Cause della crisi economica attuale e della sua improbabile catarsi (Causes of the actual economic crisis and its improbable catharsis)

L’Italia sta vivendo una delle peggiori stagioni della sua storia repubblicana: disoccupazione al massimo, Pil in recessione, politica allo sbando, economia allo sfascio, giustizia senza più credibilità, scuola disastrata, ricerca scientifica azzerata, sanità in affanno e chi più mali sa constatare più ne metta. E per risolvere problemi di questa portata andiamo a cogliere consigli e lezioni alla porta di Brandeburgo? Sarebbe anche desiderabile, se gli inviati avessero solo il biglietto di andata, perché come dice la poesiola di Strapaese: “non quando li prende, ma quando li rende, Parigi ci offende”.

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Oggi l’economista puro non è più in grado di spiegare l’economia attuale. Forse è giunto il momento di attingere ad altre discipline, rinunciando a fare il consigliere del principe, che di economia capisce ancor meno. Innanzi tutto bisogna smettere di pensare che si tratti di crisi e che prima o poi ne saremo fuori, perché è il mondo che è cambiato, travolgendo i rapporti di bisogni-risorse compatibili, quindi gli aspetti sociali della vita nazionale e internazionale. Solo la Merkel e i suoi servitori, italiani compresi, possono illudersi che basti stringere la cinghia per un po’ e tutto si sistemi. Quando i tedeschi si renderanno conto di non essere immuni, sarà troppo tardi, per loro e per noi. I medici hanno esaurito i ricettari, ammesso che abbiano ancora terapie da scriverci e le farmacie siano fornite di medicinali più efficaci dei placebo. Invece, tutto si riduce a una riproposizione di ricette keynesiane (vomitare danaro sul mercato da parte delle banche centrali) o antikeynesiane (austerità da mendicante). All’origine c’è la interpretazione dei neoclassici che la crescita, come obiettivo di benessere collettivo, sia connessa all’aumento della popolazione, assioma vero fino a un certo punto e ora non più. L’aumento della popolazione è stato visto in funzione dell’aumento del numero delle braccia in grado di determinare l’incremento dell’offerta del fattore lavoro e quindi di essere un fattore di crescita. La considerazione più morale e sociale che economica, è che l’aumento delle braccia, se disgiunto da un incremento dell’acculturamento, può produrre solo una sottoccupazione da proletariato come sta avvenendo con l’attuale immigrazione di extracomunitari. La continua evoluzione della tecnologia cambia, già di per sé, il rapporto del fattore lavoro nelle sue coordinazioni con gli altri fattori e, inteso in senso tradizionale, lo rende di valore più storico che attuale e oggi sarebbe più corretto parlare di demografia in generale che non di crescita dell’offerta di lavoro: si tratta di un fenomeno complesso che non va banalizzato con frettolose affermazioni e che ha interessato generazioni di valenti economisti e tuttora è oggetto di analisi, le cui conclusioni non sono sempre convergenti. In proposito possiamo riassumere lo stato attuale del problema con due richiami: a) lo sviluppo scientifico e la tecnologia che ne deriva costituiscono un fattore che sposta continuamente i termini del problema. In realtà, la tecnologia costituisce un limite, seppur temporaneo ma imprevedibile, oltre il quale la crescita economica è impossibile. Infatti, occupazione e tecnologia sono fenomeni connessi e interdipendenti, che finiscono per farci ammettere che esistono dei tassi naturali a cui si riportano la realtà di possibile crescita e di occupazione.  Non basta proclamare che tutti hanno diritto a un lavoro, perché è affermazione metafisica, priva di contorni reali.

In proposito si osserva che non è solo questione di numero dei viventi, ma anche di allungamento della durata della vita attiva. In altri termini: se la vita media si allunga di un terzo è come se la popolazione aumentasse di un terzo almeno per un ventennio, perché a un aumento dei costi per portare un bambino alla soglia della vita attiva lavorativa, fa riscontro un aumento dei costi della popolazione che invecchi di un terzo suppletivo. La soluzione, non certo soddisfacente, è l’allontanamento dell’eta pensionabile, ma questo non è politicamente accettato, con il risultato che le casse previdenziali finiscono per scoppiare e l’occupazione per allungamento finisce per essere di produttività inferiore a parità di costi, salvo vedere aumentare il numero dei nonni, che nel giro di pochi anni potrebbero non avere più nipotini da accompagnare a scuola. Si tratta di problemi sociali noti e dibattuti, su cui non è qui il caso di insistere; b) ricordo uno studio statistico di metà degli anni Novanta, che metteva in evidenza, su scala mondiale, che dove c’è sviluppo economico non c’è sviluppo demografico e dove c’è sviluppo demografico non c’è sviluppo economico. Le statistiche sono rilevazioni a consuntivo, ma la demografia è anche proiettiva e la matematica probabilistica, che ne è alla base, è in grado di fare previsioni fondate.

La tesi che l’aumento della popolazione sia garanzia di crescita (in molti studi si nota la confusione tra crescita economica e sviluppo economico, che, invece, attiene anche alla qualità della vita) ha costituito una trappola in cui sono caduti anche i keynesiani, che hanno mantenuto il fine (crescita del Pil e welfare a profusione), cambiandone i mezzi. Le conseguenze politiche sono evidenti, soprattutto per l’Italia: marxiani di complemento, utili idioti, anime pie di scarso cervello, mediatori politici che pretendono la provvigione su tutto, hanno portato a disastrosi livelli il debito pubblico contratto per soddisfare pretese insostenibili. Questo significa aver vissuto al di sopra dei propri mezzi e di continuare per diritto acquisito, in barba alle generazioni future. Le cure dimagranti vengono socialmente rifiutate, perché vale lo slogan: “indietro non si torna”. È ben vero che chi viene al mondo non per sua scelta acquisisce il diritto di vivere e la civiltà occidentale si è resa sensibile al problema della vita, nonostante tante deviazioni dalla via confessata dalla Chiesa, ma, allora, il problema si sposta sulla responsabilità dei procreatori. I fenomeni migratori di popolazioni eccedentaria non possono essere risolti irresponsabilmente aprendo le porte a tutti in modo indiscriminato. È questione di equilibri e di tutela degli stessi migranti, invece esposti a ogni forma di sfruttamento e di sottoccupazione, ma spesso pretensori di mantenimento di costumi ancestrali e rifiuti di integrazione. La globalizzazione, dopo l’iniziale entusiasmo delle solite anime pie, ha creato nelle zone di immigrazione problemi sociali e sanitari, che sono anche il corredo degli immigrati, cioè sono portatori di virus, batteri e malattie che non erano prima conosciute. Si faccia attenzione alla precisazione: non si devono abbandonare a se stessi, ma tenerne conto è un dovere anche verso i portatori stessi. La tesi, tutta francescana, che basta diventare tutti poveri e c’è posto per tutti, non è sempre condivisibile. Può darsi che dividere un pane tra due persone sia una communio che consente di sopravvivere a entrambi, ma, se le persone sono venti, muoiono tutti di fame, perché con le briciole si sfamano solo le formiche. Forse non aveva tutti i torti il prof. A. J. Carlson dell’Università di Chicago quando scriveva che “se ci moltiplichiamo come conigli, alla lunga dovremo morire come conigli». Peraltro, non dobbiamo rimetterci alle statistiche dell’OMS o dei funzionari dell’ONU, personalmente interessati al date obolum Belisario, (sono riusciti a dichiarare morti per fame in un anno, più del totale dei morti in assoluto nell’anno stesso!). Il problema maggiore, fuori di morale, non è di chi muore, ma, oltre un certo numero della specie, di chi sopravvive e contribuisce al numero eccedentario. Sembra un’affermazione cinica, ma è solo statistica-demografica.

Per inciso, ricordiamo, perché significativo, l’intervento di Joseph Ratzinger, allora cardinale ma riconosciuto profondo teologo, che a un convegno di Lugano nel 2002 ammise che nessun Paese può accogliere tutti quanti vogliono entrare, ma devono essere regolamentati i flussi migratori e trovare un giusto equilibrio.

In questi ultimi tempi si rifiuta di fare i conti con due riferimenti imprescindibili e collegati e desumibili da discipline diverse dall’economia:

a)      in fisica, la seconda legge della termodinamica stabilisce che, aumentando lo sfruttamento di energia, senza apporti esterni al sistema, si incrementa l’entropia, cioè il disordine, il caos e ciò in quanto esiste dispersione, che, invece di lavoro, produce nocivo calore. Allora, che cosa sono l’attentato all’ambiente, l’aumento della temperatura, la deforestazione, lo scioglimento dei ghiacciai, se non un aumento di entropia? Con il che non si dà alcuna ragione a ecologisti, ambientalisti, no-global e compagnia molto cantante sulle piazze e molto contributi all’entropia. L’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen aveva ben percepito l’estensione della legge della fisica all’economia, solo che nemmeno è citato, perché certe verità fanno male a chi si mette i paraocchi, invece, si deve riconoscere che la specie “uomo”, oltre un numero di sostenibilità, crea disordine, cioè entropia;

b)       in biologia, è stabilito che l’aumento esponenziale della popolazione mondiale in continuo movimento per globalizzazione e abbattimento delle frontiere, oggi oltre 7 miliardi di esseri, che non si limitano a mangiare e defecare, fornisce brodo di cultura a virus come Sars, virus Ebola, ritorno di tubercolosi, Aids, influenze virali,  ecc. È un fenomeno dilagante contro cui i farmaci possono fare ben poco, perché i nuovi ceppi diventano sempre più resistenti, anzi più nuovi perché si autogenerano in forme evolute e mutanti, cogliendo i ricercatori impreparati. Una specie di gara a inseguimento in cui la lepre (batteri e virus) arriva sempre per prima. Questo fenomeno biologico non sembra preoccupare i padroni del mondo e i signori delle guerre, che si fermano ai kalashnikov e loro evoluzioni; ma, contro i virus, il fucile né la bomba atomica sono vincenti. Non dobbiamo certo cadere nel catastrofismo, ma non possiamo ignorare che, se la compatibilità è legata a un equilibrio di popolazione di 6 miliardi di uomini, come massimo, essere a oltre 7 e in continuo incremento significa produrre entropia. Se, per fare un esempio, il motore a scoppio delle automobile è in grado di sfruttare solo un terzo dell’energia della benzina, significa che due terzi, anziché in moto si trasforma in calore disperso nell’ambiente (surriscaldamento nocivo della Terra, effetto serra, fascia di ozono ecc.). Questa è l’entropia, da qualsiasi punto di vista la si guardi, anche in economia. L’ipotesi ottimistica che col tempo tutto si aggiusta e che scienza, farmacologia e medicina, prima o poi troveranno gli antidoti alle malattie e la soluzione a ogni problema energetico, può rivelarsi una pericolosa illusione. Oggi si continua a morire per tanti tumori come si moriva mezzo secolo fa. Bisogna smettere di credere nella onnipotenza della scienza, che nulla può contro il ripristino degli equilibri naturali, come già avvenne migliaia di anni fa con il diluvio universale e nel prossimo futuro potrebbe trattarsi di pandemie incontrollabili

Ecco perché ritengo che i viaggi Roma-Berlino o Roma-Bruxelles (stessa cosa?) dei nostri politici renitenti all’entropia della spesa pubblica sono costi e tempi persi, perché vanno con il cappello in mano e tornano a testa nuda. La interpretazioni di molti mali economici sta a monte e si chiama consapevolezza del disordine, non solo interno, ma mondiale. L’Italia è solo un virus di scarsa potenza, peraltro contrastabile con un minimo di buon senso politico.