Sono più le categorie del giurista, ma fra esse primeggia quella del giudice. Dire che il giudice è colui che “amministra” la giustizia è ben diverso di “impartisce” o “distribuisce”. Amministrare è verbo che ha etimologia ricca di significati anche etici; implica una funzione di “ministro” e rimbalza a concetti che rendono il giudice “uomo che ha espresso un giuramento” (anche questo termine ha radice in ius) di fedeltà alla propria coscienza morale prima ancora che all’ordinamento, come a dire, con parole diverse, che il giudice è colui che si sente talmente ingabbiato dal diritto positivo, da provare il bisogno di una fuga verso il diritto naturale. Ma, poiché la fuga è impossibile, la tensione tra il ciò che deve fare e ciò che vorrebbe fare, porta il giudice a fare al meglio ciò che è costretto a fare, rendendo così possibile la trasvalutazione del concetto di giustizia secondo legge a giustizia secondo coscienza. Non è contraddizione, non è nemmeno banale kantismo, è giustizia del giudice che riesce a trasformarsi in giustizia dell’uomo: trasvalutazione senza trascendenza. Chi pensa così, mal sopporta certo modo di far giustizia, oggi, perché lo scarto è talvolta abissale. La giustizia è la più alta delle virtù civili, perché è l’ultima istanza. Se cade, tutto cade nella società. Criticare la giustizia, fa male al cuore del critico, perché è delusione, che diventa timore. Sembrano allora, ancor più preziose, certe sentenze, in cui quei principi sono presenti e che il lettore avverte con conforto e speranza. Segnalo due sentenze della Corte di Cassazione, in cui si parla di rapporti tra il cittadino e lo Stato e non dei soliti atti che un signore (si fa per dire!) compie verso una signora (si fa ancora per dire!), tanto oggetto di attenzione, negli ultimi tempi, di giudici supremi (non ci sono parole per dire!) alla ricerca di confini tra carezza e palpazione.

La prima è l’aurea sentenza 25 ottobre 1989, n. 4373, che consiglio a chi voglia risalire alle origini del diritto occidentale e constatare che non esiste un diritto romano, un diritto intermedio e uno moderno, ma esiste un diritto, che non ha soluzioni di continuità, non certo nelle norme, ma nello spirito che è in esse.

La seconda, 8.11.1995, n.11598, in tema di simulazione e di art. 1417 cod. civ., a un certo punto afferma: « Invero… l’art. 1417 è da intendere che la libertà di prova è ammessa solo quando “la convenzione o la clausola occultata abbia un contenuto illecito tale da legittimare la parte a farne valere l’invalidità” (Relazione al c.c). Perché tale effetto si determini sarà pertanto necessario che la norma violata abbia carattere proibitivo (non, quindi, meramente ordinatorio) e sia posta, inoltre, a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico: l’interesse dello Stato alla riscossione delle imposte, per il suo carattere settoriale, non rientra in tale categoria, come viene precisato nello stesso passo della Relazione, sopra richiamato, e deve quindi escludersi che l’occultamento del prezzo, determinando l’illiceità del contratto, integri i presupposti per il superamento delle restrizioni sulla prova derivanti a carico dei contraenti secondo i principi generali. » Grazie giudice della Cassazione per aver ricordato che il Fisco non è il mio Dio!