Il recente titolo di un fondo in un quotidiano economico “L’economia rema contro chi ha governato l’Italia” sintetizzerebbe così il rapporto economia-politica, alla luce dei dati che, in un contesto di ripresa-crescita generalizzata e sostenuta, vede l’Italia nel ruolo di fanalino di coda. Nella redazione di un giornale, quello del titolista è un lavoro improbo. In poche parole bisogna riassumere il concetto di fondo, attirare l’attenzione del lettore e possibilmente, nel caso che abbia poco tempo come succede sempre più spesso, informarlo oltre che provocarlo. In quel caso il contenuto non lo consentiva, se no il titolista avrebbe scritto: “Chi ha governato l’Italia ha remato contro l’economia”. Chi si occupa di economia dinamica – che è poi l’unica che conta veramente – finisce per interessarsi di “economia della crescita” e sa che più nessun economista nega l’importanza degli aspetti istituzionali nel determinare i percorsi dello sviluppo. Ma istituzioni vuol dire politica e politica vuol dire gestione del potere da parte della maggioranza e maggioranza vuol dire i voti della maggioranza degli elettori. Così tutto ritorna all’avente diritto al voto, all’elettore. Come a dire che l’elettore ha remato contro se stesso. È una scelta e chi ha tale potere “deve” essere rispettato. Questo spiega anche perché Giuseppe Prezzolini, che, piaccia o no, è stato una delle menti più lucide e disincantate del Novecento, diceva che non andava a votare per non confondere il suo voto con quello di chi ne poteva anche far oggetto di mercato. Prezzolini sapeva benissimo che cos’è la democrazia, solo che non ne accettava taluni aspetti. Siamo d’accordo che una democrazia elitaria sarebbe ben più pericolosa di quella sbracata e populista e, alla fin fine, che, la regola “ogni uomo un voto” possa essere, forse, il minore dei mali. Il guaio è che il voto è sempre mercanteggiabile, senza bisogno di cadere nella banalità del “voto di scambio”, che fa lieti solo certi giudici giustizialisti. Vi sono forme ben più raffinate, occulte e sicure, perché il “voto di scambio” si realizza solo in prossimità delle elezioni, mentre non si estende a tutti provvedimenti di spesa, sperpero, assalto alla diligenza, che dilagano nei semestri più o meno bianchi che le precedono. In un paese ove la maggior parte degli elettori sono lavoratori dipendenti statali o privati, si può pensare davvero che siano sensibili ai fenomeni dell’impresa, della occupazione, dell’investimento, del futuro del paese e delle generazioni che avanzano? Pensano solo al posto fisso, inamovibile, al rinnovo dei contratti, agli scioperi, alle ferie, ai ponti festaioli, alla pensione. Ottenuti quegli scopi, ognuno per sé e Dio per tutti. Chi si è mai preoccupato delle vere lotte all’evasione, dell’obbligo o del premio a chi risparmia e a chi investe? E a premiare chi dà lavoro, chi crea condizioni di crescita? Facciamo un esempio: l’IRAP è un’imposta che serve a finanziare una parte di un welfare federalista e a consentire lo sperpero locale in aggiunta a quello centrale (come spendono i Comuni i soldi così rastrellati?); però è un’imposta che ammazza l’occupazione e questo effetto non potrebbe più negarlo nemmeno il suo inventore, che ora sta al tesoro. Ma chi se ne frega? Perché il suo inventore sta dove sta? Chi l’ha eletto? È il popolo dei marinai che si diverte a remare contro se stesso e, non pago, si dà anche il remo sulla testa, ridendo di gusto quando sbaglia il bersaglio. Mi viene in mente il titolo di un famoso romanzo di Bruce Marshall: “To every man a penny”, però lo riscrivo in una versione politica: “To every man a vote”, perché spesso il vote coincide con il penny.