Ordinanza della Corte di cassazione n. 8606/2015 e art. 53 della Costituzione

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Opinione

 

Sulla legittimità dell’utilizzabilità della “lista Falciani” da parte dell’Agenzia delle Entrate come prova di costituzione di capitali all’estero, si sono espresse in senso negativo la Commissione Tributaria Provinciale di Lecco e, in sede di appello, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, contro cui l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso alla Corte di Cassazione, che, cassando la sentenza di secondo grado, ha emanato la “lunga” ordinanza n. 8606 del 2015.

Invero il caso rappresentava complicazioni di varia natura sostanziale e processuale, anche per precedenti di diritto francese.

La Cassazione ha motivato il suo convincimento che l’utilizzazione di una fonte di delittuosa provenienza, quale indubbiamente è la lista Falciani, sia coerente con la normativa di diritto tributario italiano. Limitiamoci alle fonti normative domestiche e alle critiche di natura processuale sulla sentenza appellata (CTR Lombardia), non intendendo qui esprimere giudizi sia perché le motivazioni sono ampie e argomentate sia perché scopo di questa nota non è l’analisi di riferimenti a norme specifiche di diritto tributario né gli sviluppi motivazionali del giudizio di legittimità, ma di quello che la Cassazione ha ritenuto di esprimere in aggiunta, come non bastassero le norme specifiche invocate dalle parti e dalla sentenza cassata. Si ha l’impressione che la Cassazione non sia convinta della sufficienza della norma tributaria e che sia caduta nella trappola della lungaggine. E qui sta il punto. La Cassazione ha richiamato gli artt. 53 e 24 della Costituzione. Trascuriamo il secondo e concentriamo l’attenzione sul primo, elastico e metafisico, con il che non si intende negare l’opportunità astratta dell’affermazione che “tutti” siano chiamati “a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, ma non si deve dimenticare che, ignorando lo spirito degli estensori della norma (cosiddetti Padri costituzionali), lo Stato ha violato e continua a violare sia quelle buone originarie intenzioni sia che il “concorso” è per il sostenimento delle “spese pubbliche” e non oltre i limiti della “capacità contributiva”. Ora, o l’art. 53 lo si applica nel suo spirito e nella sua interezza oppure bisogna ammettere che qualcosa non funziona nella norma costituzionale e nella sua ormai radicata applicazione. Come si può concludere diversamente, quando la pressione fiscale è oltre il 50% e si fa continuamente confusione tra reddito e patrimonio? In presenza di fenomeni di sperpero della “contribuzione” perpetrato quotidianamente e in via sistematica da parte dello Stato, c’è poco da invocare l’art. 53 senza cadere nell’ironico detto “piove, governo ladro”, specie se la pioggia è una costante meteorologica! Qui si impone una precisazione: non bisogna confondere i comportamenti di singoli politici o burocrati, utilizzatori uti singuli delle casse dell’erario, per il che, se scoperti, sono perseguibili come qualsiasi ladro, con lo sperpero sistematico del “concorso dei cittadini-contribuente” che fa la stessa Pubblica Amministrazione, non perseguibile, perché di causa politica e di sistema di democrazia degenerata. L’art. 53 diventa una ipocrita presa in giro.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza qui citata, pone anche un paragone tra il diritto alla riservatezza e il principio della capacità contributiva, proponendo una gerarchia di importanza affermando che la prima ha una posizione recessiva rispetto alla seconda. Dopo le norme specifiche recentemente emanate sul segreto bancario e gli accordi internazionali in materia, tale paragone gerarchizzante non ha più significato, ma il problema apre alle norme costituzionali, posto che non ha senso affermare che A sia più importante di B, trattandosi di norme tutte pariordinate. Le norme costituzionali sono “tutte” espressioni formali di principi morali consolidati nel tempo, ai quali devono conformarsi le leggi ordinarie e che informano i principi generali dell’ordinamento, che è “uno” e non è settorizzabile, nonostante la moda di affermare: “ordinamento tributario”, “penale” ecc. (Ordinanza cit. par. 8.6). Criticabile anche l’affermazione dell’ordinanza (par. 8.5, peraltro non chiarissima) «Occorre, anzitutto escludere qualunque diretta rilevanza ai fini del giudizio all’avviso espresso da Cass. pen. n. 29433/2013…che, in ambito penale, ha escluso la legittimazione del contribuente a chiedere la distruzione dei documenti della Lista Falciani, al cui interno si rinviene l’affermazione che detti documenti potrebbero costituire valido spunto di indagine ancorché acquisiti illegittimamente, al pari degli scritti anonimi – risolvendosi in un’affermazione che trova il suo ambito all’interno della disciplina processualpenalistica. [e par. 8.6] In effetti, la giurisprudenza di questa Corte è orientata a mantenere una netta differenziazione fra processo penale e processo tributario …», perché non basta affermare che si tratta di ambiti giuridici diversi per impedire qualsiasi vaso comunicante allorché si tratti di affermazioni riconducibili al diritto della persona. Unicità e moralità del diritto sono cardini cui anche il tanto abusato art. 53 Cost. deve fare i conti. Sul piano morale, perché non fare i conti con il 7° comandamento del Decalogo “Non rubare”, che, in uno “stato di diritto”, deve applicarsi sia al cittadino sia allo Stato?

Conclusivamente, sia chiaro che sarebbe addirittura ridicolo, da parte di chicchessia, negare l’attività dell’Agenzia delle Entrate volta a realizzare una concreta lotta all’evasione e negare validità all’obbligo di concorso alle spese pubbliche, ma è questione di strumenti, che esistono, senza bisogno di invocare il totem dell’art. 53 della Costituzione, soprattutto quando non è nemmeno necessario, perché già bastano le leggi ordinarie.