Onere della prova
Premessa 1: genesi dell’onere della prova
La constatazione di Aristotele che l’uomo è un animale sociale (Politica) è antropologica ed è solo il concetto preliminare, che introduce la domanda: perché è sociale? La risposta è scontata: perché l’uomo ha paura a stare da solo e da qui nasce l’agire in consortium, generatore di rapporti amichevoli e conflittuali, risolvibili con leggi e soggetti preposti a garantirne il rispetto di un rito precostituito per cercare la verità. Poiché in molti casi la verità non è di immediata evidenza, serve un percorso, un procedere, dinamico per definizione, che chiamiamo “processo”, dal verbo attivo “procedere” secondo regole predeterminate che assicurino la miglior ricerca e, quindi, del risultato. Se ci limitiamo al processo civile, constatiamo che la fonte originaria è il brocardo di diritto romano “Onus probandi ei incumbit qui agit, non qui negat”, da cui il calco dell’art. 2697 del cod. civ. «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda».
Brocardo e articolo del cod. civ. si occupano pragmaticamente di “onere della prova”, locuzione locuzione tipica del diritto processuale, che l’uso meccanicistico riduce spesso a formuletta, mentre contiene due concetti fondamentali: verità e gravame. Nel mondo del diritto vi sono atti e fatti che si danno per certi o per evidenza a percezione immediata o per presunzione assoluta di legge, cioè senza bisogno di fornire prova, posto che “prova” è un mezzo concreto per scoprire la verità. La prova implica un’azione di accertamento e verifica, ma per dare un senso pratico è necessario individuare a chi incombe l’onere della ricerca e della rivelazione-dimostrazione della verità. Il concetto di vero ha nobili origine nel latino probus, che è sinonimo di bonus, ma, nel tempo si è verificato un distacco, sicché la prova è semplicemente l’accertamento dialettico della verità, a prescindere che sia buona o cattiva, a meno di considerare l’attività di disvelamento di per sé buona. Purtroppo, non è sempre così, come avviene nel diritto processuale tributario, per esempio nel caso della “prova diabolica” o “impossibile”, seppur pretesa dal Fisco e, talvolta, dal giudice. Ecco, quindi, la necessità di individuazione del soggetto onerato, scelta che, spesso, è riservata all’arbitrio del terzo soggetto del processo tributario: il giudice chiamato a risolvere la controversia Fisco-contribuente, non sempre capace di liberarsi dai propri preconcetti ideologici. Basta esaminare molte sentenze, non tanto perché ondivaghe, giustificabilissime, anzi auspicabili, se frutto di res melius perpensa.
Premessa 2: la ratio dell’IVA
Quando nel lontano 1972 il legislatore italiano decise di sostituire l’Iva all’Ige, motivò la novella con la sostituzione di un’imposta sui consumi neutra (Iva) ad altra “a cascata” (Ige), rimodulando il c/economico delle imprese perché, diversamente dell’Ige, che entrava nei costi, l’Iva ne rimaneva estranea. La scelta non fu e non è criticabile, se non altro a fini di trasparenza. Ma non bisogna trascurare due altri principi fondamentali: a) l’Iva è strumentale e complementare rispetto alle imposte dirette; b) con l’Iva tutti gli operatori sono “esattori per conto dello Stato”, con un meccanismo di debito-credito che porta la traslazione sul consumatore finale, vero contribuente dell’imposta sul consumo.
Essere “esattori per conto dello Stato” implica un aggravio di responsabilità, fino a farne conseguire effetti penali per comportamenti illeciti, che il Fisco combatte con ogni mezzo e restrizioni. L’accanimento del Fisco è giustificabile, non tanto perché si voglia a ogni costo che avvenga la traslazione sul consumatore, quanto perché per realizzare l’obiettivo l’ “esattore” finisce per mettersi a credito l’imposta addebitatagli all’acquisto senza conteggiare il debito alla vendita, in genere più alto per effetto del valore aggiunto. Come a dire che l’esattore si appropria di un valore che è dello Stato. Indubbiamente sino a quel punto il comportamento resta neutrale: l’imprenditore Tizio acquista una merce per 100+22 di Iva e si mette in credito 22, cioè è in pareggio, ma l’Erario resta con un credito potenziale o virtuale “verso ignoti” per l’Iva in attesa dei successivi anelli della catena fino al consumatore finale. Se per un qualsiasi motivo la catena si spezza o subisce interruzioni o deformazioni quali: inesistenza oggettiva, inesistenza soggettiva, interposizione fittizia e simulazione con operazioni “carosello” o “cartiera” o altro l’Erario subisce una perdita rispetto alla previsione di legge. Questa premessa giustifica l’accanimento dell’Amministrazione Finanziaria contro l’autore del danno erariale.
La evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione
L’atteggiamento dell’Amministrazione Finanziaria nei casi di comportamenti patologici di violazione dell’applicazione dell’Iva, compresa l’elusione per abuso del diritto, è stato di contrasto persino manicheo, appoggiato per lungo tempo dalla giurisprudenza di merito. La Corte di Cassazione si va assestando su una interpretazione meno ideologicamente punitiva soprattutto in tema di onere della prova.
Nei processi relativi a operazioni ritenute inesistenti sia oggettive sia soggettive abbiamo due parti in contrasto: l’Amministrazione Finanziaria e il contribuente e un metodo processuale: la presunzione. La Suprema Corte dimostra di fare piena applicazione del brocardo sopra ricordato: “Onus probandi ei incumbit qui agit…” però esteso a entrambe le parti in causa, una specie di “dialettica dell’onere della prova”, che comporta la detraibilità o no dell’IVA per l’acquirente pur corrisposta al fornitore e del costo della merce o del servizio per l’imposta diretta, nella considerazione che la denegazione consegue alla violazione del requisito dell’inerenza. La Suprema Corte, con il conforto della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (vedi sentenza 6.12.2012, causa C-285/11), ha, da tempo, affermato il principio, ben riassunto nella recente sentenza 5 aprile 2019, n. 9588, secondo cui « Invero, rappresenta principio ormai consolidato quello per cui, ove vengano contestate al contribuente operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente mentre, ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (cfr., da ultimo, Cass., Sez. 5, 20.4.2018, n. 9851, Rv. 647837-01)».
Si sottolinea che la prova incombente sull’Amministrazione Finanziaria è sì ammessa anche in via presuntiva, però, deve essere caratterizzata da “elementi oggettivi e specifici”, che pare un richiamo sostanziale corretto per contenuto alle presunzioni semplici dell’art. 2729, comma 1, cod. civ. comunque basate su elementi “gravi, precisi e concordanti”.
Pietro Bonazza – dottore commercialista
Giulia Bonazza – dottore commercialista
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