Pietro Bonazza

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LA VALUTAZIONE DELLE AZIONI QUOTATE IN BORSA

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(articolo pubblicato nella “Rivista di diritto fallimentare e delle società commerciali”, anno 1986, n. 6,

che si ripubblica sul “ilDialogo”, perché molti spunti ritenuti ancora validi pur dopo le modificazioni legislative dei DD.Lgs 127/1991 e 6/2003)

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Sommario:

1 – Premessa

2 – La situazione attuale

2,a) – la valutazione secondo l’economia d’azienda e secondo il diritto

2,b) – la dimensione della partecipazione

2,c) – evoluzione della legislazione vigente

2,c i) – situazione ante Legge 72/1983

2,c ii) – situazione post Legge 72/1983

3 – Proposte legislative

 

1 – Premessa

 

Chi scriveva sul tema presente, ad esempio alla fine del 1984, non poteva non subire, anche inavvertitamente, la situazione di sconfortante depressione dei corsi di borsa, riferiti a società sicuramente sane, degne di ben maggiori valori, sia per il momento che per il futuro.

L’economista sa apprezzare, per cultura professionale, elementi costitutivi di una capacità reddituale, anche allo stato potenziale, perché non ancora espressi o temporaneamente disconosciuti dal mercato, ed pertanto in grado di proiettare nel futuro aziendale queste qualità produttive di flussi di nuova ricchezza influenti su valutazioni presenti.

Il problema dello stimatore del 1984 consisteva nel dimostrare che, nonostante tutto, i valori espressi dalla borsa potevano essere superati senza ledere interessi e senza violare principi di prudenza.

Nel periodo esemplificato la borsa italiana non dimostrava certo capacità intuitive. Dopo pochi mesi, con altrettanta mancanza di motivazioni, dato che nulla era sostanzialmente cambiato nella realtà economica, la borsa ha avviato una melodrammatica marcia “trionfale”, che sembra inarrestabile e indifferente a richiami ad una realtà ampiamente ed imprudentemente superata.

L’economista, considerato ieri un visionario ed oggi una cassandra o, al meglio, un prudente fuori tempo, ha il problema opposto di convincere che i valori non possono essere quelli del mercato, almeno per un buon numero di azioni.

In pochi mesi, la tardiva virata diventata temerarietà, dimostrando, semmai ve ne stato bisogno, che nonostante certi correttivi e tutele, apparentemente rivolti al risparmiatore, la borsa non un mercato più evoluto di una sala corse, in cui si scommette anche sulla velocità e sulle accelerazioni del vincente.

L’economista, conosce tale realtà e sa di non contare sulla borsa, purtroppo questa non conta sull’economista ed il fenomeno di incomprensione destinato a perdurare.

Il giurista in ogni epoca, nel momento propositivo delle norme, ha avvertito la situazione di incertezza del mercato, e, ìnon optando per un rinvio della soluzione del problema valutativo alla totale discrezionalità dell’economista o a regole tecniche, ha cercato di contemperare il riferimento alla borsa con collegamento a criteri di prudenza nel 1942, e nella proposta di adattamento dell’attuale disciplina alla Quarta Direttiva CEE, riducendo il valore di mercato a funzione di parametro solo in caso di inferiorità al costo di acquisto.

Sembra, quindi, che i giuristi, mentre da un lato si dichiara no soddisfatti per l’intensa attività normativa che dal 1983 ha inserito nell’ordinamento: nuovi istituti, strumenti finanziari e di controllo, destinati ad imporre al mercato una tutelante “trasparenza” mai prima conosciuta, d’altro lato dimostrano di riservare alla borsa minor fiducia di quella recepita nel vigente art. 2425 dal legislatore del codice civile del 1942.

A parte la dimenticanza di funzioni dell’economista e di gi operanti principi contabili, l’opzione in corso, prima ancora che un’involuzione, pare una contraddizione destinata a negare ogni funzione di valutazione a favore, invece di una regola, poco coerente con il dinamismo della ricchezza sempre più mobiliare.

 

 

 

2 – La situazione attuale

 

 

 

L’analisi del problema della valutazione delle azioni quotate in borsa nel bilancio è della partecipante ha generato opinioni, discussioni, produzioni e sentenze discordi, che ne rendono difficile l’operazione meccanica di smontaggio e rimontaggio, necessaria per la miglior comprensione. A mio avviso, per, il problema stato reso più complesso proprio dalla ridda di opinioni, che hanno ingigantito con troppe incrostazioni il palo sommerso. Per semplificare la materia opportuno individuare tre aspetti:

a ) la valutazione secondo la scienza delle valutazioni di azienda;

b ) la dimensione della partecipazione in relazione ad una strategia di controllo o no; il criterio della prevedibile ìdurata della partecipazione vi assorbito, perché la partecipazione di controllo , di norma, di non breve durata;

c ) il fenomeno prima e dopo la Legge 72/1983.

I primi due o sono falsi problemi o sono riducibili a scarsa importanza. Il terzo invece determinante.

 

 

2,a) – La valutazione secondo l’economia d’azienda e secondo il diritto

 

L’economia d’azienda considera le partecipazioni azionarie come un bene da valutare con processi di stima, fra i quali la quotazione di borsa una componente e non necessariamente la determinante. Per l’aziendalista la valutazione deve essere preceduta da precisazioni sul grado di inserimento del bene nel complesso degli altri beni aziendali e sulla sua funzione nel contesto della gestione. La valutazione avrà riferimento a realtà attuali di mercato se prevista una liquidazione a breve, ma ad una attualizzazione di future capacità di reddito o al peso nelle strategie aziendali se la partecipazione, anziché investimento finanziario, ha una collocazione strategica. L’aziendalista non sceglie tra criteri del “costo” o del “patrimonio netto”. Queste sono regole di tecnica contabile, da “ragioniere”, da scrittore di “principi contabili”, di chi cioè è non sapendo o non potendo affrontare il problema della valutazione dall’ottica dell’economista, sceglie un riferimento al costo storico, cioè è una non valutazione, oppure al patrimonio netto della partecipata, cioè è una valutazione fatta da altri, seppur con il rispetto dei prin ipi contabili, e, comunque, forse non coerente con le strategie della partecipante, alla cui dinamica dei valori e delle politi che gestionali e non a quella della partecipata invece correlata.

La valutazione secondo il diritto invece cosa diversa. Il diritto o non ritiene di risolvere un problema ed allora costretto ad ignorarlo a favore della libertà degli operatori, oppure ne propone una soluzione, ma deve operare scelte concrete, rigide e limitative, non sempre coincidenti con il criterio dell’economista, che deve invece affrontare di volta in volta la dinamica e mutevolissima realtà economica. Il nostro codice all’art. 2425 n. 4 ha previsto che: “… il valore delle azioni e dei titoli a reddito fisso deve essere determinato dagli amministratori, secondo il loro prudente apprezzamento, tenendo presente, per i titoli quotati in borsa, l’andamento delle quotazioni …”.

Dottrina, giurisprudenza e commentatori di vario genere si sono accaniti a sezionare l’art. 2425 n. 4 in due parti contrapposte: l’una riguardante le azioni non quotate, da valutare secondo prudente apprezzamento, l’altra per quelle quotate, da stimare secondo l’andamento delle quotazioni. Ma la norma non consente tali distinzioni. Infatti quel gerundio “tenendo” indica una modalità aggiuntiva, un riferimento in più, per i titoli quotati rispetto a quelli non quotati, ma per tutti deve valere il criterio del “prudente apprezzamento”. Un legislatore meno forbito, intenzionato a fare comunque riferimento a tutti quei criteri, avrebbe potuto dettare la stessa norma scrivendo banalmente: “…tutte le azioni debbono essere valutate secondo il prudente apprezzamento degli amministratori; per quelle quotate in borsa si tenga anche presente l’andamento delle quotazioni”. A ben osservare un legislatore non banale avrebbe dovuto rinunciare a dettare una qualsiasi norma specifica, accontentandosi della “clausola generale”, perché:

– quando si pretende di far riferimento al prudente apprezzamento pleonastico suggerire richiami alle quotazioni di borsa. Infatti: o la quotazione di borsa supera il valore determina bile con prudenza ed allora il riferimento a tale mercato automaticamente escluso, oppure inferiore, ma allora se gli amministratori hanno usato prudenza, nel loro apprezzamento gi stata considerata anche la quotazione di borsa.

In conclusione, quando si detta il principio del prudente apprezzamento, diventano contraddittori ulteriori riferimenti, a meno di indicare tutti i possibili criteri, che compongono la prudenza. In tal caso non vi sarebbe più bisogno di invocare la categoria del “prudente apprezzamento”. O si sceglie l’analisi (tutte le componenti della prudenza) o la sintesi (il solo criterio generale del “prudente apprezzamento”);

– posto che il nostro legislatore ha scelto il criterio del “prudente apprezzamento” si deve osservare che l’art. 2423 c.c. prescrive che dal bilancio debba risultare la situazione patrimoniale della società con chiarezza e “precisione”.

Ma allora come si concilia la “precisione” (norma generale di tutta la situazione patrimoniale) con il “prudente apprezzamento”? Se la sequenza delle norme ha un senso e le regole di consecuzione della logica hanno una traduzione operativa nel diritto, si deve poter affermare che fra la “precisione” dell’art. 2423 c.c. ed il “prudente apprezzamento” dell’art. 2425 n. 4 c.c. esiste semmai un rapporto da genere a specie. Come dire, sempre in termini di massima semplificazione: gli amministratori devono appostare nel bilancio le azioni quotate in borsa con valori precisi, ma, tenuto conto che la precisione, quanto alle azioni quotate, può dar luogo a talune scelte, gli amministratori si orientino secondo il loro “prudente apprezzamento”, assunto con riferimenti anche alle quotazioni di borsa. Ci significa per riconoscere che nella fattispecie o non esiste la precisione, oppure non esiste il prudente apprezzamento, perché in una realtà contabile ad espressioni quantitative per definizione o la precisione ha un significato meramente formale (cioè: dopo che gli amministratori hanno assunto una valutazione prudente ed hanno saputo determinare un valore quantitativo, nel bilancio deve essere espresso quel preciso valore) ed allora “precisione” termine pleonastico, oppure la precisione ha un riferimento oggettivo (esempio: la quotazione di borsa del 31.12) ed allora diventa inutile il “prudente apprezzamento”. Si potrebbe persino concludere che la “precisione” non ha nemmeno le qualità per essere norma generale, posto che non riesce a racchiudere tutti i casi, per la contraddizione con singole circostanze, nemmeno dichiarate eccezionali, nelle quali deve essere fatto riferimento, invece, ad un inconciliabile criterio del prudente apprezzamento. Ci troveremmo cioè di fronte ad un genere che non comprende tutte le specie.

Pertanto il diritto attuale non ha risolto alcun problema, ma ha solo creato confusioni, rischio che in molti ordinamenti giuridici stranieri stato evitato riservando la determinazione di principi contabili e criteri di valutazione a regolamenti interprofessionali o a prescrizioni di dottrina, cui la norma statuale fa generico rinvio, diversamente dal nostro codice, che, ad esempio con l’art. 2425 c.c., si pone in una equivoca via di mezzo. La constatazione di una mancata soluzione del problema da parte del diritto dovrebbe comportare, allora, un implicito rinvio alla scienza delle valutazioni di azienda, che gi adotta la “prudenza” come componente naturale, se non deotologica del proprio obiettivo.

 

 

2,b) – La dimensione della partecipazione.

 

La dimensione della partecipazione non ha, a mio avviso, alcuna evidenza autonoma, perché assorbita come uno del molti elementi che l’aziendalista tiene in considerazione per formulare le proprie stime. Se poi si vuol riguardare il problema dal punto di vista giuridico si deve ancora considerare che il fatto della dimensione assorbito nel concetto di “prudente apprezzamento”.

 

 

2,c) – Evoluzione della legislazione vigente

 

I due punti precedentemente esposti hanno funzione definitoria, perché sono assorbiti nell’analisi dello stato della legislazione. Fra le due epoche, ante e post Legge 72/1983, non vi contrapposizione, ma evoluzione, nel senso che, a mio avviso, le soluzioni che possono essere ritenute valide prima possono esserlo, a fortiori, dopo, con assorbimento di eventuali dubbi.

2,c i) – situazione ante Legge 72/1983

Prima della Legge 72/1983 aziendalisti e giuristi avevano come unico riferimento legislativo l’art. 2425 c.c., la cui fragilità, descritta al precedente paragrafo 2,a), ha alimentato tesi anche contrapposte. L’aziendalista, se pone come unico vincolo la propria scienza, rifiuta le elaborazioni del giurista dal punto di vista concettuale, ma le deve accettare sul piano pratico, perché le impugnative del bilancio avverrebbero con riferimento alla norma di legge.

Il giurista per motivi diversi pure legato alla norma e quando ne avverte l’illogicità cerca le soluzioni ipotizzandole come interpretazioni più o meno evolutive della norma stessa, che, come si dimostrato al paragrafo 2,a), non invece applicabile sul piano della logica. In questo filone interpretativo si posta quella parte della dottrina e della giurisprudenza citata in “Il bilancio di esercizio della società per azioni” pagg. 78 e segg. di P.G. Jaeger (1) di cui, per comodità, si riportano alcuni passi:

“… Apparentemente, il secondo termine che compare nella norma (quello dell’ “andamento delle quotazioni”) introduce un criterio di maggior precisione …” (noto che per Jaeger quello dell’ “andamento delle quotazioni” un criterio, mentre si dimostrato al paragrafo 2,a) che solo un modus). … Ma la prima impressione in questo senso risulta rapidamente corretta, non appena si consideri, da un lato, quanto sia vago anche tale criterio, posto che non viene indicato un “prezzo”, risultante dalla quotazione a una data certa, n ci si riferisce alla media delle quotazioni rapportata a un determinato periodo, sistema non certo ignoto alla legge e per il quale si possono ricordare diversi precedenti: dall’altro la genericità dell’espressione “tenendo presente”. Un certo chiarimento di queste nozioni, improntato per lo più a soluzioni di solido buon senso, venuto dall’opera della giurisprudenza. Dalle scelte effettuate in un numero sufficientemente rappresentativo di casi, invero, si ricavano alcuni risultati interpretativi difficilmente contestabili. Ad esempio, non sembra dubbio che l’iscrizione in bilancio di titoli quotati in borsa al valore che risulta dalla quotazione dell’ultimo giorno dell’esercizio, illecita, perché “elude completamente la ragione pratica che ha ispirato la norma, vale a dire l’intento di evitare che la valutazione di detti beni e quindi i risultati in borsa possano essere influenzati da operazioni borsistiche all’uopo compiute” (riportata da: Trib. Milano 31.5.1976). Ma anche il riferimento a una media delle quotazioni non affatto obbligatoria, come si evince dalla serie di casi in cui stata ritenuta lecita una valutazione che si distaccava, in misura più o meno rilevante, da tale dato (Trib. Milano 22.9.1978, Trib. Milano 10.2.1977).

Anzi, non infrequentemente, appaiono nelle sentenze espressioni critiche in merito all’adeguatezza del criterio, soprattutto in considerazione delle note manchevolezze della borsa italiana, che fanno sì che raramente si determini una corrispondenza delle quotazioni alla situazione reale della socie t, a causa della ristrettezza del mercato, della scarsità del ‘flottante’, della diffusione e dell’influenza della speculazione, ecc…”.

Prosegue Jaeger a titolo di considerazioni finali:

“… La lettura di queste sentenze lascia in particolare l’impressione che il criterio dell’ ‘andamento delle quotazioni’ conservi qualche valore solo sotto un duplice profilo: da un lato di richiedere che il distacco da tale criterio sia sufficientemente motivato nelle relazioni degli amministratori e sindaci (allo scopo di controllare quale uso essi abbiano fatto del loro ‘prudente apprezzamento’); dall’altro, di considerare rilevante, in senso negativo, l’entità in termini quantitativi dell’abbandono del riferimento alle quotazioni di borsa, cosicché quanto più questa macroscopica, tanto più richiesta, ma al tempo stesso obiettivamente difficile, una giustificazione adeguata della scelta di diversi criteri…”.

Mi pare evidente che dottrina e giurisprudenza (almeno quelle citate da Jaeger) abbiano ammesso la possibilità di un distacco dall’ “andamento delle quotazioni”, purché se ne diano motivate ragioni nelle relazioni. Ovvio che più ampio il distacco più arduo sarà per amministratori e sindaci trovare delle giustificazioni, ma anche in tal senso tutto relativo. Quando si pensa che il “ristretto”, salvo recenti parziali riprese, quota azioni di aziende di credito ad un prezzo che nemmeno copre l’avviamento calcolato sui depositi, ignorando tutti gli altri valori, si ha gi una giustificazione difficilmente contestabile per una valutazione diversa dall’andamento delle quotazioni anche in misura considerevole. Di contro si osservano quotazioni di borsa di società finanziarie che valutano liquidità come investi menti strategici gi effettuati solo perché si ritiene che gli amministratori sono potenzialmente in grado di realizzarli.

E’ comunque importante aver rilevato che anche anteriormente alla Legge 72/1983 stata ritenuta possibile una valutazione dissociata dall’art. 2425 c.c., o meglio da ci che si ritiene che la norma dica e che, a mio avviso, invece, non dice.

2,c ii) – situazione post Legge 72/1983

Le soluzioni di corretta valutazione in senso economico proposte con il dubbio di un contrasto alla lettera dell’art. 2425 c.c. prima del marzo 1983, sembrano ora trovare una convalida nell’art. 9 della Legge 72, che recita: “L’art.2425, terzo comma, del codice civile da intendersi nel senso che può derogarsi ai criteri di valutazione dettati dalla legge, quando l’applicazione di tali criteri contrasta con l’esigenza che il bilancio e la relazione diano un quadro fedele della situazione patrimoniale, di quella finanziaria nonché del risultato economico della società. – Gli amministratori e il collegio sindacale devono indicare e giustificare le singole deroghe nelle loro relazioni all’assemblea.”

Sembra evidente che la nuova legge abbia riportato la preminenza dell’economista sul giurista a quel tipo di logica enunciata nel paragrafo 2,a). E’ ovvio che una quotazione di borsa che ignora la dimensione, non dico del capitale economico, ma persino del capitale netto contabile della societ quotata, oppure, come nei tempi attuali, sopravvaluta il patrimonio aziendale ben oltre il valore attribuibile in relazione alla situazione prevedibile in futuro, non può fornire parametri di valutazione per un “quadro fedele”, ed allora non sono più necessarie “le speciali ragioni” dell’art. 2425, III co:, c.c., perché l’obiettivo del “quadro fedele” la speciale ragione legislativamente affermata. Gi stato scritto che l’art. 9 citato può essere persino un implicito riconoscimento della legittimità di una contabilità dell’inflazione. Senza arrivare a tanto, basta ricordare che il “quadro fedele” il punto di riferimento della IV Direttiva CEE.

L’art. 9, più che una deroga all’art. 2425 c.c. un chiari mento necessario ad una norma diversamente diventata inutilizza bile ed ha avuto un intento di anticipazione di un nuovo ordina mento di tutta la disciplina dei bilanci, in assorbimento del sistema attuale che, con il non coordinato D.P.R. 136/1975, prevede, per le società quotate in borsa, la certificazione obbligatoria del bilancio, che verrà estesa con l’entrata in vigore della VII e dell’ VIII Direttiva.

Tutte le Direttive sono coordinate dal denominatore comune del ”true and fair view”, tradotto nella nostra lingua con il termine di “quadro fedele”, in un significato giuridicamente vicino al vigente concetto di “precisione e verità del bilancio”, ma in una più ampia portata di significato economico, che consente miglior corrispondenza (fedeltà) dei valori con la realtà attuale e non storica, concetto che informa invece tutto l’attuale sistema di norme del nostro codice. Si spiega allora la preferenza del metodo del patrimonio netto (equity method), nel consolidamento dei bilanci(2) e la possibilità di contabilità dell’inflazione prevista dalla IV Direttiva. L’art. 9 della citata Legge 72/1983 in linea con questa normativa comunitaria non ancora recepita nel nostro ordinamento.

Resta per il fatto che l’art. 9 norma gi vigente, che, costituendo deroga permanente all’art. 2425 c.c. consente adeguamenti di valori, per alcuni autori e per parte della giurisprudenza, gi possibili anche in precedenza.

 

3 – Proposte legislative

 

Con l’ormai tradizionale ritardo, che almeno questa volta non nuoce, l’Italia dovrà recepire nell’ordinamento i principi della Quarta Direttiva CEE.

Si provvederà, come al solito, con legge delega del potere legislativo e con decreto presidenziale dell’esecutivo, che modifica una serie di articoli del codice civile.

Il Ministero di Grazia e Giustizia aveva insediato gi nel 1984 una Commissione di studio che ha terminato i propri lavori nell’aprile 1986, con una serie di proposte di modifica accompagnate da una relazione illustrativa.

E’ evidente, data la nomina governativa ed i componenti, che le proposte della Commissione costituiscono una versione quasi definitiva della futura normativa, anche se può suscitare perplessità che si dia pubblicità ad una proposta di legge delegata, prima ancora della esistenza di una legge delega, a meno che non si consideri la funzione del legislatore delegante come mera delibazione di principi della Direttiva.

L’ipotesi non certa, date le compromissioni e quindi le opzioni lasciate dalla Direttiva. Bisogna per riconoscere che,in concreto, il lavoro della Commissione costituisce una base di discussione preventiva.

A tal fine opportuno richiamare un articolo di P.G. Jaeger, componente della Commissione, scritto probabilmente prima dell’insediamento, dal titolo “La clausola generale del bilancio nella direttiva comunitaria e nel diritto italiano” (3). L’autore, con dovizia di richiami di dottrina, svolge, fra l’altro, due indagini: una di natura semantica sui termini “true and fair” nella lingua inglese e sugli equivalenti, o tali ritenuti, nelle altre lingue comunitarie e l’altra sulla natura della “clausola generale” e relativa esistenza nei vari ordinamenti.

L’autore rileva che (4):

“… nessuno disposto a sopravvalutare il significato letterale delle parole ‘true’ e ‘fair’, parole … fra le più ricche di sinonimi della lingua inglese …” e ricorda che nel sistema della ‘common law’ il contesto, ancorché indeterminato, di quelle qualità riferite alle rappresentazioni di bilancio, può essere utilizzato come una “clausola generale”, da cui la non denegata discrezionalità degli amministratori deve trarre il punto di riferimento per il proprio operare, che in caso di necessità il giudice saprà vagliare alla luce della propria ‘mondanità’.”

Come a dire che, disponendo del punto di riferimento della “clausola generale”, le norme relative a singoli problemi tecnici o diventano superflue o, in caso di contraddizione, devono essere disapplicate per rispetto della “clausola generale”.

Peraltro l’autore osserva che la locuzione “quadro fedele” non l’ottima traduzione dell’inglese “true and fair”. Ritiene invece, migliore: “rappresentazione veritiera e corretta”.

Sul secondo punto Jaeger, innanzi tutto condivide l’opinione dominante degli interpreti stranieri che la regola del cosiddetto “quadro fedele”, di cui all’art. 2 della Direttiva, non può non avere natura di “clausola generale” , poi, criticando pur autorevole dottrina, accoglie la tesi che anche nel nostro ordinamento i combinati principi di “chiarezza” e “precisione”, peraltro gi equivalenti ad un significato di “quadro fedele”, costituiscono una “clausola generale”.

Con queste premesse ora possibile analizzare le proposte della Commissione per il problema delle valutazioni delle azioni, soprattutto nelle sue correlazioni con eventuali “clausole generali” (5).

Si rileva, innanzi tutto, che nella proposta legislativa non entra la locuzione “quadro fedele”, di cui, invece, gi aveva fatto uso il legislatore della 72/1983, ma il principio del l’art.2 della Direttiva stato reso al secondo comma dell’art.1, modificativo dell’art. 2423 del codice civile, con la norma: “Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio”.

Nella relazione si precisa : “La regola del ‘quadro fedele’ stata resa … con la formula ‘rappresentare in modo veritiero e corretto’, che costituisce l’esatta traduzione dell’espressione ‘true and fair view’ dalla quale trae origine la norma della Direttiva”.

La ricerca semantica di Jaeger pare aver influenzato la Commissione, che, perciò, ha ritenuto di individuare negli aggettivi “veritiero” e “corretto” una “esatta traduzione” dell’espressione “true and fair view”. Se sono fondati i rilievi del citato autore, la locuzione, proprio per la pluralità dei suoi significati nella lingua inglese, difficilmente può avere una traduzione “esatta”, comunque non più esatta delle analoghe espressioni gi presenti nell’attuale codice, su cui dottrina e giurisprudenza hanno sprecato un cinquantennio di finezze etimologiche. Nuovo può apparire il termine “corretto”, che a mio avviso può essere fonte di equivoci o, quanto meno, pleonastico se unito al “veritiero”, essendo semmai la correttezza una qualità assorbita nella “verità”, soprattutto quando si verte in tema di valori economici. Se per vero intendiamo la rappresentazione di ciò che è o che dovrebbe essere, non c’è più posto per la correttezza. Ciò che è, semplicemente !

Infatti se vogliamo rappresentare il vero non potremmo pensare ad un vero “scorretto”. Scorretto in relazione a che cosa? Non certo alla verità! Non a caso il legislatore del 1942 aveva trascurato la categoria della “correttezza”.

Quanto all’aggettivo “veritiero” si legge nella relazione che esso “… non significa pretendere dai redattori del bilancio – n promettere ai lettori di esso – una verità oggettiva di bilancio, irraggiungibile con riguardo ai valori stimati, ma richiedere che i redattori del bilancio operino correttamente le stime e ne rappresentino il risultato”.

Pare, quindi non certo, che la Commissione si sia accorta che correttezza e verità debbano costituire un unico concetto, ma poi si sia lasciata prendere la mano dalla ridondanza di aggettivazioni della nostra lingua. Probabilmente per pressioni di aziendalisti, peraltro rari in tale collegio di preminenti giuristi, la Commissione ha voluto dar atto della irrealizzabilità di “una verità oggettiva di bilancio”, ma con il risultato, insito in quella qualificazione della verità, che si confonda il bilancio con un dramma pirandelliano.

Se la relazione della Commissione diventerà una fonte interpretativa i compilatori dei bilanci avranno trovato una difesa, valida in funzione della “mondanità” dei giudici italiani, qualità sulla cui esistenza Jaeger pare piuttosto scettico.

Resta poi da verificare il collegamento logico tra quel non poter rendere una verità oggettiva e l’operare “correttamente” le stime.

Qui il pleonasma del “corretto” rispetto al “vero” diventa contraddizione con la qualificazione “oggettiva” attribuita alla verità.

Dovrebbe essere finalmente pacifico che la correttezza si ha quando i compilatori del bilancio hanno fatto riferimento a principi contabili di comune accettazione. Ci detto, non esiste più una verità “oggettiva” e “soggettiva”, ma una verità. Poiché la verità assoluta non di questo mondo, essa sempre relativa, anche nelle cosiddette scienze fisiche; così si accetta per vero ci che tale in riferimento ad uno standard comunemente condiviso.

Ma ritornando alla proposta legislativa si deve rilevare che la “rappresentazione veritiera e corretta” una “clausola generale”, con quel che ne consegue. A parte la coerenza con la Direttiva, si prima ricordato che la “clausola generale” gi una caratteristica del nostro codice in tema di bilanci, almeno secondo prevalente dottrina e giurisprudenza.

Infatti il quarto comma dell’art. 2423 verrebbe così sostituito: “Se in casi eccezionali l’osservanza di una norma degli articoli seguenti incompatibile con la rappresentazione veritiera e corretta di cui al secondo comma, si deve derogare ìalla norma medesima”.

Sarebbe così superfluo discutere della natura di “clausola generale”, ma si ha l’impressione che la Commissione, pur rinunciando all’opzione di individuare i casi eccezionali, non ha cercato di risolvere le ambiguità del testo della Direttiva, che non certo un capolavoro di legislazione.

La proposta del quarto comma, se da un lato conferma la natura di “clausola generale”, nello stesso momento ne vanifica la funzione. Infatti dettato il principio che, se vi contrasto tra una norma degli “articoli seguenti”, quindi particolare, con la “rappresentazione veritiera e corretta” la norma particolare che prevale (ma non certo) a meno che non si tratti di casi eccezionali (non legislativamente previsti), nel qual caso derogare si deve.

Non mancherà chi riterrà di sostenere che quando il caso “non eccezionale” derogare non “si deve”, ma “si può”.

Vi sar anche chi sosterrà la natura di eccezionalità dei casi secondo le necessità dato che la Commissione non ha “ritenuto possibile precisare (come la direttiva consente) i casi eccezionali”. Pare lecito dubitare che, o la norma comunitaria ha previsto l’impossibile, o la Commissione ha scambiato l’aggettivo opportuno con possibile.

A risolvere le questioni provvederà ancora la “mondanità” del giudice italiano, probabilmente non pari a quella del giudice inglese, il quale, tra l’altro, opera in un sistema con minori vincoli legislativi.

In questo punto la Commissione si concessa un attimo di humor affermando che “dovrà comunque trattarsi di casi veramente eccezionali, essendo evidente che le specifiche norme relative alle strutture ed alle valutazioni sono dettate proprio al fine di assicurare la rappresentazione veritiera e corretta”.

Per la Commissione il lavoro interpretativo del nuovo sistema si esaurirebbe nella qualificazione della eccezionalità (ma deve esserlo “veramente”!), poiché al di fuori di quei casi dovrebbe prevalere ancora ed in sostanza, la norma particolare, ma non, si noti, perché così deve essere per una scelta del legislatore, ma perché lo stesso “garantisce” che le norme particolari, essendo destinate a realizzare i canoni della “verità” e della “correttezza” raggiungono veramente l’obiettivo, cioè sono in sintonia con la norma generale per assioma di legislatore! Non credo vi saranno giudici disposti a subordinarsi alla tautologia.

Ma le difficolt interpretative ed applicative saranno aggravate dall’inserimento dell’ “istituto” della “prudenza”, che dovr fare i conti della sua coesistenza con il principio della “correttezza”.

Infatti la Commissione propone un nuovo articolo 2423-bis, in cui si stabilisce che nella redazione del bilancio “… la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell’attività”.

La continuazione dell’attività corrisponde al principio inglese del “concern going”, ed affermazione pleonastica dato l’art. 2082 del codice civile.

Perla “prudenza” si richiamano le critiche rivolte nel precedente capitolo 2. Qui si osserva che essa diventa ora una “clausola generale”, che qualcuno, nel tentativo di risolvere il contrasto con ricorso alla gerarchia, potrebbe definire: di secondo grado. Certo non sarà facile fare un bilancio contemporaneamente “veritiero, corretto e prudente”. Qualche aggettivo finirà per essere sacrificato e sarà un successo della “verità”.

Dopo queste premesse, necessarie per interpretare le nuove norme “particolari” in tema di valutazioni di azioni, resterebbe forse da concludere che tanto varrebbe lasciare le cose allo stato attuale, sostenendo, e non sarebbe peregrino, che le norme del nostro codice gi comprendono la Quarta Direttiva.

Il nuovo sistema riferito alle valutazioni delle azioni si legge nelle proposte contenute nel secondo comma del l’art. 2424-bis e nei numeri 1), 4) e 9) dell’art. 2426.

La prima norma prevede che “le partecipazioni in altre imprese in misura non inferiore a quelle previste dal secondo comma dell’art. 2359 si presumono immobilizzazioni”. Ci risolverebbe legislativamente il dubbio, gi posto dagli aziendalisti, sul parametro per la determinazione della dimensione della partecipazione, influente sulla valutazione, attraendo nella definizione di immobilizzazione anche la partecipazione in imprese collegate. Infatti nella proposta di art. 2426 si legge:

al n.1) che: “le immobilizzazioni sono iscritte al costo di acquisto o di produzione”,

al n. 4) che: “le immobilizzazioni consistenti in partecipazioni in imprese controllate, o talune di esse, possono ìessere valutate, anziché secondo il criterio del n. 1 per un importo pari alla corrispondente frazione del patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio … Le stesse regole possono essere applicate alle partecipazioni costituenti immobilizzazioni in imprese soggette ad influenza notevole a condizione che queste siano iscritte separatamente nello stato patrimoniale; si presume l’influenza notevole quando possa essere esercitato almeno un quinto dei voti nell’assemblea ordinaria…”,

al n.9) che: “le rimanenze, i titoli e le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni, sono iscritti al costo di acquisto o di produzione calcolato secondo il n. 1), ovvero al valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, se minore; tale minor valore non può essere mantenuto nei successivi bilanci se ne sono venuti meno i motivi.”.

Si nota innanzi tutto che il n. 4) consente, come eccezione alla norma generale contenuta nel n. 1), una valutazione al patrimonio netto (equity method), anziché al costo, ma limitatamente alle partecipazioni in imprese “controllate” o in quelle costituenti “influenza notevole”. Quest’ultima categoria sarebbe una novità per il nostro ordinamento e costituirebbe una via di mezzo fra le società controllate e le collegate, con una integrazione implicita dell’art. 2359 c.c.. La sua definizione pare lasciata alla “mondanità” del giudice italico, al quale per offerta una presunzione, chiaramente ‘juris tantum’ di “influenza notevole” quando la partecipazione consenta di esercitare “almeno un quinto dei voti nell’assemblea ordinaria”. Se la presunzione relativa non , come ritengo, un modo eccellente di legiferare, ma semmai di interpretare, la nuova proposta segnerebbe un regresso rispetto al modo dell’attuale e futuro art. 2359, che con la locuzione “sono considerate” ha almeno optato per una presunzione assoluta. Ne sono rimaste escluse le partecipazioni non costituenti influenza notevole in “collegate”, cioè la grande maggioranza, che pur essendo immobilizzazioni, non hanno assunto per la Commissione, a meno di una dimenticanza, una importanza sufficiente a giustificare l’applicazione del criterio speciale. Non si comprende allora il motivo per cui tali neglette partecipazioni siano state definite immobilizzazioni. Infatti risultano equiparate ai titoli e alle attività finanziarie, cioè alle partecipazioni in misura inferiore a quella prevista dal secondo comma dell’art. 2359, con la sola differenza che le partecipazioni in società collegate non subirebbero il deprezza mento rispetto al costo originario nel caso in cui l’andamento della borsa dovesse quotare l’azione ad un valore inferiore al costo. Ci naturalmente contrasterebbe con le regole generali di una rappresentazione “veritiera, corretta e prudente”, ma senza possibilità di ripristino della coerenza, trattandosi di un caso che non potrebbe qualificarsi “veramente eccezionale”.

Per quanto riguarda le partecipazioni non rientranti nella categoria delle controllate e collegate varrebbe il principio innovativo che la borsa costituisce parametro soltanto nella sua fase discendente, ci che vanifica il concetto della prudenza, se più non deve servire a risolvere i casi in cui il mercato può avere un qualche riferimento, a prescindere da momenti contingenti. Resta anche la constatazione applicabile a tutte le partecipazioni non di controllo che le nuove norme imporrebbero la sclerotizzazione in bilancio del valore di costo, finché non intervenga una legge di rivalutazione monetaria. In attesa di tali erratiche e sempre tardive norme rivalutative, i bilanci, soprattutto delle società finanziarie in funzione non di holding, che pare stiano costituendo una nuova realtà del mercato finanziario italiano, dovranno essere ritenuti corretti per rispetto della norma, ma non certo veri in relazione a nuovi sopravvenuti e duraturi elementi, di cui l’economista, se non il mercato, in grado di apprendere, filtrando i propri professionali convincimenti nel concetto della prudenza, per la buona pace del giurista.

Anche su questi aspetti particolari non pare che le proposte avanzate dalla Commissione costituiscano un miglioramento, almeno sul piano della coerenza, neppure verso la Direttiva comunitaria. L’aziendalista che dovesse operare con le norme proposte non potrebbe non auspicare una diversa formulazione, preferibilmente affidata al rischio di una cultura individuale, piuttosto che alle incoerenze di un’opera collettanea.

N O T E

 

(1) “Il bilancio d’esercizio delle società per azioni” di P. G. Jaeger “Quaderni di giurisprudenza commerciale n. 27” – Giuffrè 1980.

(2) Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e Consiglio Nazionale dei Ragionieri Principi contabili n. 8 “Titoli, partecipazioni e bilancio consolidato” – Giuffrè 1983

(3) in “Giurisprudenza commerciale” 1984, parte I, pag. 471

(4) op. cit. nota (3)

(5) “Schema di legge delegata per l’attuazione della IV Direttiva CEE (n. 78/660 del 25 luglio 1978) sulle società per azioni” in Giurisprudenza commerciale 1986, parte I, pagg. 497 e segg.

 

 

Pietro Bonazza