge, essendo per definizione “generale” e “generica”, è tautologicamente “eguale per tutti”. Viene in mente quel volpone di Giovanni Giolitti, secondo il quale “la legge si applica per i nemici, mentre si interpreta per gli amici”. Scrivere invece: “La giustizia è eguale per tutti”, sarebbe un netto miglioramento logico, ma non risolverebbe ancora il problema. Senza contare che una giustizia “eguale” potrebbe non essere giusta. Ma poi a che serve nell’aula? L’amministrazione della giustizia non si limita all’aula. Lì incomincia solo. Poi ci sono i “giudici di sorveglianza”, ci sono quelli che mettono in libertà criminali finti pentiti su parere favorevole di criminologi, psicologi, capi secondini, cappellani ecc. Cosa scriviamo, allora, sui muri delle carceri? Meglio non scrivere niente in nessun luogo e che Dio ce la mandi buona. I barbari e tra questi i Longobardi amministravano la giustizia sotto l’albero più maestoso del circondario, ma non intagliavano la corteccia. Per rispetto della pianta o della giustizia?