Pietro Bonazza

 

INTERVENTI SUI BENI MATERIALI: manutenzione….

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(articolo pubblicato sulla rivista “Bollettino Tributario”, n. 20 del 30.10.1989

N.B. l’art. 67 del TUIR 917/1986 è stato rinumerato con 102 dal D.Lgs. 12.12.2003, n. 344)

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PREMESSA

Il meccanicismo dell’ultimo comma dell’art. 68 DPR 597/1973 stato solo in parte mitigato nella codificazione del T.U. 917/1986, che, pur concedendo:

la facoltà di patrimonializzare costi

la deducibilità integrale e separata di compensi periodici dovuti contrattualmente a terzi per la manutenzione di determinati beni

la deducibilità solo proporzionale per cessioni in corso d’esercizio,

la deducibilità delle spese di manutenzione anche per le imprese di nuova costituzione,

ha ripetuto nell’art. 67, comma 7, la struttura precedente.

Le spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione continuano a formare un’unica categoria, che in fine esercizio, applicando il massimale del 5 per cento, può spartirsi in due classi: spese immediatamente deducibili e spese ammortizzabili a rata costante nei cinque esercizi successivi.

La struttura della norma determina una serie di problemi pratici, crescenti con il continuo avanzare della tecnologia, ma al cui esame è necessario far precedere alcune considerazioni terminologiche.

Non sono frequenti pronunzie giurisprudenziali, né risoluzioni ministeriali. La tecnica non affascina il giurista e non illumina l’aziendalista. Infatti sul tema non si leggono cose egregie, per usare un eufemismo, nella dottrina ragioneristica e nei principi contabili, specificamente il n. 4 del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti.

I) PROPOSTE DI DEFINIZIONE

a) extra ART. 67 , comma 6, T.U. 917.

Si osserva innanzi tutto che nell’elenco di spese che formano la categoria manca la voce “ampliamento”. Si deve ritenere pacifica la natura patrimoniale di tale spesa. Resta il problema della sua definizione. I metodi possono essere vari: per esclusione, induttivamente per esempi, per definizione deduttiva a priori. Solo l’ultimo potrebbe risultare soddisfacente.

Per esclusione, si potrebbe dire che è di ampliamento la spesa che non sia di manutenzione, riparazione, ammodernamento, e trasformazione, ma vi è il rischio che le cinque categorie non esauriscano i casi possibili e, quindi, resti incerta quella definibile per esclusione.

Proponendo esempi, con l’intento di ricavarne induttivamente una definizione, si potrebbero offrire casi del tipo:

aggiunta di ulteriori metri quadrati coperti ad un fabbricato industriale,

allungamento del piano di scorrimento del prodotto di un laminatoio, ma non l’inserimento di una ulteriore macchina in una serie disposta in linea, spesso chiamata impropriamente impianto e ciò in quanto si tratterebbe di un bene idoneo a compiere un atto produttivo autonomo e quindi costituente autonoma categoria. In altri termini il layout, che l’organizzazione della produzione rende sempre più importante e flessibile, non può determinare un ‘impianto’, che è tale solo quando esso è un bene di per sé, cioè quando fa perdere alle singole parti componenti la caratteristica di autonomia, talché non sarebbero in grado di svolgere una funzione separata dal tutto;

prolungamento di una via ferrata per trasporti interni.

Si potrebbe chiudere con un et cetera, ma sarebbe un evadere il problema. Infatti sarebbero più gli esempi negativi che i positivi. Cioè sarebbe più facile esemplificare che cosa non è ampliamento. Così l’aggiunta ad una macchina vecchia di un caricatore automatico, presente in analoghe di ultima generazione, non è ampliamento, anche se aumenta la velocità della produzione, semmai è ammodernamento e la dotazione di impianto radar su una nave che ne era priva, non è ampliamento ma ammodernamento.

Il metodo induttivo non offre una via sicura per una definizione, perché i casi pratici sono talvolta appesantiti dalle complicazioni della particolarità.

Il metodo deduttivo implica preliminari riferimenti semantici. Un buon vocabolario definisce ampliamento un aumento dell’estensione o delle dimensioni e in, termini figurati, accrescimento relativo a possibilità o disponibilità. Si tratta di verificare l’adattabilità di una definizione lessicale alla fattispecie prevista dall’art. 67, limitata ai beni materiali. Trattandosi di beni strumentali che concorrono con operazioni chimico-meccaniche alla modificazione fisica o merceologica di altri beni, non si può prendere a riferimento l’incremento di produttività del bene, perché tale dovrebbe o potrebbe essere anche lo scopo di ammodernamento e rifacimento. Per fare un esempio: se sotto il tetto di un capannone esistente si rimuove una zona gi riservata all’ufficio tecnico per lasciar più spazio al processo produttivo, si sostiene una spesa che non è di ampliamento (non aumenta la superficie coperta dell’opificio) pur ottenendo un aumento della produzione. Né per ampliamento si deve intendere un allungamento della durata del bene, perché tale risultato è comune alla stessa manutenzione.

Ampliamento non è nemmeno riferibile genericamente all’azienda nella sua globalità, perché la relativa spesa deve riguardare singoli beni classificabili nelle categorie per le quali sono dettati con decreto ministeriale i coefficienti di ammortamento, secondo la delega permanente data dal secondo comma dell’art. 67.

Si può concludere che, forse, la definizione del vocabolario soddisfa anche le esigenze interpretative ed applicative dell’art. 67. Il tributarista, angustiato dalla casistica, potrebbe rimanere dubbioso, ma bisogna anche ricordare che, in concreto, sono ben pochi gli esempi di ampliamento diversi dal solito allungamento del capannone o dei binari ferroviari e che nella definizione deve prevalere l’aspetto meramente fisico- dimensionale.

b) infra ART. 67 , comma 6, T.U. 917.

Ritornando a ciò che è, invece, previsto dal settimo comma dell’art. 67 si deve osservare che l’inclusione in unica categoria delle spese non patrimonializzate di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione, rende apparentemente già risolto ogni problema. In effetti le spese di ammodernamento e trasformazione sono ben caratterizzate. La loro natura incrementativa spesso ne consiglia la patrimonializzazione già per il bilancio civile. Problemi di applicazione della norma possono invece sorgere per le spese di riparazione e di manutenzione.

Anche qui necessario richiamare definizioni generali.

b,1) riparazione

Una ipotesi di classificazione logica della riparazione dovrebbe considerarla come un caso di manutenzione, o meglio una operazione tecnica con cui si attua la manutenzione. Sembra intuitivo ed ovvio che quando si esegue una riparazione con quello stesso atto si effettua una manutenzione. Semmai si potrà distinguere tra manutenzione preventiva e manutenzione di ripristino, cioè a posteriori. È noto il metodo in uso per i computer: si stipula una polizza di manutenzione e l’appaltatore si impegna ad interventi preventivi periodizzati. Se, inoltre, si verificano guasti, gli interventi sono compresi nella polizza di manutenzione. Ma vi sono casi frequenti nella pratica di intervento a guasto avvenuto. Ciò accade quando la manutenzione preventiva sarebbe inutile, nel senso che non evita guasti improvvisi, oppure sarebbe inutilmente costosa, perché i guasti sono comunque rari.

Il legislatore non ha fatto queste distinzioni ed in pratica ha assorbito la manutenzione di ripristino nella riparazione, che è diventata una categoria autonoma.

Si deve allora intendere per riparazione un intervento di ripristino della normale funzionalità, cioè la restituzione di un bene che ha subito rotture o guasti alla sua funzione in relazione allo stato d’uso anteriore all’evento. Non vi è nemmeno necessità di risalire alla causa dell’evento. Può essere accidentale o previsto, nel senso che la scelta di non effettuare la manutenzione preventiva rende più frequenti le riparazioni. È ovvio che l’intervento potrebbe comportare anche un miglioramento delle condizioni generali o potrebbe essere presa l’occasione per eseguire un ammodernamento o una trasformazione, invece della semplice riparazione. La labilità del confine fra le operazioni è il motivo che ha suggerito al legislatore di includere le operazioni in una unica categoria.

b,2) manutenzione

Un buon vocabolario della lingua italiana definisce manutenzione: il complesso delle operazioni necessarie a conservare la conveniente funzionalità ed efficienza. Si nota subito che per la semantica non esiste la manutenzione straordinaria, che non può stare nella definizione sopra ricordata. La manutenzione straordinaria è stata e continua a essere una locuzione della pratica, che, senza intenti classificatori o lessicali, ma con la fretta tipica del mondo degli affari intende quelle operazioni di intervento che non sono manutenzione ordinaria, cioè non sono manutenzione, ma ammodernamento o trasformazione o altra operazione che altera le capacità e l’efficienza anteriore del bene.

È stata anche proposta una specie di categoria generale: la spesa incrementativa, aumentando la confusione sul tema. Infatti, manutenzione indica una operazione tecnica, mentre spesa incrementativa è un fatto direttamente economico.

Il legislatore tributario ha saggiamente abbandonato tale distinzione, causa di sterile contenzioso ed ha sostituito il tutto con una regoletta matematica che ha il pregio della semplicità e che non peggiora la visione della realtà, se si vuol guardare ai fatti economico-aziendali con senso di concretezza e non inseguire miti di precisione, che nessun buon semplice ragioniere vorrebbe mai proporsi. Per l’art. 67, comma 6. T.U. 917/88 il termine manutenzione riferito pacificamente alla manutenzione ordinaria e preventiva.

Ordinaria, perché quella straordinaria rappresentata da altre categorie più appropriate, quali l’ammodernamento e la trasformazione.

Preventiva, perché quella a posteriori assorbita dalla riparazione.

b,3) materiali di consumo

Si intende per materiali di consumo quei beni che esauriscono normalmente la loro utilità in un periodo breve, cioè che hanno durata infrannuale. È importante precisare che sono beni e non parti di beni, poiché, se così fosse, sarebbero supporti materiali di una riparazione o di una manutenzione. Ad esempio: la lampada è un bene autonomo rispetto all’impianto di illuminazione, anche se i due beni sono complementari all’uso. Sostituire la lampada è un intervento sul bene lampada non sul bene impianto elettrico.

La punta del trapano, la fresa della fresatrice, l’utensile del tornio, il filtro del circuito sigillato, lo stampo della pressa, non sono le macchine a cui tali beni sono temporaneamente applicati per svolgere una funzione o per compiere una lavorazione. In tali esempi vi è una macchina che fornisce un movimento normalizzato, fisso o programmato e vi è un altro bene intercambiabile, cioè impiegabile su qualsiasi altra macchina della stessa specie, che sfruttando quella forza esegue una particolare operazione: forare, fresare, tornire, filtrare, stampare. et cetera. Quando il consumo del bene che esegue la lavorazione avviene in un processo produttivo o in durata non ultrannuale si ha un materiale di consumo da considerare spesa di esercizio. Se, invece, la durata riguarda più esercizi si ha una categoria autonoma, che comporta, anziché l’addebito dell’intero costo al conto economico, l’accensione di un processo di ammortamento per quote.

Si potrebbero riprendere gli esempi precedenti e sostenere che, se la fresa ha durata di più anni si deve assoggettare ad ammortamento, salvo scaricarne il costo a fini fiscali se ha un costo inferiore ad un milione. Se lo stampo dura normalmente meno di un anno il relativo costo si deve considerare di esercizio. Il criterio per decidere il comportamento contabile da assumere non può essere generalizzato, ma va esaminato il singolo caso in relazione alla peculiarità del processo produttivo tipico. Pertanto si deve concludere che il materiale in questione è categoria relativa ad un bene autonomo, di cui deve essere considerata la durata. Se questa non supera normalmente l’estensione temporale dell’esercizio si dovrebbe parlare di materiale di consumo.

Sennonché, il legislatore fiscale ha previsto regole fisse per gli stampi e nelle varie categorie di aliquote previste nel D.M. di cui all’art. 67, comma 2, T.U. 917/1986, ha riservato agli stampi un posto fra i beni ammortizzabili, ponendo la presunzione di legge della loro durata pluriennale.

Si tratta di prenderne atto e considerare che i casi in cui lo stampo ha una durata infrannuale possono trovare naturale soluzione nel senso che il loro deperimento fisico comporterà un addebito per intero all’esercizio: per minusvalenza di eliminazione anziché per ammortamento.

Ma alla luce della definizione prima proposta trova naturale soluzione anche l’annoso e controverso caso dei refrattari per i forni dell’industria siderurgica e metallurgica in genere. È pacifico che il refrattario rispetto al forno ha la stessa funzione della lampada rispetto all’impianto di illuminazione o della lubrificazione. Ogni tot ore di lavoro dell’ingranaggio occorre una dotazione di olio con un minimo di capacità lubrificante, diversamente il meccanismo grippa. Ma la lubrificazione non è una manutenzione, ma l’operazione con cui si sostituisce un materiale di consumo: l’olio lubrificante, che non serve a mantenere il bene in condizione di uso normale, ma semplicemente condiziona l’uso. Non vi nulla di opzionale nella lubrificazione. Semplicemente, se non si fa nemmeno si parte. È come la lampada: non serve per mantenere l’impianto elettrico in condizioni di uso normale, ma se non si avvita non si ha illuminazione.

b,4) beni di rispetto

L’art. 67, comma 1, T.U. 917/1986, secondo la Relazione governativa, avendo abolito l’utilizzabilità solo potenziale, restringendola all’effettiva entrata in funzione del bene, sarebbe intesa a …. chiarire che non è richiesto l’effettivo impiego nel processo produttivo per quei beni la cui funzione è quella di essere pronti ad essere impiegato in caso di necessità (per es. motori di ricambio). Che la norma consenta tale affermazione non pare molto evidente. Siamo al criptojus e forse ci vuole la sfera di cristallo, ma se lo dice il Ministero va bene. Certo il relatore pensava alle compagnie aeree, ma anche l’industria “a terra” ha problemi analoghi.

La soluzione dei problemi pratici per complicata da una realtà diversa da quella considerata nella relazione citata. Tutto va bene se un motore è specificamente a disposizione di una macchina o di un velivolo, nel qual caso basta considerare anche la “ruota di scorta” nel costo di acquisizione e l’ammortamento aggiusta tutto… nel tempo. Ma quando un motore svolge la funzioni di scorta di più macchine acquistate in tempi diversi? Si dovrebbe ritenere corretto sia l’inclusione nel costo della prima entrata in funzione, sia l’accensione di una categoria autonoma di motori di scorta. Peraltro il relatore governativo non ha posto la condizione: una macchina-un motore e pare aperto a soluzioni anche flessibili.

II) PROBLEMI DI CONTABILIZZAZIONE

Esaurito il problema della definizione delle categorie, si deve osservare che la necessità di ridurre le ore di fermo produttivo spinge imprese anche di non grande dimensione a creare servizi interni di manutenzione, che svolgono anche attività di costruzione di beni ammortizzabili e di attrezzamento di macchine. Vi sono allora due centri di spesa: il reparto, formato da operai stabilmente addetti al servizio ed il magazzino dei beni materiali da utilizzare per le varie operazioni.

Considerando separatamente i due centri, si deve rilevare che quello relativo alla manodopera finisce per alimentare quattro tipiche correnti di impiego di ore-lavoro, che se rivolte:

all’attrezzamento, determinano spese generali industriali deducibili nell’esercizio, perché consistono nell’operazione di applicazione di attrezzi a macchine per avviare un certo processo produttivo. Tipico il continuo montaggio di stampi su macchinari, di matrici a stampanti, di filtri a condutture etc.;

alla costruzione interna di macchinari, determinano costi specifici da cumulare con altri in una commessa interna per il calcolo dei costi da patrimonializzare obbligatoriamente a fine esercizio;

alla manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione di beni materiali, determinano costi da far confluire nel cumulo da regolare secondo il settimo comma dell’art. 67;

alla sostituzione dei materiali di consumo, determinano tipiche spese di esercizio essendo accessorie al costo del bene su cui si svolto l’intervento.

La coesistenza di queste funzioni che determinano costi a collocazione non uniforme non può non suggerire una contabilità informata alle cause di impiego della manodopera addetta, in forma libera, ma idonea ad impedire alla Finanza pericolose discrezionalità interpretative, possibili quando l’impresa non è in grado di dimostrare di aver dato una soluzione al problema. L’onere di una prova contraria alle evidenze formali sarebbe a carico della Finanza.

Analogo problema si pone per i materiali, che, in genere, affluiscono ad un reparto di magazzino e vengono prelevati al momento del bisogno. Sul piano formale si osserva che la Circolare n. 40 del 26.11.1981 non ha reso obbligatoria la loro contabilizzazione, ma diventa inevitabile l’istituzione di un sistema di buoni di prelievo per determinare a quale tipo di spesa il materiale stato diretto. Gli scarichi potranno essere rivolti alla commessa di costruzione interna, alla sostituzione di materiali di consumo esauriti, alla categoria generica del settimo comma dell’art. 67. La parte non prelevata dovrà essere posta fra le rimanenze e valutata a sensi dell’art. 2425, n. 2, c.c. (minore tra costo e valore corrente di mercato) e non dell’art. 59 D.P.R. 917/86, non trattandosi di beni compresi nell’art. 53.

Vi una osservazione finale. Non risultano in giurisprudenza frequenti casi di analisi dei problemi specifici qui esaminati. Probabilmente la Finanza, dopo le “guerre dei trent’anni” inutilmente combattute sui “distinguo” delle spese incrementative o non dell’art. 98 del T.U. n. 645/1958, non si è più esercitata sugli aspetti giuridici del problema, oppure è sempre meno attrezzata per indagare con cognizioni di causa sulle scelte concrete degli operatori, rese complicate dalla tecnologia avanzante, oppure ha semplicemente considerato che il pericolo di ritenere di esercizio spese pluriennali è sopportabile. Il reddito non potrà non emergere per essere restituito alla naturale imposizione.

III) PROPOSTE CRITICHE

L’analisi sopra esposta è stata condotta in riferimento alla pratica, al vocabolario e al diritto tributario. Sono stati trascurati: dottrina aziendalistica e principi contabili, perché i relativi riferimenti non sono stati trovati soddisfacenti.

Si ritiene doveroso darne motivazione, non senza aver prima constatato che l’uomo pratico, quello che si aspetta che almeno la componente teorica dei suoi problemi sia stata soddisfacentemente risolta, talvolta prova l’impressione che una vuota sofistica continui ad imperversare.

I tributaristi richiamando la dottrina aziendalistica, citano, spesso, G. Mazza, che ha dedicato al problema attenzione elencativa ed esemplificativa con conclusioni evidentemente assiologiche, visto che qualcuno parla di “principi Mazza”.

L’autore avrebbe proposto sei categorie di manutenzione:

a) operazioni varie ricorrenti connesse all’uso dei mezzi di produzione, fra cui si esemplifica fra l’altro la lubrificazione, la revisione delle attrezzature e degli stampi;

b) la manutenzione programmata o preventiva;

c) le riparazioni (o interventi di emergenza);

d) gli interventi di peso economico rilevante detti anche “grande manutenzione e riparazione”;

e) interventi di ammodernamento e di trasformazione, che introdurrebbero sostanziali innovazioni;

f) interventi modificativi degli impianti tali da modificare la natura tecnico-economica degli stessi.

Secondo il citato autore le spese sub a), b) e c) dovrebbero essere addebitate all’esercizio ed anche i costi sub d), ma per motivi di “prudenza”, per quelli sub e) la decisione spetterebbe agli amministratori e per quelli sub f) bisognerebbe trasferire a costo da ammortizzare a nuovo il residuo di quello innovato.

È evidente che l’utilità di tali canoni per la soluzione dei problemi concreti è solo parziale.

Quanto ai Principio Contabile n. 4, si leggono ai § D.III) e seguenti passi così raccordabili:

« i costi rivolti all’ampliamento, ammodernamento o miglioramento degli elementi strutturali di un’immobilizzazione, incluse quindi le modifiche e le ristrutturazioni effettuate in modo da aumentarne la rispondenza agli scopi per cui essa era stata acquisita, sono capitalizzabili se essi si traducono in un aumento significativo e tangibile di capacità o di produttività o di sicurezza o di vita utile. Nel caso in cui tali costi non producono i predetti effetti vanno considerati manutenzione e conseguentemente addebitati a conto economico.

Variazioni rilevanti apportate a cespiti già esistenti a seguito delle predette operazioni comportano un’attenta valutazione dei costi relativi a tali variazioni per determinare la parte che va capitalizzata e quella che va invece considerata “manutenzione”. In alcuni casi tale valutazione pu essere complessa e richiedere quindi l’ausilio di una perizia tecnica…»

A parte l’esuberanza di pleonasmi, si nota una qualche confusione. Innanzi tutto abbiamo la proposta di due nuove categorie metafisiche:

gli « elementi strutturali », per cui ci si deve chiedere, innanzi tutto, quali sono gli elementi strutturali di una immobilizzazione ed ammesso di poterli individuare, si apre il problema di come trattare ad esempio i costi di ristrutturazione magari di elevato valore degli elementi non strutturali. Può essere un caso banale, ma come deve essere trattata la spesa di riverniciatura di un’automobile di lusso, che da sola costa più di una utilitaria?;

aumento « significativo e tangibile » di capacità. Davanti a tali aggettivi c’è da dubitare della pazienza dell’amministratore, che, comunque, potrebbe sempre risolvere i suoi problemi ordinando una non « gratuita » perizia, purché tecnica.

Ma non basta, perché le operazioni debbono essere anche « variazioni rilevanti » apportate a cespiti gi esistenti, diversamente la valutazione non può essere attenta. Giocoforza, perché anche se fosse attenta su cespiti non ancora esistenti non servirebbe a nulla per mancanza di oggetto!

Più avanti, in un § dedicato ai « Rinnovamenti » si legge che: « il rinnovo comporta una sostituzione ». Ciò renderebbe persino inutile dettare un principio contabile.

Ma i compilatori del Principio n. 4 si sono anche preoccupati di affermare, precedentemente, che tutte quelle spese di ampliamento et cetera/ prive dei caratteri enunciati sono di « manutenzione » sono quelli sostenuti per mantenere in efficienza le immobilizzazioni tecniche onde garantire la loro vita utile prevista, nonché la capacità e la produttività originarie; e costi di “riparazione” sono quelli sostenuti per porre riparo a guasti e rotture. Le manutenzioni possono essere oggetto di programmazione in dipendenza di programmi di utilizzazione delle immobilizzazioni. Le riparazioni non possono essere programmate ma entro certi limiti possono essere « ragionevolmente previste ». I compilatori hanno perso una buona occasione per fermarsi alla definizione di riparazione e lanciandosi nel tema della programmazione sono riusciti a dire che le riparazioni pur potendo « essere ragionevolmente previste », non possono essere programmate! Probabilmente bisognerà riscrivere la definizione di « programmazione ».

Ma anche il seguito merita una qualche riflessione:

« Le manutenzioni e riparazioni, da un punto di vista pratico, costituiscono un’unica classe di costi afferenti le immobilizzazioni, identificate con il nome di “manutenzioni”, che congiuntamente alle quote di ammortamento concorrono ad esprimere il contributo che le immobilizzazioni offrono al raggiungimento dei risultati di esercizio » e di seguito:

« In pratica, si fa spesso riferimento alla distinzione tra manutenzione ordinaria e manutenzione straordinaria. La prima è quella costituita dalle manutenzioni e riparazioni menzionate nei paragrafi precedenti, che rappresentano spese di natura ricorrente che si sostengono per pulizia, verniciatura, riparazione, sostituzione di parti deteriorate dall’uso, ecc., spese cioè che servono a mantenere i cespiti in buono stato di funzionamento. Le spese di manutenzione straordinaria costituiscono elementi negativi di reddito dell’esercizio in cui sono state sostenute.

La seconda costituita da costi che comportano un aumento significativo e tangibile di produttivit o di vita utile del cespite e pertanto tali costi rientrano tra quelli capitalizzabili.

Poiché tale distinzione rientra in quella più ampia tra spese capitalizzabili o meno, di cui al § D.I.c), opportuno utilizzare il termine “manutenzione” per riferirsi solo alla manutenzione ordinaria ed in sostituzione del termine generico di manutenzione straordinaria utilizzare il termine pi appropriato del lavoro svolto: miglioramento, ampliamento, modifiche, sostituzioni. ecc.».

Nel passo riportato vi sono affermazioni sicuramente valide, ma, a parte il ritorno del metafisico “tangibile”, dire che le spese di pulizia sono manutenzioni ordinarie, come affermare che la “ramazzatura” del pavimento della fonderia sia una manutenzione. Altro richiamo non felice è quello della verniciatura, che sarebbe operazione fatta almeno una volta all’anno, secondo il principio contabile n. 4. Bisognerebbe almeno precisare che cosa si intende per verniciare e che cosa si vuol verniciare.

Incoerente è poi la frase finale che dovrebbe collegarsi alle operazioni di « mpliamento, ammodernamento o miglioramento » e invece introduce anche le modifiche e le sostituzioni! Sono ignorati i materiali di consumo, mentre sono trattate due categorie: “materiali per manutenzione e “pezzi di ricambio”.

I primi sarebbero a carico del conto economico quando sono di « basso costo » (sic!) mentre « i materiali di maggior costo vengono invece capitalizzati, nel qual caso si devono seguire i principi contabili delle giacenze di magazzino ». I compilatori non si pongono alcun problema relativo al magazzino materiali ed alla « contabilità di magazzino », ma considerano che già al momento dell’acquisto il primanotista si regoli in base al costo, ovviamente unitario. Pertanto, se per fare una complessa operazione di trasformazione, si usassero tanti materiali di costo unitario “basso” o acquistati in piccole partite, i costi sono da addebitare al conto economico, diversamente affluirebbero fra le rimanenze!

Sui “pezzi di ricambio” viene pure proposto il criterio del costo “alto” o “basso”. Se basso verrebbero caricati a spese al momento dell’acquisto, perché sono ignorati i criteri dell’impiego e della destinazione. Per quelli invece a “rilevante costo unitario” il principio distingue fra “uso non ricorrente” da classificare tra le immobilizzazioni cui si riferiscono e con esse da ammortizzare, quelli ad « uso molto ricorrente… Tali pezzi vengono inclusi tra le giacenze di magazzino e scaricati in base al consumo e devono seguire i principi contabili delle giacenze di magazzino ». Non spiega cosa intende per “consumo”.

Il nostro povero tecnico, contabile o industriale, che riteneva di doversi rifugiare nelle certezze della dottrina aziendalistica e dei principi contabili non può non considerare che, tutto sommato, il tanto vituperato legislatore tributario, con la sua mentalità ferroviaria da doppio binario, almeno “un binario” che arriva in stazione l’ha posato. Gli altri restano su un “binario morto”!

Pietro Bonazza