Articolo pubblicato sulla rivista “Bollettino Tributario d’Informazioni”,

n. 11, del 15 giugno 2006

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Sommario: 1. OSSERVAZIONI PRELIMINARI – 2. ANALISI DELLA NORMA – 2.1 Le tesi ministeriali; 2.2 Le pronunzie della Corte di Cassazione

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L’eliminazione dalla contabilità fiscale di crediti da ritenere definitivamente compromessi continua a costituire un problema alimentato da prese di posizione anche ondivaghe dell’Agenzia delle Entrate e da dogmatiche sentenze della Corte di cassazione, che sembrano ignorare il mondo reale dell’impresa.

Il legislatore, consentendo la costituzione e l’alimentazione annuale di un fondo svalutazione crediti, sembra essere stato più saggio, almeno in linea di principio, lasciando però margini discrezionali troppo ampi ai suoi censori amministrativi e giudiziali, la cui preoccupazione di comportamenti elusivi ha portato a interpretazioni dubbie e comunque non generalizzabili.

Per stabilire un corretto approccio al problema è necessario far precedere l’analisi della norma, contenuta nell’art. 101, comma 5, Tuir 917/1986, da osservazioni preliminari.

 

1) OSSERVAZIONI PRELIMINARI

 

Nel Testo Unico delle imposte dirette non si rinviene una norma che distingua la natura del soggetto interlocutore dell’impresa, per cui non fa differenza che la contropartita sia un’altra impresa o un soggetto non imprenditore. Il che è anche logico, perché diversamente dall’IVA, in cui i soggetti sono contemporaneamente tre: cedente o prestatore da una parte, cessionario o fruitore dall’altro e Fisco, nelle imposte dirette ogni soggetto passivo d’imposta sviluppa autonomamente il suo rapporto con l’Amministrazione finanziaria, applicando correttamente per sé le norme in materia. Se così non fosse, potrebbero nascere comprensibili distorsioni. Per fare un esempio: l’imprenditore Tizio cede un bene già in parte ammortizzato e con valore contabile netto residuo di 80 per pari corrispettivo all’imprenditore Caio, che lo registra nella propria contabilità allo stesso valore proseguendo l’ammortamento sulla nuova base ridotta. Si potrebbe sostenere che il valore corrente del bene sia 90 e che Caio abbia scansato una plusvalenza potenziale di 10. Sarebbe facile arguire che, in astratto, il minor ricavo di 10 per Caio è specularmente compensato dall’equivalente minor costo di Tizio e che, attraverso i minori ammortamenti futuri, il Fisco resta neutrale. Il ragionamento sarebbe fondato, se Tizio fosse nelle stesse condizioni fiscali di Caio; ma, questo raramente si verifica, per diverse circostanze derivanti da riporto di perdite, regimi agevolativi, ecc.; sicché quella equivalenza da specularità non è certo la regola.

Per questi motivi il principio di economicità del gettito netto si ritiene non applicabile.

Conseguentemente cade ogni necessità di distinguere la natura soggettiva (impresa o non impresa) della controparte dell’imprenditore, che resta interlocutore autonomo con l’Amministrazione finanziaria.

 

 

2) ANALISI DELLA NORMA

 

Escluse situazioni di procedure concorsuali, la parte del comma 5 dell’art. 101 Tuir 917/1986, che interessa questa analisi, recita: «…le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi…». Il punto focale è nei due aggettivi “certi” e “precisi”, che non sono da collegare all’art. 39 DPR 600/1973, ma all’art. 109, comma 1 (ex art. 75) dello stesso Tuir, che in tema di competenza condiziona la deducibilità di oneri alla certezza dell’esistenza (il “certo” dell’art. 101) o alla determinabilità oggettiva dell’ammontare (il “preciso” dello stesso articolo). La collegabilità tra le due norme sembra improponibile, perché la “o” disgiuntiva del 109 non è la “e” congiuntiva del 101, come a dire che per la competenza basta manchi una delle due condizioni che questa non si verifica; mentre per il 101, certezza e precisione devono coesistere. Questa discrasia è solo apparente, perché nel 109 la lettura corretta è “finché le due condizioni non coesistono, non si ha competenza, ma quando coesisteranno la competenza si verificherà” e così è nel 101: “la deducibilità è possibile se coesistono i due requisiti”. Quindi, le due norme sono parallele e coerenti, solo che si abbia cura di tramutare la locuzione del 109 da negativa in positiva (il senso non cambia) e l’omogeneità ripristina l’equivalenza.

Questa omogeneità sostanziale consente di utilizzare l’esperienza interpretativa accumulata sull’art. ex 75 rinumerato 109, co. 1, per risolvere i problemi di deducibilità delle perdite sui crediti, di cui al 101, comma 5, posto che sarebbe assurdo, oltre che antieconomico, erigere impalcature interpretative autonome.

È bene anche ricordare che la certezza non assorbe la precisione. Non basta cioè affermare: “se è certo è anche preciso”, perché il primo requisito attiene all’esistenza, mentre il secondo al quantum. Da qui la necessità della loro autonomia e della “successiva” congiunzione.

Se si sviluppa l’analisi sui due requisiti, si può constatare che non sorgono particolari problemi quando la perdita totale o parziale è rilevata a posteriori, perché in questo caso la certezza si riduce a mera constatazione di un evento già accaduto (insolvenza formalizzata) e la precisione, totale o parziale, è già determinata dall’evento stesso (quantum perduto).

Ma questa categoria di perdita (constatazione a posteriori) è banale. Più problematico – e questo può spiegare certa giurisprudenza – è il caso, frequente, di constatazione che il credito è “presumibilmente” perduto. Il requisito della certezza è, allora, affidato alla probabilità, che non è “scommessa” o “prudenza”, ma è fondata e ragionevole previsione di un esito finale già scontato nella patologia in atto e diagnosticata dallo stesso imprenditore creditore.

 

2.1 Le tesi ministeriali

 

Che l’Amministrazione finanziaria interpreti le norme con mere finalità di gettito non è più una novità. Sono lontani i tempi in cui il funzionario si riteneva un magistrato e interpretava le norme con spirito di oggettività. Ingigantire i crediti e incassarli possibilmente in anticipo, diminuire i debiti e possibilmente non pagarli mai, è la nuova ideologia fiscale. Accettiamola per quel che è, senza nostalgie o rammarichi, perché il mondo è cambiato.

In questo quadro si inserisce l’ondivaga posizione dell’Amministrazione anche sulla interpretazione delle norme sulle perdite sui crediti. Però, bisogna riconoscere che anche la cosiddetta stampa specializzata ci mette del suo, nel generalizzare interpretazioni che l’Amministrazione ha riservato, invece, a casi specifici. Ne è un esempio la circolare 10 maggio 2002, n. 39, che ha ricevuto interpretazioni giornalistiche ingannevoli [1]. La circolare ha affrontato il caso di deducibilità dei crediti iscritti nelle masse passive di fallimenti all’estero. Il circolarista ha premesso che nell’art. 66 del TUIR (ora 101) non esiste una norma specifica e più generosa o agevolativa per le perdite di crediti esteri e da qui ne trae l’ineccepibile interpretazione che devono valere anche per tali crediti le norme tributarie comuni. L’interpretazione di alcuni commentatori ha generalizzato la tesi dell’Amministrazione estendendola fino al concetto che “tutti” i crediti, nazionali ed esteri, si possano ritenere perdite deducibili solo nel caso in cui la “definitività” è constatabile a posteriori, cioè dopo “tutti” i possibili esperimenti di recupero. Non pare sia stata questa l’intenzione dell’Amministrazione, perché sarebbe caduta in aperta contraddizione. Si ammetta, per assurdo, che un imprenditore vanti un credito di mille euro rimasto insoluto. Se per scaricare fiscalmente la perdita fosse costretto a sostenere diecimila euro di spese legali infruttuose, l’Amministrazione imputerebbe al contribuente un comportamento antieconomico, negando la deducibilità delle spese legali, così come nega la perdita di una merce a listino per mille e venduta per uno! È principio generale, unanimemente accolto, perché di “buon senso”, e riconosciuto dalla Corte di cassazione in più sentenze, che le scelte dell’imprenditore non siano discutibili da parte dell’Amministrazione, a meno che non si tratti di casi di manifesta violazione del principio di ragionevolezza o di atti simulati o di truffa a danno dello Stato [2].

Si deve anche ricordare che nell’art. 37-bis DPR 600/1973 è stata inclusa tra le norme antielusive, la lettera c) relativa alle “cessioni di crediti”, norma non generalizzabile ma da restringere ai soli casi di “cessione” e in violazione di “valide ragioni economiche”. Quindi, si tratta di presunzione relativa, non assoluta.

 

2.2 Le pronunzie della Cassazione

 

Anche sul tema delle perdite su crediti la Corte di cassazione è stata più volte investita con esisti alterni secondo le sezioni e i preconcetti ideologici. È inutile ignorare che il diritto tributario si presta, più di altri rami, a lasciar operare, pur tacendola, l’opinione che il giudice coltiva in sé sull’imprenditore. Se il preconcetto è di un evasore sempre attivo, una qualche forzatura nella sentenza è consequenziale. Se il giudice è formalista o garantista o colpevolista, pure. È inevitabile e si verifica in ogni epoca, anche se non si deve generalizzare, perché anche a Roma esistono “giudici di Berlino”!

Inutile qui proporre inventari di sentenze e, poiché ho escluso dal tema il caso della competenza temporale per la deducibilità di crediti coinvolti in procedure concorsuali, il campo si restringe ai casi per i quali si applica la condizione della “certezza e precisione” dell’art. 101, comma 5, TUIR, ma non con verifica a posteriori, che sarebbe una mera tautologia rendendo la norma inutiliter data, ma con una valutazione libera dell’imprenditore, seppur fondata su valide motivazioni economiche. Si può fare riferimento alla sentenza 23 maggio 2002, n. 7555 [3], come espressiva del punto di vista della Cassazione sul tema e di cui si riporta di seguito la parte finale del dispositivo:

« L’art. 66, 3° co., d.p.r. n. 917/86, dispone che le perdite su crediti sono deducibili dal reddito imponibile se risultano da elementi certi e precisi e, in ogni caso, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali, senza attribuire alcun rilievo alle modalità ed agli strumenti utilizzati per fare emergere tali perdite in bilancio.

La circostanza che questo fine venga perseguito mediante una cessione dei crediti pro soluto a prezzo notevolmente inferiore alla loro valuta, una volta che l’amministrazione finanziaria abbia negato, anche nella fase giudiziale, la deducibilità fiscale delle perdite sul rilievo della loro cessione sottocosto ovvero senza il rispetto delle forme previste per considerarli non recuperabili, non esonera, quindi, il contribuente dal documentare mediante elementi certi e precisi che la perdita risultante dalla cessione si era già verificata al momento della stessa ovvero che a tale data il debitore era assoggettato a procedure concorsuali (cfr.: Cass. civ., sez. V, sent. 11 dicembre 2000, n. 15563 [4] ; Cass. civ., sez. V, sent. 4 ottobre 2000, n. 13181 [5] ).

Coerentemente ed adeguatamente, quindi, la decisione impugnata si è richiamata nella sua motivazione all’ingente ammontare dei crediti ceduti ad un prezzo simbolico ed all’assenza di prova dell’esperimento nei confronti del debitore di un qualsiasi tentativo di esazione prima della cessione per ravvisare la soccombenza della società nella contestazione della pretesa tributaria, giacché non aveva in alcun modo soddisfatto l’onere impostole dalla legge di fornire la specifica e concreta dimostrazione della perdita subita ».

La formulazione della sentenza offre più osservazioni:

1) La Cassazione non nega in termini assoluti la deducibilità delle perdite di crediti ceduti pro soluto, ma afferma un rovesciamento dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale dovrebbe avviare tentativi di esazione prima della cessione. A parte la considerazione che la prova può rivelarsi “diabolica”, sembra legittimo porre in dubbio il rovesciamento. Se l’imprenditore, nella sua indiscutibile discrezionalità di valutazione, ha ritenuto che un pacco di crediti non meriti nemmeno le spese per un tentativo di esazione, non si vede perché dovrebbe fornire una qualsiasi prova. Inoltre, quale sarebbe il tentativo di esazione, che potrebbe costituire prova accettabile? Una lettera di sollecitazione? La lettera di un legale? Atti esecutivi, costosi e privi di esito, come era da prevedere? Ma il diritto delle obbligazioni non prevede forse all’art. 1219 cod. civ. che, scaduto il termine per soddisfare l’obbligazione, il debitore diventa insolvente senza bisogno di messa in mora? Se è così, non dovrebbe essere l’Amministrazione a dover dare la prova che un credito di 1000 ceduto a 10 valeva invece 15? Accettando la tesi della Cassazione. sarebbe facile aggirare l’obbligo di motivazione dell’accertamento. Non solo, ma l’affermazione “una volta che l’amministrazione finanziaria abbia negato, anche nella fase giudiziale, la deducibilità fiscale” è una vera perla processuale, perché riconosce una validità giuridica alla semplice negazione dell’Amministrazione. Per di più nella fase giudiziale. Ma non è forse il giudice il direttore della fase giudiziale? E allora che validità giuridica può avere la negazione reiterata nella fase giudiziale maggiore dell’affermazione della perdita da parte del contribuente?

2) La Cassazione pretende una prova di certezza e precisione anteriore alla cessione pro soluto. Ma la cessione è essa stessa “la prova”; è in re ipsa, che, inoltre, già incorpora le condizioni richieste dall’art. 101, perché avviene in base a un regolare contratto. Se la prova deve precedere il contratto allora l’imprenditore non ha bisogno di effettuare alcuna cessione: scarica la perdita, ovviamente passando dal fondo, se esiste, e pulisce il suo bilancio “fiscale”.

3) Il fenomeno “cessione pro soluto” si presta a generalizzazioni, senza cadere nella vietata analogia, perché vi sono altre costruzioni giuridiche che possono raggiungere lo stesso risultato, peraltro fuori dall’ambito dell’art. 37-bis, comma 3, lett. c), D.P.R. 600/1973, che, essendo norma speciale, può operare solo per il tipo di rapporto ivi enunciato. Si pensi alla remissione del debito, alla transazione, all’annullamento ecc., tutte forme giuridiche che non possono essere disconosciute come prove della perdita seppure abbiano minor forza di una cessione pro soluto.

La Cassazione, quando è costretta a muoversi sull’incerto terreno in cui il rigorismo formale e dogmatico si scontra con l’innegabile libertà di valutazione dell’imprenditore, non sembra trovare la formula adatta. Fa ricorso, talvolta, alla violazione del principio di ragionevolezza, talaltra sembra legittimare il ricorso alla simulazione, ma il risultato è sempre di giudizi non del tutto convincenti. La norma reiterata dall’ex art. 66 al nuovo art. 101 non è certo delle più felici, ma questa non giustifica sentenze irrazionali, che finiscono per penalizzare l’impresa fino alla tassazione di redditi inesistenti per denegazione della detrazione di costi e oneri di evidente rilevanza anche fiscale.

Pietro Bonazza


[1] In Boll. Trib. 2002, pag. 771.

[2] Si veda sul tema, in Boll. Trib., 2004, n. 1, pag. 67, la chiara nota redazionale a commento della sentenza Comm. Trib. reg. Emilia-Romagna, 4.5.2001, n. 75, con richiami delle sentenze della Corte di cassazione e degli articoli di A. Voglino.

[3] In Boll. Trib. 2004, pag. 465.

[4] In Boll. Trib. On-line.

[5] In Boll. Trib. 2001, pag. 704.