È vano sperare che possa esistere un processo in cui il tuo avvocato non scriva o pronunzi una parola. Eppure se la giustizia funzionasse, visto che ad amministrarla è un giudice imparziale, sereno, preparato, equanime (basta o debbo proseguire?), l’avvocato potrebbe benissimo limitarsi a fare il protettore del suo assistito. Si sa mai che il giudice si dimentichi di esserlo. Quel silenzio non sarebbe impossibile, ma realisticamente improbabile. E allora fiumi di inchiostro, tumulto di parole, cavalloni di principi, ondate di richiami, grida manzoniane ove fai una fatica maledetta a trovare un concetto che non sia avviluppato su se stesso. Boh! Correva l’anno 1815 e dalla “cesarea (sic!) stamperia regia” di Milano, senza il sussiego e la pretenziosità dell’ultima riforma di un processo alla “Ministerodigraziaegiustiziaitalianoannidemocratici”, usciva un “Regolamento generale del processo civile pel Regno Lombardo-veneto, con cui “Noi Francesco I per la grazia di Dio Imperatore d’Austria, ecc. ecc. ordiniamo che “nell’attivazione della causa l’avvocato dovrà conformarsi esattamente a questo Regolamento giudiziario, e presentare le sue scritture con carattere netto e leggibile, e senza eccessiva estensione…”. Capacità di sintesi… addio!