Certificati di quota nelle s.r.l.

 
L’art. 2472, comma 2, del codice civile ante riforma 2003 recitava: «Le quote di partecipazione dei soci non possono essere rappresentate da azioni». La riforma ha traslato la norma nell’art. 2468, comma 1, con lievi modifiche solo lessicali, testualmente: «Le partecipazioni dei soci non possono essere rappresentate da azioni, né costituire oggetto di sollecitazione all’investimento». Se si considera il “divieto di sollecitazione” una norma pleonastica in presenza di un espresso divieto a emettere certificati azionari, resta la constatazione che l’art. 2468, comma 1, è una riscrittura del vecchio art. 2472, comma 2.
Consideriamo innanzi tutto l’aggiunta: “né costituire oggetto di sollecitazione”, giudicata pleonastica. Nella prima parte, la norma afferma che “le partecipazioni” non possono essere rappresentate da azioni, quindi sono le partecipazioni che non possono essere oggetto di sollecitazione, le azioni non c’entrano e il pleonasmo è subito evidente. Infatti, la norma non vieta che le partecipazioni possano essere oggetto di sollecitazione in assenza di certificati azionari. La sollecitazione può avvenire anche in via telefonica o altro mezzo. È ovvio che se la base societaria della s.r.l., che non può essere una compagine sclerotizzata, possa essere allargata con strumenti di comunicazione con fine di sollecitazione e, allora, a me pare che l’aggiunta del 2003 poteva essere omessa. La partecipazione sembra assumere una materialità vietata solo nella forma del certificato azionario, il che consente, per implicito, che sono ammesse altre forme, tra cui certificazioni anche materiali. Per inciso si ricorda anche che l’art.2328, n. 5, cod. civ. consente alla società per azioni la non emissione dei certificati azionari, ciò che poteva accadere anche prima del 2003 e richiama la possibilità della dematerializzazione dei titoli azionari.
Da qui tre constatazioni introduttive:

  1. come già osservato, il divieto di far rappresentare le quote da azioni non impedisce l’emissione di documenti dichiarativi delle quote, che possono assumere forma libera, come, per esempio, estratti dal libro dei soci o “certificati attestativi di quota”, brevemente “certificati di quote”;
  2. la dottrina e la giurisprudenza sul punto, pregresse alla trasposizione normativa, possono essere ritenute ancora valide;
  3. l’impossibilità di utilizzare strumenti di sollecitazione all’investimento implica l’implicito riconoscimento che il “certificato di quota” è legittimo, solo che non può essere utilizzato per tutti i fini riservati alle azioni.

Fatta questa constatazione, l’attenzione si sposta su:

  • forma del certificato e conseguente sua autonomia rispetto al libro dei soci;
  • natura del rapporto tra quota e società a responsabilità limitata, in relazione ai casi di cessione, di sequestro, pegno ecc.

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  • Come già detto, il certificato di quota, diversamente dalle indicazioni dell’art. 2346, cod. civ. per le azioni, può avere forma libera, che è comunque una attestazione di quota sociale, non frazionabile, perché la quota è sempre “una”, come una è la indicazione nel libro dei soci. Qui emerge la questione sulla natura giuridica del rapporto tra socio e società, cioè dalla forma si deve passare alla sostanza;
  • esprime formalmente il rapporto di partecipazione del singolo socio al capitale della società, ma si tratta di una rappresentazione formale. Infatti, l’art. 2471-bis, civ. afferma che: «La partecipazione può formare oggetto di pegno, usufrutto e sequestro» con rinvio formale all’art. 2352 cod. civ., però, con la differenza che pegno, usufrutto e sequestro nelle s.p.a. si riferiscono espressamente all’azione, mentre per le s.r.l. riguardano la “partecipazione” e non a una sua espressione cartolare. Si ricorda in proposito che il Tribunale di Milano con sentenza 23 giugno 1988, ha escluso per le impugnazioni delle delibere della s.r.l. l’obbligo di deposito di un certificato, che, di conseguenza non avrebbe le caratteristiche della materialità. Però l’impugnante deve comunque provare la sua natura di socio e questa prova potrebbe consistere nella esibizione di un estratto del libro dei soci, che, se negato dalla società dato il rapporto di contrasto in atto, potrebbe essere un “certificato di quota”, di cui l’impugnante si era premunito. Emerge il problema sostanziale della natura giuridica del rapporto che potrebbe essere di credito o, più complessa, di bene mobile immateriale. La dottrina è divergente sul tema, ma le prescrizioni dello statuto potrebbero avere forza vincolante all’interno della società e all’esterno, ma con esclusione dell’applicazione dell’art. 1350 cod. civ. Si veda in proposito la monografia di Gian Carlo M. Rivolta “La società a responsabilità limitata”, pagg. 216-217, ancora valida per la focalizzazione del problema. Anche dopo la riforma è determinante la natura del “libro dei soci” ed è a questo punto che si comprende la formulazione dell’art. 2471-bis riferito alla “partecipazione” e non a una sua apparenza formale. Se ciò significa che la partecipazione sia da intendere nella sua sostanzialità, allora, il libro dei soci è la forma su cui si possono scaricare: cessione, sequestro, usufrutto e pegno, fatte salve le prescrizioni dello statuto. Ci si deve allora chiedere se in caso di trasferimento avvenuto liberamente il cessionario abbia diritto di pretendere la trascrizione del contratto nel libro dei soci e nel Registro delle imprese, statuto permettendo, con la semplice esibizione del “certificato di quota” riportante la cessione, ma senza dimenticare la non applicabilità dell’art. 1350 cod. civ. Così valga per pegno, usufrutto e sequestro.

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Conclusivamente:
A meno di espresso divieto statutario, è consigliabile, almeno per prudenza nell’incertezza della evoluzione dei rapporti futuri, che il socio, sin dall’origine del rapporto, si munisca di un “certificato di quota”, anche se la forma giuridica prevalente è la risultanza del “libro soci” e del Registro delle imprese.
Pietro Bonazza