Articolo pubblicato sulla rivista “l’autonomia“, n. 1, gennaio-marzo 2009

Quaderni di cultura politica – Brescia, Via Volturno, 46

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Divagazioni sul concetto di “crisi”

 

Le parole sono pietre…si dice! Ma non stanno ferme e la frequenza del loro impiego è proporzionale al fenomeno contingente a cui si riferiscono. Se trascuriamo l’okay, abusato da telefoniste e commesse ignare del “sì”, la parola più frequente in questi tempi è “crisi”, debordante dai giornali alle botteghe dei fruttivendoli, dalla bocca degli esperti di economia, che discettando ci marciano, ai borghesucci finti poveri, ai poveracci veri, che non arrivano a fine mese. Ma nessuno spiega che vuol dire o, meglio, che significava prima della sua volgarizzazione. L’etimo di “crisi” viene dal greco e significa giudizio, ma anche separazione. Se ripeschiamo questo significato, tuttora valido, constatiamo che una crisi non è un raffreddore che “se lo curi dura sette giorni e se non lo curi: una settimana”. Magari fosse così semplice! Crisi ha un significato talmente negativo che aggiungere l’aggettivo “profonda” diventa tautologia. La crisi è sempre profonda per natura e da qui il suo significato di “separazione”, perché designa un fenomeno diverso dallo stato precedente, comunque più acuto e pericoloso che, se superato, si evolverà in una situazione nuova, “separata” da quella in atto e ancor più da quella che l’ha preceduta.

Gli economisti, dopo la diagnosi, peraltro semplice perché bastano pochi dati statistici per dedurla, discettano sul “come” e soprattutto sul “quando” se ne uscirà. Si prevede la fine del 2009 (gli ottimisti) o tempi più differiti (i pessimisti). Ma il lettore o il televidiota (i Tg sono bravi al gioco della Sibilla) ricavano l’impressione che, dopo l’uscita dal tunnel, l’economia tornerà come prima, anzi in crescita e che il periodo della crisi sarà stato solo una parentesi. I cultori dell’economia dinamica e, quindi, del ciclo economico descrivono il fenomeno, in genere riferito all’andamento crescente o decrescente del Prodotto Interno Lordo, come una sinusoide irregolare, in cui alti e bassi seguono una traccia orizzontale; ma è un rappresentazione ingannevole, perché dipende dall’orientamento della curva: crescente, decrescente o costante. E qui sta il punto cruciale del problema, perché la domanda corretta dovrebbe concentrarsi sul livello da cui potrà partire il nuovo ciclo e quale potrà essere, secondo previsione ragionevole, l’andamento della successiva sinusoide.

La risposta corretta sarebbe comunque azzardata e attenderla dagli economisti sarebbe pretendere troppo. Però, una riflessione può essere proposta: la causa delle crisi attuale è quasi unanimemente attribuita ai finanzieri, schiavi dei loro sogni di onnipotenza, culto della personalità, eccesso di autostima, che secondo un noto farmacologo potrebbe dipendere dall’uso crescente di cocaina riscontrato a Milano. Quindi, crisi morale prima che finanziaria. Ma, droga a parte, l’unicità della causa non è corretta. La causa della crisi è sì, innanzi tutto, di origine finanziaria, ma è l’economia in generale che ha commesso troppi errori, che la “crisi” ha reso acuti ed evidenti, anche se sottaciuti. Sono stati anche errori di valutazione, previsione e programmazione degli imprenditori dei beni produttivi e dei servizi, associati a quelli della politica. Su questo punto bisogna essere chiari per evitare confusioni di natura ideologica. Marx non è mai stato quel grande filosofo ed economista che ci han voluto far credere. Ma una constatazione corretta, seppur calata in un materialismo nemico dell’uomo, bisogna riconoscergliela: la supremazia dell’economia su altri valori. Piaccia o no, è pur sempre una verità, seppur da qui siano derivati sistemi politici che la storia ha abbattuto. I liberisti suoi avversari contemporanei e delle generazioni successive si sono sforzati di dimostrare, a giusta ragione, che democrazia e libero mercato sono un binomio inscindibile. Ma anche questi sono concetti non assolutizzabili o quanto meno non escludono che la politica, intesa come governo degli interessi pubblici, non debba avere alcuna parte. Certo non deve portare a una statolatria, con lo stato imprenditore, pericolo emergente proprio in questo periodo di crisi. Ma lo stato, o meglio il governo dello stato, deve dettare norme atte a impedire lo svolgimento selvaggio del ciclo degli affari. In altri termini: regole poche e chiare per difendere la libertà del mercato, giungla se si vuole l’anarchia.

Questo non è accaduto e la mancata vigilanza, soprattutto sull’operatività delle banche e di disinvolti finanzieri d’assalto, hanno generato o quanto meno accentuato la crisi in atto. Siamo arrivati al punto che amministrazioni pubbliche (specie Comuni) si sono impegolate in speculazioni su prodotti finanziari tossici, anzi velenosi. Basterebbe chiedere a uno qualsiasi degli elettori se è per fare queste operazioni finanziarie con danaro pubblico che hanno dato loro il proprio voto e la risposta sarebbe scontata.

Allora il problema è sì economico, ma, ancor prima, politico e istituzionale e la crisi, oltre che economica, è della democrazia. Poiché dopo ogni crisi il mondo non può essere più come prima, dobbiamo chiederci se non dobbiamo prepararci a rivedere alcuni concetti fondamentali per la salvezza della stessa democrazia, che non dobbiamo pensare immodificabile come volessimo sclerotizzare quella di Pericle, ammesso che lo fosse.

La democrazia come tutte le istituzioni umane è un concetto dinamico e deve riflettere le esigenze del momento.

L’economia, la finanza, la politica, le istituzioni, i partiti e il resto devono essere al servizio dell’uomo e non viceversa. Dobbiamo pensare e agire nella prospettiva di realizzare un “nuovo umanesimo”.

La crisi attuale investe un modello di vita e se qualcuno, per ottimismo o perspicacia, ne intravede la fine, deve anche ammonirci che non vale la filosofia del Gattopardo: “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”; se no, il significato di “separazione” dal sofferto presente sarebbe perduto e si preparerà il terreno per un’altra e più pericolosa crisi.

 

Pietro Bonazza