Nell’Editoriale del Bollettino di dicembre 2010, la Banca Centrale Europea scrive: «Le banche hanno continuato ad accrescere gradualmente la componente del credito al settore privato dei loro bilanci complessivi, tuttavia devono dimostrarsi capaci di incrementare la disponibilità quando aumenterà ulteriormente la domanda. Ove necessario, per raccogliere tale sfida dovrebbero trattenere gli utili, ricorrere al mercato per rafforzare maggiormente la propria componente patrimoniale oppure sfruttare appieno le misure di sostegno pubblico a favore della ricapitalizzazione». La BCE non fa alcun accenno alla ricaduta sulle banche dell’avvento di Basilea 3, ma è facile intuire che, se la banca centrale di Francoforte ritiene che le banche abbiano necessità di maggiori capitali già nel prossimo futuro (per alcune anche nel presente), a maggior ragione si manifesteranno esigenze di aumentare i mezzi propri quando diventerà operativo l’accordo di Basilea 3. È anche fondato ritenere che l’autofinanziamento, realizzato tramite la ritenzione degli utili, non sia sufficiente a soddisfare le esigenze di capitali, a parte la considerazione che le banche non potranno limitare eccessivamente il pay-out annuale per non deprimere eccessivamente i corsi di borsa e da qui una politica di distribuzione di dividendi e, successivamente, un più massiccio ricorso al mercato dei capitali.

Queste considerazioni sono confermate da uno studio diffuso in questi giorni dalla Boston Consulting Group, società multinazionale di consulenza, che ha calcolato necessità di capitali freschi per le banche europee di almeno 275 miliardi di Euro. Lo studio pone in testa la Germania e, a seguire, Italia e Francia, oltre agli altri paesi europei, soprattutto quelli a rischio di default.

Sembra così confermato quel che è già noto e cioè che le banche hanno e avranno bisogno di più mezzi propri, soprattutto le maggiori, che sono quotate in borsa, e qui sta il punto delicato, perché i mercati finanziari non sono pozzi senza fondo a cui far ricorso pur alle migliori condizioni. Per fare previsioni fondate sono necessarie alcune considerazioni fondamentali.

La BCE afferma, come sopra riportato, che le banche «devono dimostrarsi capaci di incrementare la disponibilità quando aumenterà ulteriormente la domanda». In altri termini: se, intendendo uscire dalla crisi economia che ha colpito il mondo dalla fine del 2007, vogliamo che la ripresa economica europea abbia un avvio sostenuto e permanente, è necessario che le banche soccorrano le imprese dei settori non finanziari, aumentando gli interventi della funzione creditizia e, già per questo, devono dotarsi di mezzi con pressioni sulle borse. Ma in borsa ci sono anche le imprese non finanziarie quotate, che attingeranno direttamente ai mercati finanziari con loro offerte dirette di nuove emissioni azionarie. Il rischio è un ingorgo e una concorrenza nella accresciuta domanda, che non potrà che far aumentare i tassi d’interesse e qui avranno peso determinante le previste politiche di pay-out sia delle banche sia delle società non finanziarie; perché, se pur vero che le azioni, diversamente dalle obbligazioni, non  prevedono un tasso d’interesse, i risparmiatori non fanno poi tante differenze, perché si aspettano remunerazioni a titolo di dividendo non certo inferiori ai tassi delle obbligazioni, oltre a incrementi da capital gain; diversamente, rifiutano le proposte di aumenti di capitale. Sarà una bella gara! Ma non finisce qui. Gli stati, soprattutto quelli già indebitati e carichi di interessi periodici, dovranno aumentare le emissioni di bond, perché difficilmente saranno in grado di attuare adeguate riforme fiscali e dovranno comunque affrontare, rebus sic stantibus, il maggior carico di interessi per l’incremento dei tassi sui mercati del risparmio. Il timore, tutt’altro che infondato, è un effetto di crowding-out del debito pubblico nei confronti dell’indebitamento privato; ma al prezzo di maggiori interessi sui bilanci pubblici, perché sui mercati finanziari e monetari vige la regola del “vinca il migliore” in termini di interesse. Quindi, le banche europee si troveranno a dover fronteggiare una richiesta di maggiori affidamenti da parte delle imprese non quotate, che, proprio per uscire dalla crisi, dovranno effettuare nuovi investimenti in capitali fissi tecnologicamente più avanzati e costose ristrutturazioni e riorganizzazioni dei loro processi produttivi, il tutto in concorrenza con le altre società quotate e le esigenze degli stati, incapaci di contenere e ridurre le spese. Ma, la coperta è corta, perché il capitale non è quello delle masse monetarie pompate nei sistemi dalle banche centrali, ma quello generato dal risparmio, che, a sua volta, proviene dal reddito, o, meglio, dalla sua crescita in termini reali e non nominali. Le crescite monetarie e speculative sono ingannevoli, perché creano solo bolle, che prima o poi scoppiano, come ha dimostrato la crisi iniziata a fine 2007. Crescita vuol dire più tonnellate di grano, di acciaio, di rame, di chilometri di stoffa, di automobili, più servizi di qualità, ecc., non masse di dollari, di euro o di yen. E qui il rischio è un pericoloso avvitamento del sistema. I banchieri negano che ci saranno per loro necessità di aumenti di capitali. Speriamo che abbiano ragione, ma pare ottimismo di facciata non coerente con prudenti proiezioni. Queste considerazioni sono fatte senza tener conto che le banche potrebbero non essere disposte a finanziare la domanda di credito dei privati, perché, ormai malate croniche di finanza a danno dell’economia, potrebbero preferire di continuare nelle loro attività finanziarie speculative o di supporto alla speculazione, che, con la sofisticazione dell’ingegneria finanziaria, ha riempito i portafogli delle stesse banche di derivati e “titoli spazzatura”, che animano le bolle finanziarie. Il fenomeno è noto: se non si pongono regole severe a livello internazionale per togliere la malsana speculazione che infetta i mercati con pericolose e dolorose ricadute sull’economia, tutto sarà stato inutile.

È evidente che la fame di capitali attanaglia l’Europa e che i capitali vengono dal risparmio reale. È probabile che l’Europa non abbia disponibilità adeguate. Ci si chiede, allora, da dove possa venire il flusso di capitali necessari e che i mercati domestici non sono in grado di supportare. Anche qui la risposta è ovvia: dai paesi che hanno accumulato petrodollari e eurodollari, derivanti dal mondo del petrolio. L’oro nero è diventato più importante e prezioso dell’oro giallo! E sul punto si scontrano due scuole di pensiero: quella che, in riferimento a una specie di “globalizzazione inversa” e di una mondializzazione della finanza “a ogni costo” auspica ingressi di capitali di qualunque provenienza e, di contro, quella che teme che l’Europa vada incontro a una subordinazione verso i paesi arabi o la Cina. Qui la scelta da economica si fa politica, perché potrebbe essere in gioco la libertà dell’Europa. Si tratta di sapere se il prezzo da pagare sia sopportabile oppure no. Non bisogna però dimenticare che la libertà non ha prezzo.