Giustizia e processo nella Divina Commedia

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Compendio

 

In questo aforisma propongo una interpretazione della Divina Commedia come un grande processo giudiziario, che istruisce e conclude: condanne eterne (Inferno), a scadenza (Purgatorio) e assoluzioni per compimento della pena o per riconoscimento di virtù (Paradiso). Il Poema di Dante non è solo un cammino verso la salvezza, verso la filosofia, attraverso la sublimazione dell’amore, ma è anche una rappresentazione giudiziaria. Soprattutto è un giudizio che Dante, titano della poesia, ispirerà il Giudizio Universale, che Michelangelo, titano della pittura, rappresenterà due secoli dopo nella Cappella Sistina.

 

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La parola non è fiato, è logos, cioè spirito. Non è suono, ma significato profondo, al punto che anche una parola muta può trasmettere messaggi. Non è necessariamente statica, ma dinamica nel tempo. Infatti, vi sono parole che mantengono inalterato il senso del loro messaggio, persino cambiando da una lingua all’altra e la traduzione non riesce a deformare. Vi sono parole che finiscono nel dimenticatoio e diventano arcaiche, altre che sono in continua evoluzione. La parola è concetto e il progresso è un incubatoio di nuovi concetti e, quindi, di parole nuove e mutamento di significato di parole antiche. La parola è lo strumento più flessibile che si conosca: l’uomo primitivo, passato dai gesti al linguaggio, aveva disposizione poche parole, perché la necessità della sua vita non ne chiedeva di più. La parola è utilitarista e si evolve e moltiplica per nuove necessità. La parola è trasmissione di pensieri, emozioni, sentimenti e volontà. È empatia positiva che fa nascere l’amore, ma può essere negativa, madre dell’odio. Aristotele (Politica, I(A),2,1253a) dice che «l’uomo è per natura un essere socievole», ma avrebbe potuto scrivere che senza parola non nasce la società, perché manca il veicolo del rapporto sociale. La parola è convenzionale ed è sintesi di significati espressi e accettati e condivisi da una pluralità di individui, quindi la parola è al tempo stesso causa ed effetto della vita sociale, a cui è votato l’uomo, come dice appunto Aristotele.

Con questa premessa, che probabilmente non dispiacerebbe a filologi ed etimologi, interessano qui due parole: giustizia e processo, da esaminare in linea generale, per poter poi accennare al loro collegamento con il poema dantesco.

1) Giustizia è parola derivata dal latino justitia, di origine religiosa, perché direttamente connessa alla divinità jovis, che tra i vari significati ha quello di “comportamento conforme a una norma”, cioè essere nel giusto, che poi è una tautologia, perché lascia indefinito il “giusto”. Ma più importante è notare che esistono almeno due concetti di giustizia non coincidenti: la giustizia dell’uomo e la giustizia di Dio. Di Dio, non degli dei! E qui diventa necessario risalire al concetto di giustizia secondo la lingua ebraica, che è la prima grande religione monoteistica. Per gli ebrei giustizia è sinonimo di carità. Infatti in ebraico giustizia è Zedaqah¸ cioè donare anonimamente a sconosciuti bisognosi e nella religione islamica adempiere così un dovere religioso, una prescrizione dettata da Dio. Quindi una “giustizia divina”, che assorbe in sé anche il concetto di misericordia, prerogativa di Dio e non degli uomini che possono essere giusti in relazione a norme poste da essi stessi. Dalla Bibbia si ricava che per gli ebrei  “giustizia e “solidarietà” si fondono perfettamente.  Si ricordi che nel Vangelo di Matteo (3, 13-17), ove si descrive il Battesimo di Gesù delle acque del Giordano, allo stupito Battista, che tentava di defilarsi, il Cristo risponde: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». E ancora negli Atti degli Apostoli (10, 34-38)  si legge: «Pietro prese la parola e disse “in verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia», in cui è evidente che il significato della parola giustizia nel Nuovo Testamento supera il concetto dell’Antico. Nel Corano Allah (al-ilāh, il Dio) si dice anche al-Raān, traducibile come “il Misericordioso”), concetto che supera quello di “giusto”. Dante, che aveva conoscenze della cultura islamica, non ignorava questi collegamenti, come si vedrà. Ma è importante notare che anche per Dante esistono due giustizie, quella umana e quella divina, “Giustizia” è termine instabile, almeno nel senso umano, perché in balia delle mode interpretative, personali e politiche dei chierici, che poi sono i giudici, pronti a esaltare la loro funzione autoreferenziale. In proposito vengono alla mente:

– il passo di Gesron, nel De vita spirituali animae, noto  a Martin Lutero: «Definitio illa iustitiae, iustitia est perpetua et constans voluntas ius suum unicuique tribuens (o tribuere?), competit  principaliter iustitiae divinae in ordine ad suas creaturas. Deus nempe solus est qui voluntate perpetua et constanti dat unicuique quod suum est, suum inquam non ex debito rigoris sed ex liberissima et dignantissima condescensione aut donatione Creatoris» [1]

e

– lettera di San Paolo a Tito, in cui l’Evangelista afferma che Dio:« non ex operibus iustitiae quae fecimus nos sed secundum suam  misericordiam salvos nos fecit per lavacrum regenerationis et  renovationis Spiritus Sancti» [2];

2) processo, viene dal latino “procedere”, che significa avanzare, inoltrarsi, proseguire verso un obiettivo, da cui processus. È termine rimasto fermo nel tempo con significati sempre dinamici, di cui si avvalgono naturalisti, fisici, antropologi, teologi e, con particolare enfasi, i chierici del diritto. In diritto processuale “processo” designa un iter, un percorso per il giudice, con il fine di pervenire, alla fine e dopo ricerche, alla scoperta della verità, ciò che non si può realizzare se, invece che ai dati oggettivi fondamento della prova, il giudice baratta la verità con i suoi preconcetti personali. Allora, il processo non si realizza, perché il preconcetto arresta sul nascere il procedere. Si ricordi nella preghiera del Credo della religione cristiana la definizione di Spirito Santo “che procede dal Padre e dal Figlio”.

Dopo questa lunga premessa è possibile comprendere questa mia considerazione originale – originale perché non ricordo di aver mai letto prima  nemmeno un cenno all’ipotesi – riguardante la Divina Commedia.

Nell’Epistola a Cangrande, che propendo per l’attribuzione a Dante, si legge, nel paragrafo X, che la scelta del titulus Comedia, invece che tragedia pè perché, diversamente da questa: «la commedia presenta all’inizio una situazione perturbata, ma la sua vicenda si conclude felicemente, come si vede da Terenzio nelle commedie». A parte la considerazione che se l’epistola è di Dante e non postuma, significa che il Poeta aveva già in testa anche l’intero Paradiso, cioè l’epilogo “felice”, è evidente che nella sua testa  la sua opera è un procedere.

A ben vedere tutta la produzione di Dante, che si immedesima nella sua stessa vita in modo totale, ruota intorno al concetto di giustizia e al suo connesso di misericordia: la Divina Commedia è analisi e allo stesso tempo sintesi, compendio del concetto di giustizia: nell’Inferno c’e la condanna inappellabile e irredimibile della colpa e immeritevole di misericordia, nel Purgatorio la misericordia è attiva per considerazione benevola, ma anche giusta, del pentimento e nel Paradiso c’è il riconoscimento dei meriti della santità originaria o per espiazione della colpa. Si tratta di un processo dinamico in cui domina lo sviluppo della vita dell’uomo nel tempo e il procedere consequenziale della giustizia, che segue l’uomo come un’ombra proiettata dalle stesse azioni in funzione di una luce nera (colpevole) o bianca (meritevole) di ogni atto compiuto: è il senso dinamico del concetto di processo, il cui personaggio principale è Dante stesso, che di processi secondo la giustizia umana (ingiustizia) ne aveva subito tre, tutti seguiti da condanna a morte. Il concetto di processo, da “procedere”, domina l’intera Commedia, umana in generale e personale in particolare. Dante è al tempo stesso giudice e incolpato, che però si redime durante lo svolgimento del processo, consentendogli di accedere al Paradiso e di vedere l’Aleph, come si evince dal canto XXXIII, versi 115-119, del Paradiso:

«Nella profonda e chiara sussistenza

de l’alto lume parvemi tre giri

di tre colori e d’una contenenza

 

e l’un da l’altro come iri da iri

parea riflesso, e ‘l terzo parea foco

che quinci e quindi igualmente si spiri».

Virgilio e Beatrice sono i suoi personali avvocati difensori, in apparenza, ma il vero difensore è se stesso, come ben si intuisce dall’Epistola, ripresa da Leonardo Bruni, Populo mee, quid feci tibi? (Popolo mio, che ti ho mai fatto?), in cui la domanda è chiaramente retorica. Dante proclama la sua innocenza e la sbatte in faccia non più a Firenze, ma ai fiorentini, il popolo amato e biasimato a un tempo, che ha delegato ogni potere di vita e di morte (podestà, da potestas) ai famigerati magistrati di parte nera Cante de’ Gabrielli da Gubbio e, poi, Gherardino di Gambara da Brescia, tra l’altro nemmeno fiorentini, quasi a non volersi sporcare le mani, come fecero gli ebrei con Pilato.

Ecco il processo secondo la giustizia di Firenze, che conclude senza redenzione la condanna del più grande dei suoi cittadini. Se tutto si fermasse qui, l’ingiustizia manifesta non avrebbe consentito a Dante di scegliere il titolo “Commedia”, perché sarebbe stato più appropriato “tragedia”. Fortunatamente esiste la giustizia divina, che apprezza il riscatto e la paradisiaca conclusione. Se non fosse tragica sul piano umano, sarebbe una rappresentazione teatrale e Dante sembra anticipare lo Shakespeare della commedia Come vi pareTutto il mondo è un palcoscenico» e il processo ne è la massima espressione).

La Commedia è, allora, un grande affresco processuale michelangiolesco da Cappella Sistina, che si conclude nel Giudizio Universale, in cui domina la giustizia divina. Che Michelangelo, si sia ispirato alla Divina Commedia, un titano del pennello con un titano della penna, è ovvio e condiviso da molti studiosi, perché i geni, tra loro, si intendono, anzi convivono spiritualmente e nella fattispecie i due processi convergono pur nella diversità delle forme espressive, che si integrano come per volere divino, quasi che Dio abbia invitato a non fidarsi della giustizia umana, amministrata da uomini della politica e da chierici, che si abbandonano alle proprie fragili interpretazioni, a interessi personali e alla propria ignoranza.

La pochezza della giustizia umana, in confronto alla divina, Dante la esprime nel Canto XIX del Paradiso. Ma il poeta ci fa capire che non la prima, ma la seconda è la vera giustizia.

Il poema dantesco, che da sette secoli stimola studiosi e specialisti a varie interpretazioni, perché è un pozzo senza fondo, può essere visto, a mio avviso, come un processus non solo metaforico, perché dell’ingiustizia umana Dante ha fatto esperienza sulla propria pelle di condannato a morte senza colpa e la Divina Commedia è la rappresentazione dell’inconsolabile dolore dell’uomo costretto all’esilio.

 

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Abstract

In this aphorism I propose an interpretation of the Divine Comedy as a great judicial trial, that prepares and settles: eternal sentences (Hell), until maturity (Purgatory) and acquittal for ending of the sentence or for recognition of virtue (Paradise). The poem of Dante is not only a walk to salvation, to philosophy, by the sublimation of the love, but it is also a judicial representation. Above all it is a judgment that Dante, titan of the poetry, will inspire the Giudizio Universale, that Michelangelo, titan of the painting, will picture, two centuries later, in the Cappella Sistina.

 
(Translation by Giulia Bonazza)


[1] Quella definizione di giustizia, giustizia è perpetua e costante volontà di dare a ciascuno secondo il suo diritto, riguarda principalmente la giustizia divina verso le sue creature. Veramente solo Dio è colui che con volontà perpetua e costante dà a ciascuno ciò che è suo, suo non per rigoroso dovere ma per liberissima e graziosissima concessione o donazione del Creatore.

[2] Egli ci ha salvati; non per opere giuste, che noi abbiamo fatte; ma, secondo la sua misericordia, per lo lavacro della rigenerazione, e per lo rinnovamento dello Spirito Santo.