In economia la divisione in aree o argomenti (per esempio: produzione e distribuzione) è proponibile solo per astratti fini didattici o di analisi modellistica, perché, nella realtà l’economia è un unicum. Ignorare questa verità può costare molto caro in tema di errori di scelte politiche e di strategia economica. Politici e sindacalisti sempre a caccia di facile consenso popolare (voti e tessere) si occupano di distribuzione e solo quando una crescente disoccupazione o un insostenibile debito pubblico minacciano di far perdere consenso si accorgono che per distribuire bisogna prima produrre e per produrre bisogna investire in capitali fisici e umani e per investire bisogna risparmiare o comunque differire certi consumi, che è poi un imporre sacrifici. Anche manager di public company, a caccia di consensi assembleari di azionisti e di tacite ratifiche di compensi megagalittici deliberati da compiacenti consigli di amministrazione, praticano la stessa politica: investire poco per autofinanziamento, semmai con ricorso al credito oppure con continui aumenti di capitale, ma distribuire molti utili, perché questo sostiene i corsi di borsa e alimenta la speculazione al rialzo. I risultati di breve periodo (ormai siamo ridotti al trimestre) sembrano l’unica statistica che conta nel “turbocapitalismo”, caratteristica ormai dominante di un’epoca piena di contraddizioni e di incomprensioni, anche perché non sempre è possibile conoscere la storia mentre la si fa. Ma un concetto permane tenacemente intatto anche dietro i cambiamenti in corso. Anzi, forse ne è l’anima più trascurata o volutamente ignorata, perché metterla in evidenza può sottolineare errori di politici, sindacalisti e imprenditori, tutti connessi a quel concetto, spesso inafferrabile, ma reale: la produttività. Sembra facile da definire, ma il rapporto tra un output al numeratore e un input al denominatore, introduce un concetto piuttosto elastico, almeno per due motivi: · è più facile a dire che a determinare in termini contabili o comunque quantitativi, proprio perché nella realtà delle produzioni al numeratore possono esserci output congiunti, che è fenomeno sempre crescente in un’economia tecnologicizzata; · analogo rilievo può essere fatto per il denominatore. I processi produttivi sono sempre più complessi e compositi. Teoricamente siamo fermi a produzioni a un fattore, mentre una combinazione inscindibile di lavoro, capitale monetario e capitale intellettuale è l’input ricorrente. Paradossalmente e anche volendo, non è più possibile stabilire determinazioni matematiche o computistiche in riferimento a principi meritocratici. Chi riesce ad avvicinarsi con minor approssimazione alla realtà è il mercato, che non è un giudice con la “G” maiuscola, ma è lo strumento meno sprovveduto disponibile. Il punto è proprio questo. Ricordo una affermazione di Milton Friedman, il più duro (forse perché più integralista) degli economisti della “Scuola di Chicago”: ” ho da obiettare a essere diretto sia da una aristocrazia di nascita sia da una meritocrazia ma, se proprio devo scegliere, mi sembra che una aristocrazia di nascita sia di gran lunga il male minore, e questo solo perché quelli che sono nati per essere aristocratici sono meno arroganti…Ma una meritocrazia, individui che sanno di essere più abili dei loro simili, e si trovano quindi in una posizione dirigente? Dio ce ne scampi. ” (“Per il libero mercato”, pag. 48). Si può essere o no d’accordo con Friedman, ma, paradossalmente i suoi seguaci più convinti sono i sindacati italiani, che tendono ad attribuire al fattore lavoro un peso nella composita variabile dell’input più elevato di quello che un rigoroso principio meritocratico potrebbe attribuire. Non solo, ma i sindacati italiani, concentrandosi sulla fissità del posto di lavoro e l’ingessatura dell’esistente, hanno creato una specie di aristocrazia del lavoro: chi è in un posto è come se vi fosse nato, come avviene, per esempio, con i contratti collettivi dei portalettere, che è occupazione trasmissibile per successione. Non dico che non debba essere così, ma, è corretto riconoscere che lo è in pratica. La produttività è il parametro concreto, che potrebbe consentire la distribuzione in un contesto meritocratico e su questo punto si constata una qualche incoerenza nello stesso Friedman. Peraltro la produttività è parametro che dovrebbe essere applicato anche alla pubblica amministrazione. Per esempio: la pressione fiscale raggiunge i limiti (che poi è illimitata perché non c’è limite al peggio!) noti in Italia; se la si confronta con i servizi resi e la loro qualità, si può avere una misura di produttività, che un qualsiasi criterio meritocratico non giustificherebbe. Diversamente che in Italia, la produttività negli Stati Uniti ha continuato ad aumentare, perché il mix lavoro, capitale finanziario e capitale intellettuale ha continuato a crescere e i risultati si vedono. Quel paese ha problemi enormi di indebitamento con l’estero e la forza del dollaro agevola questo fenomeno moltiplicando le importazioni, peraltro, senza importare inflazione, perché i contratti avvengono in dollari. Tuttavia, se si vuol trovare una spiegazione del fenomeno americano si deve ricordare che la sua continua crescita, per dirla con l’economista Franco Volpi (vedi il suo testo:”Sviluppo”), è nella accumulazione del capitale, agevolata da una crescente produttività del lavoro in presenza di bassi salari, che consentono la formazione di elevati profitti, che reinvestiti alimentano un circolo “virtuoso” di accumulazione, a sua volta molla di crescita della produttività, dell’occupazione e della produzione. Piaccia o no, invidiabile o no, la società americana, anche dopo Reagan e con il democratico Clinton, va da anni in questa direzione ed Europa e Giappone non hanno saputo contrapporre modelli diversi e più efficaci. David Rockefeller, il cui nome è un simbolo e tutto un programma e mastica di economia, in una intervista in occasione degli incontri di Cernobbio nel giugno scorso, alla domanda “Cosa ne pensa della new-economy” ha dato una risposta significativa: ” È una rivoluzione positiva e mi sembra che non ci siano motivi per cui l’Europa non dovrebbe guadagnare terreno e rafforzarsi così come noi abbiamo già fatto. Nell’ultima decade, una serie di ragioni – fra cui l’aumento sostenuto della produttività che ora è al 2,6% [come vedremo è il doppio] un tasso molto elevato – ci hanno consentito di crescere velocemente senza avere inflazione. ” La diagnosi è esatta, ma incompleta e bisogna aggiungere la precisazione su chi si appropria della maggior parte dell’incremento di produttività. Il vecchio nipote del fondatore della dinastia dei Rockefeller non è entrato in tale pur fondamentale particolare, ma è evidente che per lui, uomo di petrolio e di finanza, ma soprattutto americano pragmatico aperto al nuovo, anche la new economy deve essere intesa come economia reale o in essa tradursi. Invece, gli economisti nostrani restano abbarbicati a triti e ritriti concetti legati ai soli tassi di interesse, indifferenti che in Giappone abbiano dovuto abbandonare lo “zero”, visto che la depressione non si è smuove nemmeno dando i soldi in comodato. In autunno i tassi cresceranno ulteriormente anche nell’Europa dell’euro, se non per motivi interni (l’UEM ha importato con il petrolio flussi di inflazione e ha peggiorato pericolosamente il disavanzo della bilancia dei pagamenti), perché Greenspan sarà a sua volta costretto ad aumentare quelli statunitensi, come ha suggerito il Fmi, secondo il quale è già anche in ritardo. Una constatazione valga per tutte: in luglio il prudente Greenspan, con dosate parole da moral suasion ha sperato di frenare la borsa e l’entusiasmo della domanda. Non c’è riuscito, perché nei giorni successivi si è appreso che il Pil, complice l’incremento della produttività (+ 5,3% nel secondo trimestre), era ancora in crescita. Anzi, poiché tra le cause dell’incremento c’è anche l’accelerazione negli investimenti, c’è da aspettarsi un ulteriore e differito incremento della produttività, proprio per la natura degli stessi, che sono mirati a esaltare la già elevata produttività richiamata da Rockefeller. La salute è un bene inestimabile, anche per un motivo: nessuno è mai morto per eccesso di salute, ma la crescita della produttività non pare una malattia. (Pubblicato anche in “ItaliaOggi” del 9.9.2000)