Dialoghi sul cancello

L’ing. Nico Valenti, sentendosi molto stanco per lo stress accumulato in un lavoro poco appagante, si era preso una giorno di pausa e, dopo un viandare da flaneur lungo l’argine del fiume, si era seduto al piede di un grosso salice: la schiena appoggiata al tronco e lo sguardo perso nell’indeterminato nulla. La pioggia dei giorni precedenti in alta montagna aveva ingrossato l’acqua, che ora scorreva tumultuosa nel letto del fiume e al solo guardarla rendeva aggrovigliata la matassa dei suoi pensieri. Non c’è spettacolo più stimolante dell’acqua che scorre: ti dà il senso del tempus fugit, dell’azione creativa dell’uomo; ti eccita all’attività, ti sollecita la creatività, ti fa disprezzare l’inazione come stato indegno dell’uomo.

Nico, capì che quello non era il suo posto, come nemmeno lo era l’occupazione di ripiego attuale. Si alzò ed ebbe desiderio di rivedere il suo vecchio stabilimento, che era stato costretto a chiudere per cessazione dell’attività: unico bene rimastogli dalla liquidazione dell’azienda. Svuotato dei macchinari, che erano l’anima pulsante dell’azienda, nessuno si era proposto come acquirente e ora era diventato una scatola vuota, un corpo senz’anima, un tempio senza tabernacolo: un monumento funebre alla crisi economica iniziata nel 2008, non ancora metabolizzata, almeno per la sua impresa costretta alla liquidazione.

Si fermò davanti all’ingresso sbarrato da un cancello chiuso da una grossa catena con lucchetto. La sua vecchia fabbrica era avvolta da un silenzio irreale e la giornata uggiosa rendeva l’immobile spettrale ai suoi occhi: non un rumore, non una luce accesa all’interno, non un automezzo fermo nel parcheggio del piazzale. Una casa vuota, disabitata, chiusa, dà un senso di desolazione, perché denota assenza dell’uomo, ma uno stabilimento chiuso è una visione funerea, perché manca il lavoro, non c’è più attività, l’homo faber non vi abita più.

Nico piombò in uno stato di doloroso rammarico. Stava con le mani aggrappate, attorcigliate alle sbarre del cancello senza avere il coraggio di entrare, seppur ne avesse le chiavi, perché il fabbricato era l’unico bene rimasto: un memento di un’attività annientata da una sconfitta imprenditoriale. Ammetteva che la crisi non era stata colpa sua, ma il mercato lo aveva ingiustamente punito: avrebbe pianto, se ne fosse stato capace. Si ricordava di Scipione Emiliano, che piange sulle rovine di Cartagine e che lui stesso aveva distrutto. No! Lui non era un piccolo Scipione: non ammetteva di avere colpe. Eppure! Neanche Scipione aveva colpe: era stato costretto da una regola ferrea della storia: mors tua, vita mea. Al diavolo! Si disse: a che servono queste reminescenze da liceo? La storia sarà anche bella, ma è il passato, mentre la nostra vita scorre al presente e fugit verso il futuro. Ma la crisi economica non è ancora passata e qual è il futuro? Siamo noi il futuro? E il mio futuro? Ma sarà solo il mio o anche di altre persone che dipendono da me e si aspettano che io faccia qualcosa? Ma che cosa?

«Che tristezza!» udì dietro le sue spalle. Nico riconobbe dalla voce il suo capo-produzione: un collaboratore fidato, fedele e intelligente, che aveva sempre trattato con il “voi”, perché era più di “uno” e gli rappresentava tutti i suoi dipendenti. Nico si voltò:

«Che ci fate qui all’ingresso di un cimitero?».

«Quel che ci fa lei, ingegnere!» gli rispose la voce.

«Già! Un comandante che cammina sul terreno, che è stato il teatro di una battaglia perduta e vede solo morti».

«Una battaglia, non la guerra!».

«Siete ottimista, voi. Ma io ho perso. Venite spesso davanti a questo cancello?».

«Qualche volta. Quando mi coglie la nostalgia e l’essere un disoccupato mi stimola tanti ricordi. E lei?».

«Io no, non vengo mai: oggi ho fatto un’eccezione. Mi dà troppo dolore. Ma stamattina ero in riva al fiume: riflettevo, ricordavo. Il rammarico cresceva e il pensiero mi richiamava i numerosi casi di suicidio di imprenditori, che non hanno retto al fallimento. Pensieri pericolosi, perché stimolano l’imitazione. Per distrarmi, ho pensato di venire qui per vedere meglio in faccia la realtà. La realtà è questo stabilimento rimasto vuoto dopo che una ditta cinese ha rilevato tutti i macchinari, lasciando solo le mura, perché intrasportabili. Con il ricavato sono riuscito a pagare tutti i creditori evitando il fallimento giudiziario, in cui sarei incappato, se avessi tentato di resistere, continuando a perdere. Ora, però, mi manca soprattutto il rumore delle macchine che girano, che per me non era rumore ma suono. Quando nasciamo, Dio ci assegna un compito. Per me era: crea lavoro per quanti più operai puoi, perché dietro di loro ci sono famiglie: mogli, figli, genitori e le macchine scandiscono i loro destini, le loro speranze, il loro futuro. Ecco cosa mi manca: il destino degli altri. Quando guardavo la mia fabbrica da questo cancello e vedevo le luci accese, sentivo il rumore della linea di produzione, provavo la soddisfazione di un dovere compiuto e l’orgoglio per l’opera riuscita. Mi sentivo soddisfatto. E ora la scatola è vuota, come un uomo senz’anima, una chiesa sconsacrata. È una questione di carità. Per me la carità non è generalizzabile. Ognuno deve adempiere il proprio dovere che il destino gli ha assegnato: il resto è una conseguenza. Io non sono stato caritatevole perché ho sbagliato, seppur in buona fede. Ma la buona fede è come le buone intenzioni: il mondo è pieno di buone intenzioni, ma servono le opere, che quando hanno successo fanno la carità. Capite?».

«Capisco, ma ora entriamo, intanto che c’è luce».

«Perché entrare?» chiese Nico, senza accorgersi che aveva già in mano la chiave del lucchetto.

«Noi entriamo, poi vediamo!».

Una luce fioca filtrava dalle finestrature del sottotetto e rendeva ancor più opprimente lo spazio vuoto. Un vuoto quasi metafisico.

«Ingegnere! Chiediamoci perché siamo stati costretti a chiudere. È da qui che dobbiamo partire, se non vogliamo fermarci a piangerci addosso».

«Secondo me – rispose Nico – perché l’impresa si era legata a un solo cliente. Eravamo solo degli ottimi terzisti, ma non avevamo un nostro prodotto. Mi sono lusingato e ingannato dalla facilità di non dovermi preoccupare della rete di vendita di un prodotto finito. Contavo sulla validità tecnica dei nostri semilavorati, apprezzati per la qualità e la precisione meccanica; sulla continuità del flusso degli ordini. Ma quando la crisi ha travolto il nostro unico cliente, ne abbiamo seguito le sorti. Forse sarebbe andata così in ogni caso, ma questo è solo un pensiero consolatorio».

«È quel che ho sempre pensato anch’io. Ma ora che il mercato dà timidi segnali di ripresa, dobbiamo pensare come uscire da una situazione che non si addice alla nostra natura».

«Dite bene. Ma come?» risposte Nico dubbioso.

«Io una mezza idea l’avrei».

«Esaminiamola insieme, senza dimenticare che occorrono capitali per comprare macchinari e sostenere le spese di avvio. Cioè occorrono soldi e qui c’è solo un immobile. Le banche hanno la manica stretta. Il leasing si può fare solo su singoli beni. Prima ancora serve un progetto: che cosa produrre e come vendere in proprio e stare sul mercato, che è un insieme di tanti padroni, quindi nessun padrone e non di uno solo, che è stato la nostra rovina» disse Nico.

«Ingegnere! Non dobbiamo pensare troppo. Sarebbe una perdita di tempo e perderemmo la voglia di reagire e ripartire. Non è questione di andare allo sbaraglio, ma di non perdere l’efficacia dell’azione, che sta nella prontezza, anzi, nell’immediatezza. Le sofisticherie lasciamole ai filosofi. A noi la decisione. L’eccesso di pensiero non si addice all’imprenditore, perché lo rende irresoluto e imprese importanti restano deviate e perdono il nome di azione. Non so chi l’ha detto, ma qualcuno ha sparato questo giudizio. Penso avesse ragione.. Ho saputo che a pochi chilometri da qui c’è una fabbrica chiusa, fallita. Il curatore fallimentare deve vendere l’azienda, però, intanto deve continuare a pagare l’affitto dell’immobile, che non era in proprietà del fallito. Morale: il curatore è disposto a tutto pur di liberare lo stabilimento. Si potrebbe proporgli un contratto di affitto d’azienda di cinque anni con opzione di riscatto alla fine. Spostiamo qui i macchinari e tutto il resto, sfruttiamo il marchio del prodotto e la clientela che è ancora in collegamento essendo il fallimento molto recente e ripartiamo. So che si tratta di un prodotto diverso dal nostro precedente, ma siamo abbastanza flessibili per adattarci al nuovo e noi facciamo tesoro delle esperienze passate, che sono il nostro primo capitale. Ma poi: abbiamo alternative? Non ne abbiamo. Ripartiamo e “o la va o la spacca”, ma dobbiamo affrettarci prima che il curatore svenda tutto al miglior offerente o i singoli beni all’asta con perdita di posti di lavoro. Curatore e Tribunale potrebbero essere favorevoli a una soluzione temporanea come l’affitto. Ci sono almeno dieci nostri dipendenti, i migliori, annoiati di stare con le mani in mano e pronti a seguirci e prima di tutti la Lina, la segretaria superefficiente e indispensabile, che aveva sposato l’azienda e ora si sente come una divorziata».

«L’idea mi sembra buona – disse Nico – Rifacciamo la squadra. E, allora, come disse Cesare varcando il Rubicone: Eatur».

«Non so che significhi, ma sono certo sia una parola buona, se la disse Cesare. Andiamo».

Pochi mesi dopo la fabbrica aveva ripreso a funzionare. Alle otto di una mattina di novembre l’ing. Nico Valenti si apprestava a varcare il cancello dello stabilimento. Una nebbia bassa avvolgeva tutte le cose come a ovattarle con un velo di bambagia. L’immobile era illuminato. Il rumore soffuso delle macchine della linea di produzione si diffondeva smorzato dall’aria umida. Nico si fermò un attimo a osservare e ascoltare: il suo mondo, l’unico che conosceva, aveva ripreso a pulsare. Dietro di lui udì una voce:

«Che bellezza! È fatta! Il miracolo è credere nei sogni» disse il capo-produzione, senza salutare, perché, se il tempo non si fraziona ma è un flusso continuo, il saluto sarebbe una contraddizione: nessuno parte, nessuno arriva e il saluto segnerebbe una interruzione.

«Avete avuto ragione voi a crederci più di me. Ora mi sembra che anche il mio cervello abbia ripreso a funzionare. Vi confesso di sentirmi soddisfatto, perché un vero imprenditore ha il compito di creare valore e lavoro per gli altri. Il rumore delle macchine che girano è musica per me. Le macchine non hanno un’anima: anzi c’è l’hanno, perché è l’anima stessa dell’operaio che le governa e dietro di lui c’è una famiglia che desidera solo di crescere. Voi che ne dite?».

«Ingegnere, dice le stesse cose che io penso. Oggi poi è un giorno doppiamente felice per me: il medico ha visitato mia moglie. È incinta e tutto prosegue bene».

«Mi complimento con voi e con vostra moglie. Maschio o femmina?».

«Femmina» rispose con commozione.

«Bene. Femmina come la macchina, che l’uomo ha il dovere di condurre e proteggere. Sono un po’ maschilista e voi lo sapete, ma me ne vanto, perché l’uomo, se vuole primeggiare, deve saper donare».

«Concordo con lei e in più le dico che anche la fabbrica è femmina».

«Certo che lo è e noi abbiamo il dovere di custodirla, anche se spesso commettiamo errori. L’azienda non è dell’imprenditore: è di tutti quelli che ci lavorano con passione e speranze».

Insieme attraversarono il cortile verso l’ingresso. La luce e il rumore delle macchine provenienti dall’interno si intensificavano. Il cielo si schiariva e la nebbia diradava.