Mentre gli Stati Uniti impazziscono per le elezioni presidenziali e si autodeclassano da prima potenza del mondo a paese delle banane e mentre l’Europa impazzisce per le mucche inglesi e francesi (qui ci vuole un Giulio Cesare), il Giappone impazzisce perché non riesce più a capire la propria economia, che sembra un gigante coi piedi di argilla. C’è da stare poco allegri, perché quegli sbandamenti riguardano in concreto tutta l’economia mondiale, che rischia di restare senza locomotive. Secondo alcuni commentatori e inviati speciali delle massime gazzette italiane, la crisi giapponese è causata da eccesso di risparmio. Questa interpretazione offre l’occasione di una riflessione che ci riporta ai tempi in cui in Italia aveva senso la domanda: è meglio risparmiare o consumare? Allora nessun giornale avrebbe presentato un rapporto dal Sol Levante con il titolo “Il Giappone è in crisi perché risparmia troppo”. Il risparmio era considerato una virtù e la virtù, si sa, non può che portar bene. Ma a essere concreti quel titolo non ha senso nemmeno oggi. Innanzi tutto si debbono ricordare i ripetuti rammarichi sulla caduta del risparmio degli americani e degli europei, in particolare degli italiani, che, si legge spesso, si sarebbero trasformati da formiche in cicale. E allora, anche per solo buon senso e senza scomodare illustri economisti, che significato può avere quella diagnosi? Infatti, non ne ha! Il Giappone non è certo un paese felice. Ha abbracciato con una rapidità accelerata il modello occidentale ed è stata la sua arma vincente in economia, perché ha potuto adattare le proprie virtù innate e consolidate di frugalità e produttività nel lavoro a processi produttivi sempre più dinamici e flessibili imposti dal modello americano. Ma la trasformazione non è stata senza prezzo. Il salto da una cultura da samurai a quella da yuppie ha determinato scompensi sul piano sociologico. Il capitalismo occidentale è naturalmente portato alla grande dimensione, ma gli occidentali hanno nell’individualismo un antidoto naturale, che, se non elimina il gigantismo, riesce comunque a contenerlo. L’individualismo ha in sé quel tanto di anarchismo, che finisce per abolire le classi sociali. In Giappone, dove il senso dell’onore convive con quello dell’obbedienza, esistono meno freni e il gigantismo ha dilagato; dapprima nella finanza e da qui come ricaduta naturale sui processi di produzione e di distribuzione dell’economia. Ciò ha moltiplicato il rischio e alla prima resa dei conti il sistema è andato in crisi. I più eclatanti fallimenti di banche, società finanziarie e di distribuzione sono stati giapponesi. L’economia di produzione, spinta dal gigantismo finanziario, ha dovuto fare a sua volta i conti. Si veda l’industria automobilistica ormai preda di gruppi americani ed europei, perché indebitata fino all’insostenibile. Il giapponese medio si è trovato di fronte a una evoluzione che non aveva saputo prevedere, come dimostra la crisi del rapporto di “lavoro a vita”. L’insoddisfazione è aumentata, l’incertezza della vita anche. La popolazione invecchia a ritmi occidentali, per l’evidente motivo che il futuro non appare migliore del presente. Il modello di vita è cambiato. Si legge che le geishe stanno passando di moda e se la “casa da tè” si trasferisce sul marciapiede vuol dire che qualcosa sta veramente peggiorando. In questo quadro poco felice una componente antropologica di quel popolo è rimasta forte: il senso del risparmio. Secondo i commentatori italiani questo è un vizio, non un sacrificio. Non è così, ma fingiamo lo sia. Ora, in una economia mondializzata e finanziarizzata gli effetti del risparmio non si fermano a confini geografici inesistenti, a meno che una economia nazionale non abbia alcuna vocazione per l’export. Ma non è il caso di quella giapponese, che ha adottato il modello di esportare possibilmente tutto e importare niente e, per meglio realizzare l’obiettivo, ha creato il mitico ministero MITI. In questo quadro la domanda interna finisce per avere una effetto attenuato sugli impulsi complessivi alla produzione, perché in un mercato aperto, se uno vuol risparmiare non compie un sacrificio a favore del vicino di casa, ma per uno sconosciuto che non si sa in quale angolo del mondo viva. Se i giapponesi continuano ostinatamente a risparmiare e gli americani a consumare oltre i loro mezzi risparmiati, significa che i primi hanno deciso di condurre una vita austera a beneficio dei secondi. Il gioco del commercio internazionale è questo e il fondamento su cui si regge il WTO è appunto quello di agevolare lo scambio internazionale a qualsiasi livello, consentendo al mondo di diventare un unico grande paese, in concreto come fosse un’unica economia. Se questo è il quadro vero dell’economia attuale, può diventare un luogo comune, ma superato, dire che una economia ristagna perché la domanda interna non si decide a correre. Se quella del risparmio eccessivo non è una interpretazione errata, è quanto meno superficiale. C’è sempre qualcuno al mondo disposto a consumare per te. Allora il problema è altro e, purtroppo, più complesso. L’etnologia e l’antropologia servono a poco come strumenti di indagine, anche se possono illuminare su alcune cause per quanto esse possano incidere su un fenomeno di ristagno, che è soprattutto economico e ha componenti non facilmente interpretabili. Non trascurerei un fenomeno poco appariscente: quello del decentramento di molte produzioni, che le imprese giapponesi hanno realizzato nel vasto mondo asiatico e anche oltre; qualcosa che ha che fare con la globalizzazione, di cui si parla tanto anche a sproposito, mescolandovi egoismo nascosto dietro ipocriti paraventi di etiche, che non c’entrano niente anche se riempiono la bocca di benpensanti, di anime caritatevoli e ingenue, di predicatori e teologi, di marxisti delusi e neoliberisti balbuzienti. Se si decentrano le produzioni in altre aree, al paese d’origine restano i flussi finanziari e, allora, è poco probabile, che l’aumento della domanda interna serva a rilanciare produzioni che stanno altrove. Vuol dire che sono cambiati: economia, rapporti sociali, struttura del lavoro, flussi di reddito, ma che ancora non è cambiato coerentemente e adeguatamente il modello di vita. Vuol dire che bisogna cambiare anche i metodi di valutazione e di rilevazione del PIL; bisogna proporre nuovi criteri di creare e interpretare rapporti tra le varie entità economiche di un paese. Egoisticamente parlando e ponendoci dalla parte degli Stati Uniti: se i giapponesi smettono di risparmiare, potrebbe essere un guaio per gli americani, che non intendono smettere di consumare e non sarebbe da escludere che, se ciò accadesse, parte dei risparmi giapponesi in dollari si convertirebbero in risparmi giapponesi in yen, prima di convertirsi in consumo. Salirebbe lo yen, scenderebbe il dollaro. Per quanto, è difficile dirlo. Non sarebbe solo la fine della virtù del risparmio del giapponese ex samurai. Se accadrà, può darsi che la crisi giapponese sarà forse risolta, ma sarà cambiata anche la vita in Giappone. Difficilmente i giapponesi saranno più felici. La partita è sempre tra le due sponde Pacifico. L’Europa guarda l’Atlantico a Ovest della Normandia e resta indifferente, anche se il fenomeno la riguarda.

 

Fonte: articolo pubblicato anche in “ItaliaOggi” del 25 novembre 2000