Il difensore del ricorrente nel processo tributario

(articolo pubblicato sulla rivista “il fisco”, 2002, n. 25, pag. 9654)

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1 – Premessa.

 

L’ultima riforma del processo tributario è nata dall’idea di dare maggior dignità al giudizio. La decisione è stata promossa a sentenza [1], il commissario a giudice, il consulente delegato a “difensore”, il rito a vicecodice di procedura civile. Quanto sia cambiato in sostanza rispetto alla forma, lo si può desumere dalla qualità delle sentenze, alle quali, senza cadere in paragone di offensiva mercificazione, si dovrebbe applicare il termine “fair average quality” della tecnica mercantile. Non conta la produzione di alcune rare auliche sentenze, ma che la “qualità media” sia “buona”.

La riforma ha portato un miglioramento dello standard qualitativo, ma restano numerosi i problemi aperti, forse anche causati da quel vizio ontologico, che continua a fomentare la domanda sulla natura del processo tributario.

Il diritto positivo è deduttivo, ma la critica al diritto può essere induttiva. Il legislatore, quando è spinto a modificare un istituto, non ha miglior riferimento per la valutazione critica, in genere basata sulla statistica, di come ha funzionato la norma vigente.

Questa constatazione consente l’estensione a un percorso analogo: valutare il processo e il diritto materiale dalla figura del difensore prevista dalla legge. Per esempio, dal tipo di difensore ammesso davanti alla curia si valuta il codice di procedura penale e da questo il diritto penale. Se la legge pretende un difensore qualificato e abilitato secondo requisiti predeterminati, avremo un diritto di procedura (formale) e uno sostanziale (materiale) di un certo tipo [2]; invece, se il difensore può essere un “chiunque”, il diritto sarà di un livello diverso.

Un tempo questi circuiti, rientranti nella cosiddetta logica del diritto, sarebbero stati la regola; oggi che si vive in diritti a casistica, frammentati da uno specialismo dirompente, sono semmai l’eccezione e, allora, ci si deve fermare alla mera constatazione empirica e accontentarsi di norme scollegate, rinunciando ai sistemi. Un senso pragmatico può confortarci nel constatare che il diritto può svolgere benissimo le sue funzioni reali anche senza essere un unicum e, allora, spingerci a non pretendere costruzioni piramidali alla Kelsen con un sistema di norme gerarchiche che scendono coerenti per derivazione dall’apice, su cui stia la Costituzione. È una questione di coerenza, nel senso che potrebbe non essere consentito di invocare contemporaneamente la specialità e la derivazione sistematica. Nel diritto processuale tributario questa presunzione è, invece, la regola. Si continua a invocare l’art. 102, comma 2, della Costituzione per affermare che non sono compatibili “giudici straordinari o speciali”, però il diritto processuale tributario è di fatto un “tribunale” speciale, e allora non si sarebbe potuto scrivere l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che fa rinvio al codice di procedura civile. Bastava che il legislatore dicesse: quello regolato in questa legge è il “processo tributario” punto e basta. Invece ha voluto fare rinvii formali con la formula ipocrita del “per quanto non disposto e in quanto compatibili”, mescolando il tutto con rinvii recettizi di vario genere. Il pasticcio è tale che solo la buona volontà di giudici e difensori riesce a metabolizzare, dandoci una produzione giurisprudenziale che è mediamente buona con punte di eccellenza in non poche sentenze espressive di giudicati raffinati per approfondimento logico e giuridico. Le magagne insanabili non possono però essere assorbite: né dalla scienza giuridica, né dalla buona volontà e, pertanto, la definizione, anzi la qualificazione della figura del difensore non può lasciare indifferenti.

Non lasciò indifferente un giurista sommo come Francesco Carnelutti, che dimostrò per tutta una lunga vita di scienziato del diritto l’importanza di considerarne l’unicità, come affermava anche il suo coetaneo e avversario filosofo del diritto Giuseppe Capograssi. Il Carnelutti pubblicò sulla “Rivista di diritto processuale civile”, n. 2 del 1940, il saggio Figura giuridica del difensore, che meriterebbe una ristampa, se non altro per dimostrare alle nuove generazioni come si scrive di diritto con stile limpido e con uso di similitudini, che attingono alla chimica e alla matematica per conseguire la miglior dimostrazione di una tesi. In una delle affermazioni di apertura si legge che il problema: «…supera ancora una volta i limiti del diritto processuale per rientrare nell’alto e vasto campo della teoria generale del diritto », considerazione che giustifica i richiami ai circuiti induttivi (dal processo al diritto sostanziale) sopra espressi, purtroppo caduti di moda. Carnelutti conclude il suo studio condotto sull’accostamento tra la figura del procurator e quella del nuncius, affermando che nel processo civile la figura del difensore è la seconda.

Chi si accontenta delle sole conclusioni senza preoccuparsi dei percorsi logici, che, invece, sono l’anima del diritto, può rimanere indifferente e considerare che una etichetta valga l’altra. Ma se poi legge la sentenza della Corte costituzionale 13 giugno 2000, n. 189, fa fatica a capirne le conclusioni, se ha scartato le argomentazioni fondamentali o, per dirla con Carnelutti, se ha trascurato la “teoria generale del diritto”.

 

 

 

2 – Il difensore nella procedura civile

Il processo non è solo un affaire complicato, è anche e per conseguenza riservato a specialisti, siano essi giudici o difensori. Se la regolamentazione del vivere civile è affidata all’ordalia il difensore non serve, perché dove vige la credenza del “giudizio di Dio” bastano due cataste di legna ardenti affiancate e un incolpato che vi passeggi in mezzo. Però, quando i costumi si affinano, le leggi si complicano e il saperle interpretare diventa una necessità, in ogni caso; se no, non si spiegherebbe il brocardo: etiam in claris fit interpretatio. Allora, occorre l’uomo del sapere giuridico e, come ha insegnato Francesco Bacone: “sapere è potere”. Anche Manzoni se ne è occupato nel suo capolavoro delle “nozze sofferte”, con sottile e ironico umorismo.

Nascono prima le corporazioni dei difensori, poi, nei secoli seguono gli ordinamenti disposti per legge. Seguendo il filone italiano, si arriva all’attuale ordinamento della professione forense, che si confronta, per certi aspetti in modo dialettico, con i codici di procedura. Sicché, il difensore, per esempio nel processo civile, è la figura che assume le funzioni previste nel Capo II c.p.c. e precisamente dagli articoli 82 e seguenti, da cui si possono estrarre le definizioni di procurator o di nuncius secondo la citata trattazione del Carnelutti.

A parte la constatazione che una professione fra le più antiche del mondo, consolidata nei secoli, lasciava ancora dubbi nel 1940 in un giurista come Carnelutti, si può però considerare che nel processo civile un punto è sicuro: la necessaria presenza del nuncius sin dall’introduzione della vertenza. Non sono previste attivazioni processuali senza patrocino sanabili successivamente, perché la legge non lo consente, salvo infimi livelli di valore.

 

3 – Il difensore nel processo tributario

Si è ritenuto, persino dalla Corte di cassazione, che, per il rinvio formale dell’art. 1 del D.Lgs. 546/1992 al codice di procedura civile e per previsione formale dell’art. 12 collegato all’art. 18, comma 3, del D.Lgs. stesso, anche il processo tributario non si potesse introdurre senza la presenza ab origine di un “difensore abilitato”, pena, “per le controversie eccedenti il valore di cinque milioni”, la “inammissibilità del ricorso” a sensi dell’art. 18, comma 4 del D.Lgs.

Si è però verificato un fatto particolarmente curioso, che arricchisce la gamma delle stranezze del nostro diritto, soprattutto procedurale, e cioè: il D.Lgs. 546 è sì datato 1992, ma, come l’elefante, è nato grande, perché, per la sospensione del “parto” operata dall’art. 80, comma 2, solo con la Legge 20/11/1995, n. 425, ha potuto “nascere” l’1 aprile 1996. Intanto che scorreva la lunga vacatio, è stato emanato il D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito con legge 29 ottobre 1993, n. 427), che con l’art. 69, comma 2, lett. c) ha modificato il comma 3 dell’art. 18 del D.Lgs. 546/1992.

Sembra che la giurisprudenza affermatasi in tema di “inammissibilità” del ricorso non abbia tenuto in conto adeguato questa successione normativa. Si deve anche osservare che l’art. 79 del D.Lgs. citato, già aveva disposto un regime transitorio per i giudizi pendenti avanti alle Commissioni di primo e secondo grado destinate a essere sostituite con quelle di nuovo conio “provinciali” e “regionali”. In questi casi la norma ha stabilito che: «…la regolarizzazione della costituzione delle parti secondo le nuove norme sulla assistenza tecnica è disposta, ove necessario, secondo le modalità e nel termine perentorio fissato dal presidente della sezione o dal collegio rispettivamente con decreto o con ordinanza da comunicare alle parti a cura della segreteria. »

In questa norma, destinata a salvare i ricorsi inoltrati senza la sottoscrizione di un “patrono” tributario, si leggono due locuzioni particolarmente interessanti come:

“assistenza tecnica”, coerente con la rubrica legis del precedente art. 13 e il comma 2 dello stesso;

“ove necessario”, che può sì essere intesa in diretto collegamento con il valore della controversia, ma anche come apprezzamento discrezionale dell’organo decidente, nel senso che la “necessità” sopravviene dopo che l’organo l’ha ritenuta tale, quindi discrezionalmente e a prescindere dal valore. Questa interpretazione può sembrare “tirata” in astratto; lo è meno se si pensa che la norma riguarda il regime transitorio dei ricorsi pendenti; come a dire che, se fosse rimasto il regime vigente al momento della introduzione della causa, il ricorrente avrebbe avuto il diritto di difendersi da solo e lo jus superveniens non può incidere su un diritto acquisito; però se la complicazione della materia e la maggior “dignità” del nuovo processo lo richiedano, l’organo, apprezzandone la necessità, può imporre l’assistenza tecnica obbligatoria e l’integrazione degli atti con la figura del “difensore” che, trattandosi appunto di “assistenza tecnica”, non può che essere un “difensore tecnico” o per dirla con Carnelutti un nuncius tecnico.

Poiché non si è trattato di una delle tante norme “a stralcio” presenti nella storia del nostro diritto, ma di una norma di saldatura, vien da chiedersi se l’art. 75 possa avere una ricaduta anche sull’intero istituto dell’assistenza tecnica del D.Lgs. 546, quindi oltre la transitorietà. La domanda ha un suo senso, però travolto dalla sentenza della Corte Costituzionale 13 giugno 2000, n. 189 [3], che in pratica e a mio avviso ha cancellato l’art. 75 o meglio lo ha trasformato da norma “transitoria” in “permanente”.

 

 

4 – La sentenza 189 della Corte costituzionale

La lettura che la Corte costituzionale ha dato della modifica del comma 3 dell’art. 18 del D.Lgs. 546/1992 apportata dall’ art. 69, comma 2, lett. c) del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, è riassunta nel seguente passo: « A seguito di tale modifica, il riferimento al disposto del comma 5 dell’art. 12 assume un significato logico (con interpretazione in armonia con un sistema processuale che deve garantire la tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità che si risolvano a danno del soggetto che si intende tutelare) di richiamo complessivo all’intero comma 5 e quindi al meccanismo dell’ordine da parte del Presidente della commissione o della sezione o del collegio di “munirsi di assistenza tecnica fissando un termine entro il quale la stessa (parte) è tenuta, a pena di inammissibilità, a conferire l’incarico ad un difensore abilitato”. La conseguenza è che l’inammissibilità scatta – per scelta del legislatore tutt’altro che irragionevole – solo a seguito di ordine ineseguito nei termini fissati e non per il semplice fatto della mancata sottoscrizione del ricorso da parte di un professionista abilitato. Tale soluzione appare maggiormente in linea col principio e criterio direttivo della delega [art. 30, comma 1, lettera i)…]…. D’altro canto, deve essere sottolineato che trattasi di semplice assistenza tecnica (e non anche di rappresentanza), il cui incarico può essere conferito anche in sede di udienza pubblica (art. 12, comma 3, ultima parte)… »

La sentenza della Corte, che ovviamente ha sorpreso i sostenitori della pari dignità del processo tributario con il processo civile, è di tale chiarezza da non lasciare dubbi sul pensiero di quel giudice, il quale perviene alla sua laconica conclusione dopo aver ascoltato e respinto le argomentazioni dell’Avvocatura generale dello Stato. Ma il punto focale della sentenza è sulla qualificazione del “difensore”, che non è un “rappresentante”, ma un “semplice assistente tecnico”. Stabilire se questa figura coincida con il nuncius di Francesco Carnelutti è compito lasciato allo studioso del diritto processuale comparato e se dalla stessa si possa intuire un indiretto riconoscimento che il giudice tributario è, per simmetria alla figura del difensore, un “giudice tecnico”, per non dire “speciale”, è compito lasciato al costituzionalista. A mio avviso non si tratta di argomentazioni sufficienti per stabilire che le commissioni tributarie sono “giudici speciali”, ma se anche così fosse, sarebbe, semmai, venuto il momento di cambiare la carta costituzionale anche su quel punto. È evidente che gli aggettivi “straordinari” e “speciali” si riferivano, nella mente dei costituzionalisti del 1946, a rischi di natura politica, con i quali la “specialità” del diritto tributario e del correlato “processo” nulla hanno a che fare. Un minimo di senso pratico ci dovrebbe consentire di concludere che con le auliche e tronfie enunciazioni di principio non si costruisce una vera giustizia. Non è l’ermellino che fa il giudice, ma la sua equanimità e la sua preparazione professionale e per quanto riguarda il risultato possiamo benissimo mandare a spasso Minerva tenendoci la bilancia e con essa la bontà delle sentenze, che è ciò che conta. Né sarà la qualificazione di “assistente tecnico” piuttosto che di “rappresentante” del difensore a rendere migliore il processo tributario, che ormai sopporta tali e tante dequalificazioni nei suoi termini da perentori a ordinatori da rendere la conclusione della sentenza costituzionale n. 189 sulla inammissibilità del ricorso solo dopo l’ordinanza o il decreto dell’organo giudicante, come un doveroso ripristino di un equilibrio, peraltro formalmente voluto dallo stesso legislatore, come si legge nella motivazione della sentenza.

Queste considerazioni potrebbero apparire in contraddizione con la premessa, in cui si è affermato che, in tempi andati, il percorso induttivo di qualificare norme e istituti di rango superiore partendo da basso, era un processo logico diffusamente praticato.

L’asistematicità del diritto attuale rende lo strumento induttivo più difficile, ma se anche lo si applicasse al caso di specie e si intendesse concludere che il diritto tributario e il suo processo ne escono sminuiti dalla sentenza n. 189 in commento, non cambierebbe la realtà di un principio che, per garantire la miglior tutela al contribuente, è riuscito a mettere in ginocchio la Corte di cassazione con un arretrato di sette mila processi. Se lo scopo è stato appunto la miglior tutela del contribuente, la sentenza n. 189 è coerente con l’obiettivo che impone anche la salvezza del maggior numero di ricorsi, restringendo gli automatismi della inammissibilità.

La sentenza ha sollevato critiche soprattutto da parte di avvocati, ai quali dà un preciso seppur indiretto messaggio: quando l’avvocato assume la funzione di patrono tributario deve convincersi che la “dignità tecnica” non è inferiore a quella aulica e che è solo coerente con la constatazione che dei tre giudici solo il presidente deve essere togato, gli altri sono tecnici o laici. Semmai il rango aulico sarà ripreso nel terzo grado di giudizio, con buona pace della Corte di cassazione, che lamenta sovraccarichi di lavoro per cause in gran numero prive di ogni fondamento e, quindi nonostante il grado supremo, senza “dignità”.

La verità è meno stupefacente, se si constata che il processo tributario è e deve essere “diverso” da quello del rito civile e l’errore è semmai proprio in quel rinvio formale dell’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 546, che poteva essere evitato, perché anche per constatazione a posteriori si può affermare che il D.Lgs. basta da solo a regolare il processo tributario.

La sentenza n. 189 sembra aprire anche il problema della sua validità generale. Si è sostenuto che si tratta di una “decisione interpretativa di rigetto” e come tale applicabile al “solo giudizio a quo“. A parte la mania classificatoria per cui meriti di esistere solo ciò che è suscettibile di immissione in uno dei tanti cassetti di un casellario, mania che i giuristi italiani farebbero bene a sostituire con un maggior senso pragmatico, resta la considerazione che è difficile, quale sia l’autorevolezza della dottrina che sostiene la tesi, accettare che una sentenza della Corte costituzionale possa valere solo in un caso di specie. Una sentenza di quella Corte è sempre quanto meno interpretativa della costituzionalità di una norma. Se no, bisognerebbe riqualificare la Corte come organo di appello delle sentenze di legittimità della cassazione, ciò che sarebbe insostenibile sotto qualsiasi profilo.

Allora, la conclusione non può che essere nel senso che la sentenza n. 189 ha valenza generale e sancisce l’illegittimità delle pronunzie di inammissibilità prima che siano esauriti i termini fissati dal giudice per l’integrazione dei ricorsi.

 

Pietro Bonazza


[1] La modificazione non è solo questione formale. Si veda, per esempio, la sentenza della Commissione regionale per la Lombardia, 6.11.2001, n. 462/1/2001, in tema di “giudizio di ottemperanza” applicabile a giudicati che abbiano la natura di “sentenza”.

[2] Si veda di F. Antolisei, “Manuale di diritto penale”, Milano, 2000, pag. 18.

[3] Si veda di Valdo Azzoni, “Ricorso sottoscritto dal contribuente e non dal difensore per liti di valore superiore a cinque milioni. È sanabile il vizio“, in “Boll. Trib.”, n. 15-16 del 2000, pag. 1191.