Pubblicato sulla rivista “Bollettino Tributario d’Informazioni”, n. 13 del 15 luglio 2006

***

SOMMARIO: I. Ideologia dell’elusione – II. Storia recente dell’antielusione – III. «Economic substance» e «Businesse purpose» – IV. Il concetto di “elusione” nell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 – V. L’applicazione di elusione e di valide ragioni economiche da parte dell’Amministrazione.

 

***

I – Ideologia dell’elusione

 

La scuola di finanza propone in genere tre cause di riduzione del gettito fiscale: l’evasione, l’elusione e l’erosione; l’ultima dipende dalla legge, mentre le prime due dal comportamento del soggetto, che con l’evasione intende essere un non-contribuente o un contribuente parziale, mentre con l’elusione si propone di conseguire un risparmio di imposta, sfruttando situazioni alternative di per sé legittime. Il legislatore prevede per l’evasione regimi sanzionatori proporzionati alla natura e al valore economico dell’illecito, mentre per l’elusione, forse riconoscendo implicitamente che manca l’illiceità, si limita a consentire all’Amministrazione finanziaria il potere di ripristinare tipo e valore del carico tributario, quale sarebbe stato, se il contribuente avesse operato una scelta diversa. Con l’elusione l’Amministrazione sostituisce una situazione a un’altra, individuata con una “analisi di sensitività”, cioè un “what if?“. L’Amministrazione oppone alla scelta del contribuente una propria discrezionalità, ma tra i due comportamenti si inserisce come un cuneo il concetto del “risparmio d’imposta” ritenuto lecito, che rende ancor più difficile il già incerto confine dell’elusione.

Dal punto di vista del comportamento del soggetto attivo di imposta l’evasione non ha bisogno di interpretazioni, perché per affermare che un certo tributo doveva essere pagato e, invece, non è stato assolto, basta scoprire una situazione di fatto, trattandosi di un’indagine concreta, mentre l’elusione esige un raffinato processo interpretativo delle intenzioni del contribuente, che non si nasconde, ma si presenta in modo diverso; perciò, è ovvio che per l’Amministrazione sia più divertente l’elusione, anche a rischio di sprecare energie per ottenere risultati spesso risibili, quando addirittura in perdita, se si tiene conto dei costi dell’accertamento e del successivo contenzioso. Ma l’elusione è una moda destinata a durare, almeno finché i regimi di tassazione sono talmente pesanti da spingere il contribuente a ricercare un’attenuazione. Gli ordinamenti fiscali dei Paesi occidentali, sempre più orientati all’incremento del gettito, non considerano che elusione e corruzione sono figlie delle aliquote opprimenti, ma, di contro, il contribuente, preso nel gioco a nascondino, spesso non considera che, se per raggiungere un obiettivo possono esistere due strade: la diretta e l’indiretta; scegliendo quest’ultima, può ottenere un’attenuazione del carico fiscale; ammesso di uscirne fiscalmente indenne, ma subendo costi economici, spesso trascurati.

 

II – Storia recente dell’antielusione

 

Nel 1988, il Ministro delle Finanze presentò al Parlamento il d.d.l. 1301, il cui art. 31 divenne famoso come esempio di pasticcio all’italiana, perché nel primo comma dettava la seguente definizione; « Si ha elusione di tributo quando le parti pongono in essere uno o più atti giuridici tra loro collegati al fine di rendere applicabile una disciplina tributaria più favorevole di quella che specifiche norme impositive prevedono per la tassazione dei medesimi risultati economici che si possono ottenere con atti giuridici diversi da quelli posti in essere », mentre al secondo prevedeva un contraddittorio sistema di elenco degli atti ritenuti elusivi, lasciandone però l’individuazione alla discrezione del Ministero, cioè della stessa Amministrazione finanziaria, e con effetto retroattivo su atti già compiuti prima della inclusione nell’elenco [1]. La proposta, ritenuta scorretta, venne bocciata dal Parlamento, ma il Ministero ci riprovò altre due volte, finché nella Legge 408/1990 riuscì a infilare un art. 10 che, rinunciando a definizioni, come nell’abortito art. 31, rovesciò il concetto in negativo, nel senso che consentì: «… all’amministrazione finanziaria disconoscere ai fini fiscali… i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale poste in essere senza [2] valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta.» Sono note le tribolazioni applicative e processuali che la norma ha offerto per la presenza di tre locuzioni chiave: “valide ragioni economiche”, “ed allo scopo esclusivo”, “fraudolentemente”. Dopo modifiche dell’art. 10 e cogliendo l’occasione del D.Lgs. 358/1997 sulle “operazioni societarie”, che in effetti si prestano ad atti di ingegneria, fantasia o furberia dei contribuenti e dei loro inspiratori e consulenti, è sortito l’art. 37-bis incluso nel D.P.R. 600/1973, che sembra una fusione tra il vecchio art. 31 e il sostituito art. 10 [3].

Ma, nemmeno la soppressione dell’avverbio “fraudolentemente”, ritenuto per il suo pregnante significato penalistico un impedimento all’attività accertativa di natura amministrativo-tributaria, sembra aver appagato l’Amministrazione finanziaria, che ogni poco torna alla carica con la pretesa di inserire nell’ordinamento una “norma antielusiva generale”, del tipo del proposto e bocciato art. 31 del d.d.l. 1301/1988 [4].

Si giunge così all’art. 37-bis del DPR 600/1973, ma prima della sua interpretazione è opportuno richiamare le origini della locuzione “valide ragioni economiche”, di derivazione straniera.

 

 

III – “Economic substance” e “Business purpose

Nell’ordinamento tributario statunitense sono presenti norme incentrate su due concetti: il “business purpose” [5] e l'”economic substance” [6]. Si legge nel recente rapporto di una Commissione federale, che ha esaminato norme antielusive: « Queste regole sono dettate al fine di determinare il reddito imponibile con chiarezza sia per i contribuenti che per l’amministrazione finanziaria. In genere i contribuenti possono pianificare le loro operazioni tenendo in considerazione queste norme per determinare le conseguenze fiscali sul reddito derivanti dalle operazioni.

In aggiunta a queste norme, i giudici tributari hanno elaborato parecchie tesi che possono essere applicate per negare i benefici di operazioni motivate solo fiscalmente, nonostante l’operazione in sé possa soddisfare requisiti formali di una specifica norma fiscale…Sebbene queste tesi svolgano un ruolo importante nell’amministrazione del rapporto fiscale, il ricorso ad esse può essere visto come un’incoerenza con un obiettivo: “la norma fondamentale” del sistema di imposizione. Ciononostante, i giudici tributari hanno sostenuto talune tesi per negare benefici fiscali rinvenienti da certe operazioni. [ndt: si nota che l’operazione di contrasto al riconoscimento di certi benefici fiscali non si fonda solo sulla legge, ma dipende dall’interpretazione e dall’applicazione dei giudici, a conferma che l’astrattezza della norma non è sufficiente, ma esige l’intervento concreto dell’interprete giudiziale].

Una norma consuetudinaria applicata con crescente frequenza è la dottrina dell’ ‘economic substance’. In generale, questa nega i benefici fiscali scaturenti da operazioni dalle quali non deriva un significativo cambiamento nella posizione economica del contribuente a prescindere da una pretesa riduzione dell’imposta federale sul reddito [ndt: il rapporto rileva in nota che: Strettamente collegate con le tesi applicate dai giudici tributari (talvolta intercambiabili con la dottrina della ‘sostanza economica’) sono la dottrina della ‘operazione simulata” e la dottrina del ‘business purpose’] ».

Il Rapporto riassume così i significati delle due dottrine:

«Economic substanze doctrine. I giudici tributari generalmente negano i benefici fiscali se l’operazione che origina quei benefici è priva di sostanza economica… la legge fiscale richiede che le operazioni progettate abbiano una sostanza economica distinta dai benefici economici conseguiti solamente con la riduzione fiscale. La dottrina dell’ ‘economic substance’ diventa applicabile, e una soluzione giudiziale è garantita, laddove un contribuente pretende benefici fiscali, non voluti dal Congresso, impiegando operazioni prive di fine economico diverso dal risparmio d’imposta…

Business purpose doctrine. Un’altra dottrina sovrapposta (se non addirittura componente e parte) con la dottrina dell’economic substance è quella del ‘business purpose’, che è un’indagine soggettiva sulle motivazioni del contribuente – cioè: se il contribuente ha programmato l’operazione per realizzare un qualche fine di sottrarsi all’imposta. Nel fare questa valutazione, alcuni giudici tributari hanno suddiviso un’operazione, nella quale attività indipendenti da obiettivi di non tassazione sono state combinate con una indipendente questione avente solo obiettivi di aggiramento fiscale, al fine di non concedere i benefici fiscali di un’operazione composita ».

Si osserva che l’economic substance deve basarsi su profitti concreti e attuali e non “potenziali”. Infatti, prosegue il Rapporto:

«… alcuni giudici tributari hanno applicato la dottrina dell’ ‘economic substance’ per non concedere benefici fiscali a operazioni nelle quali un contribuente si era esposto a rischi e l’operazione aveva un profitto solo potenziale, concludendo che i rischi economici e il profitto potenziale erano insignificanti se paragonati ai benefici fiscali ».

 

È interessante anche ricordare che la Corte d’appello statunitense dell’11° “Circuit” di Atlanta (competente per: Alabama, Florida e Georgia) ha ritenuto che non c’è simulazione in operazioni strutturate per minimizzare il debito fiscale, se l’operazione rientra nel “business purpose“. Un contribuente non è privo di “business purpose” semplicemente perché manca una motivazione fiscale indipendente per una scelta tra percorsi differenti per realizzare un affare. Concludere diversamente – afferma la Corte – significherebbe proibire il tax planning [7]. Come a dire che il tax planning non si può proibire, perché non è illecito.

L’impostazione statunitense del problema si può così riassumere:

affinché non si verifichi elusione, con la conseguente negazione di risparmi d’imposta, l’operazione deve avere una motivazione economica reale e sostanziale (economic substance) e la relativa finalità (business purpose) deve realizzare un vantaggio economico a prescindere dal risparmio di imposta. Comunque il vantaggio economico, quando coesistente con il risparmio di imposta e superiore ad esso, deve essere attuale e non potenziale (Profit potential), il tutto nel rispetto della pianificazione fiscale (tax planning) normalmente lecita.

Si può fondatamente ritenere che la ratio della norma italiana possa essere meglio intesa tenendo presenti le esperienze straniere che stanno alla sua origine, ancorché l’interpretazione della norma anche tributaria del nostro ordinamento debba essere proposta con riferimento all’art. 12 delle “Disposizioni sulla legge in generale”[8].

IV – Il concetto di “elusione” nell’art. 37-bis del DPR 600/1973

La norma che qui interessa può essere così ridotta:

 

« Comma 1. Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.

Comma 2. L‘amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione.

Comma 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano a condizione che, nell’ambito del comportamento di cui al comma 2, siano utilizzate una o più delle seguenti operazioni: ….».

 

Nella norma sono topiche le parole e le locuzioni seguenti:

nel comma 1:”sono inopponibili”, “valide ragioni economiche” e “diretti ad”;

nel comma 2: “disconosce i vantaggi tributari conseguiti” ed “eluse”;

nel comma 3: “condizione” e “seguenti operazioni”.

Preliminarmente, si ricorda che i commi successivi, qui non riportati, trattano dell’attività dell’Amministrazione a seguito dell’inopponibilità delle operazioni del contribuente (locuzione del comma 1), che sono riconosciute valide per il diritto civile – e non poteva essere diversamente trattandosi di norma esclusivamente fiscale – ma sanate anche per il diritto tributario con la sostituzione del debito d’imposta iniziale con quello ritenuto corretto.

I tre commi riportati costituiscono il sistema della norma composta da:

una causa, che è nel comportamento elusivo del contribuente;

un’attività reattiva dell’Amministrazione (disconoscimento dei vantaggi dell’operazione);

una condizione: le operazioni che possono essere rifiutate dall’Amministrazione sono quelle tassativamente individuate ed elencate.

Si rileva che l’art. 37-bis è sì un sistema, ma non è l’unica norma antielusiva dell’ordinamento tributario [9] e non esaurisce nemmeno l’intero campo dei tributi diretti, ma riguarda solo le operazioni ivi elencate, il che consente di affermare, oltre alla congiunzione tra la causa (comma 1) e la condizione (comma 3), che non si tratta di una norma antielusiva di carattere generale. Che sia norma volta a contrastare l’elusione è nella definizione del comma 2 (locuzione: “eluse”). Inoltre, si osserva che il citato articolo non enuncia i soggetti destinatari e può sorgere il dubbio se, data la materia, si tratti di norma riservata ai soli imprenditori, individuali o associati. Però e nonostante la mancata enunciazione, la norma non può che essere rivolta a “chiunque”, perché inserita nel D.P.R. 600/1973, che riguarda tutti i soggetti passivi dei tributi diretti.

Dopo queste osservazioni preliminari, si devono esaminare le due locuzioni chiave del comma 1: “valide ragioni economiche” e “diretti ad”, in relazione alle quali si può fare un collegamento con la ratio dei concetti prima richiamati dell’economic substance e del business purpose. Innanzi tutto si deve rilevare che se, come già detto, il business purpose non è il fine di elusione, ma è la finalità dell’operazione nel suo complesso e se l’economic substance è l’esistenza di un sostanziale risultato economico attuale e concreto, talché esso risulti comunque preminente rispetto a risultati economici di risparmi di imposta, possiamo derivarne due conseguenze:

la locuzione “valide ragioni economiche” traduce compiutamente l’abbinamento dell’economic substance e del business purpose;

la locuzione “diretti ad” non poteva essere omessa dal legislatore, perché in mancanza sarebbe stato minato il sistema dell’art. 37-bis, che indica il fine elusivo del comportamento del contribuente. Ora, l’individuazione del fine non è una ricerca psicologica, discrezionale e opinabile, perché se così fosse non sarebbe possibile all’Amministrazione proporre una integrazione del carico tributario assolto elevandolo al maggior valore ritenuto corretto. Quindi, deve trattarsi di un’interpretazione oggettiva, concreta, che sostituisce un’operazione con un diverso modello. Si noti che questa attività propositiva dell’Amministrazione non si differenzia rispetto a quella di un qualsiasi interprete del contratto simulato (o dissimulato) in diritto civile.

Si deve ora analizzare il concetto “valide ragioni economiche”. L’aggettivo “valide” sembrerebbe pleonastico e ambiguo. Innanzitutto, perché, se esistono “ragioni economiche”, queste dovrebbero essere valide per definizione, posto che la ragione nel senso di ratio non potrebbe essere non valida, pena di non essere una ragione. Inoltre, “valide” per chi? Per il contribuente sono pur sempre valide, posto che le ha scelte, mentre per l’Amministrazione, che tende alla massimizzazione del gettito, non sono mai valide; ma, allora, “valide” deve essere inteso in senso oggettivo, o meglio, nel senso “comunemente inteso”, secondo una communis opinio, cioè una prassi corrente nel mondo degli affari. Per conservare l’aggettivo “valide” senza far dispetto alla logica bisogna sostituire il termine “ragioni” con “motivazioni”, anche perché questo è il senso inteso dal legislatore.

Le precisazioni qui espresse non sembrano idonee a dare risposta alla domanda di fondo:

se esistono “valide ragioni (motivazioni) economiche”, oggettivamente riconoscibili, sono da sole sufficienti a non consentire all’Amministrazione una costruzione interpretativa antielusiva, ancorché l’operazione concertata e attuata possa consentire un risparmio di imposta rispetto al debito fiscale, che sarebbe derivato da altro tipo di operazioni e anche se esistesse una componente del “diretti ad” (comma 1)?

Il sistema americano, che si regge sull’economic substance e sul business purpose darebbe risposta affermativa e ciò spiega il criterio della preminenza oggettiva in termini di valore del risultato economico dell’operazione rispetto al risparmio fiscale.

Il sistema italiano è più incerto anche per la formulazione della norma in termini negativi. Infatti, nell’art. 37-bis non si legge una locuzione del tipo “i fatti e i negozi, anche collegati tra loro devono avere valide ragioni economiche“, ma “…privi di valide ragioni economiche” e “diretti ad“. Sembra, a superficiale lettura, che il legislatore abbia voluto colpire solo le operazioni che siano prive di valide ragioni economiche “e” finalizzate al risparmio di imposta. Ma se la norma è letta in positivo e una valida, seppur non esclusiva, ragione economica esiste, quella “,” tra “valide ragioni economiche” e “diretti”, assume un valore congiuntivo; infatti, la norma va letta come se imponesse la coesistenza di “ragioni” e “finalità”.

Il primo comma dell’art. 37-bis è scritto al negativo e non si possono certo cambiare le espressioni letterali impiegate dal legislatore. Ma all’interprete, posto di fronte alla necessità di risalire alla voluntas legis, è consentito sottoporre la norma a una specie di prova di resistenza, che rientra, quanto meno indirettamente, nei canoni ermeneutici dell’art. 12 delle Preleggi. In questa esercitazione si può proporre l’ipotesi di come il legislatore avrebbe potuto scrivere la norma ove avesse scelto di esprimerla in termini positivi. Per esempio, avremmo potuto leggere: “Sono opponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, che abbiano valide ragioni economiche, non diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”. Si noti che, in questa ipotesi, il legislatore non avrebbe sentito alcuna necessità di aggiungere una formula relativa a finalità elusive, perché o inesistenti o comunque assorbite nelle valide ragioni economiche. Scrivere anche questa seconda condizione sarebbe stato insostenibile, perché contradictio in adiecto. Infatti, ipotizzare la coesistenza di valide ragioni economiche e mancanza di finalità elusive avrebbe comportato una vanificazione di fatto della prima condizione. Come si sarebbe potuto giustificare la constatazione dell’esistenza in ogni fattispecie di valide ragioni economiche e nel contempo la mancanza di finalità elusive? Tanto sarebbe valso affermare l’opponibilità all’Amministrazione finanziaria delle sole operazioni prive di finalità elusive, però aprendo il problema o dell’affidamento del loro definizione prima e della verifica poi alla sola discrezionalità dell’Amministrazione finanziaria oppure della loro definizione per legge. Ci si deve convincere che la coesistenza delle valide ragioni economiche con “con assenza di fini elusivi” è impossibile in una norma scritta al positivo, perché l’elusione finisce per cancellare le valide ragioni.

Invece, il legislatore ha scelto di scrivere la norma nei termini negativi che leggiamo nel primo comma dell’art. 37-bis; da qui la domanda se rispetto alla scrittura in positivo, la finalità elusiva contenuta nella locuzione “diretti ad aggirare…” poteva essere omessa. Sul piano logico si ritiene di sì. Basta constatare che se si afferma che sono inopponibili le operazioni prive di valide ragioni economiche non c’è più bisogno di aggiungere altro. Che importanza può avere la finalità recondita di perseguire fini elusivi, se già si cade nella inopponibilità a causa della mancanza di valide ragioni economiche? Infatti, operazioni prive di valide ragioni economiche possono abbinarsi a:

· assenza di finalità elusive: per esempio, l’operazione è frutto di errori e non porta a sottrazione di imposta, anzi può aver provocato un maggior onere. Che rilevanza può avere questa species per l’Amministrazione, se già l’operazione non le è opponibile per mancanza di valide ragioni economiche? Non sarebbe certo sostenibile un diritto al rimborso per il maggior onere derivato dall’errore.

· presenza di finalità elusive. La situazione non aggiungerebbe nulla alla inopponibilità già piena per effetto della mancanza di valide ragioni economiche.

Tuttavia il legislatore ha aggiunto questa seconda condizione e, poiché in diritto nessuna norma è inutiliter data, l’interprete ha il dovere di trovare una spiegazione.

La più semplice è che sia un caso di norma pleonastica.

La più complessa deve riferirsi alla mentalità del nostro legislatore tributario, che, quando scrive norme antielusive, sente il bisogno di entrare nella psicologia della violazione della norma tipica del diritto penale, salvo poi pentirsene come è accaduto con il famoso avverbio “fraudolentemente” dell’art. 10 della Legge 408/1990.

Poiché il legislatore ha scelto le espressioni che leggiamo nell’art. 37­-bis, comma 1, l’interpretazione qui proposta sembra ineccepibile. Tanto più, se si considera che è stato riconosciuto lecito il “risparmio d’imposta”, che non sia “mero” [10].

Se si ricordano i concetti richiamati nell’analisi del sistema americano e si dà all’art. 37-bis l’interpretazione grammaticale imposta dall’art. 12 delle Preleggi e si accetta che il risparmio d’imposta è lecito (vedi il tax planning), allora il parallelismo tra norma italiana e principi e dottrine statunitensi è sostenibile e così meglio si spiega la ratio dell’art. 37-bis, che non è originale.

Si deve anche osservare che il legislatore dell’art. 37-bis non è il solito soggetto metafisico, ma è il Ministero delle Finanze (ora dell’Economia), cioè l’Amministrazione finanziaria, che ha scritto la norma nel contesto del D.Lgs. 358/1997. Dopo questa constatazione diventa ancor meno giustificabile l’atteggiamento volto a cancellare con la mano sinistra ciò che ha scritto con la destra. Infatti le oscillazioni interpretative dell’Agenzia delle entrate sono frequenti e contraddittorie [11]. Vi sono casi in cui l’Amministrazione finanziaria sembra volere dare prova di ignorare persino le espressioni letterali dell’art. 37-bis, come nella Risoluzione 16 ottobre 2002, n. 327/E, per un caso di scissione in cui si legge: « Perché la fattispecie rientri nelle previsioni della norma antielusiva che trova fondamento nell’art. 37-bis del D.P.R. 600/73, occorre che si verifichino simultaneamente tre condizioni:

l’assenza di valide ragioni economiche

l’aggiramento di un obbligo o divieto previsto dall’ordinamento

il risparmio di imposta conseguente ».

Ora, si può osservare che:

la terza condizione è banale e comunque pleonastica, perché se non ci fosse risparmio di imposta, mancherebbe la materialità del fine elusivo;

l’avverbio “simultaneamente” è in contrasto con il comma 1 del citato articolo, che è riferito a operazioni “anche collegate tra loro”, cioè articolate anche nel tempo, poiché sarebbero di impossibile realizzazione, se le condizioni fossero simultanee. Sul punto, se l’Amministrazione fosse tenuta a dare spiegazioni delle proprie interpretazioni, potrebbe facilmente asserire che la simultaneità non è nelle operazioni, ma nell’intento, nel disegno che le ha suggerite; ma qui peccherebbe di psicologismo, perché spesso accade che un progetto preveda un certo numero di fasi od operazioni (simultaneità delle parti del progetto), ma successivamente, per fatti o convenienze sopravvenute vi si aggiunga una nuova operazione prima non prevista (si pensi alla cessione di partecipazioni). In questi casi – e possono essere numerosi – quel “simultaneamente” può diventare una difesa del presunto elusore, perché mancherebbe la contemporaneità; cioè il disegno originale non avrebbe previsto “tutto” e non potrebbe, perciò, essere elusivo.

Da alcuni studiosi è stato rilevato un collegamento tra il comma 1 dell’art. 37-bis e il successivo comma 8. Che possano esistere connessioni non si può negare. Però, si deve subito constatare che esse possono essere solo indirette e mediate, come avviene tra due species, che si collegano tra loro solo risalendo al genus. Infatti, mentre il comma 1 considera le operazioni inopponibili all’Amministrazione finanziaria non giustificate da valide ragioni economiche, il comma 8 rende possibile, alle condizioni ivi previste, l’inapplicabilità di norme antielusive. Sembrerebbe trattarsi persino di due species appartenenti a genus diversi, ma così non è e un collegamento tra i due commi esiste e non solo per il fatto di essere scritti nello stesso articolo. Se si considera che deduzioni, detrazioni e crediti d’imposta consentono sempre “riduzioni d’imposta”, legittimarle rendendo inapplicabili norme antielusive specifiche, allorché sia dimostrata l’inesistenza di effetti elusivi, come dispone il comma 8, implica che la ratio del comma 1, non è quella che si vuol affermare in termini più o meno espliciti in pareri del “Comitato antielusione” di una parità delle “valide ragioni economiche” e della “riduzione di imposte” o addirittura della prevalenza di quest’ultima condizione, bensì il fine elusivo, che non si realizza con il risparmio fiscale, ma con la mancanza di valide ragioni economiche dell’operazione più o meno articolata; come a dire che queste sono la causa e il risparmio l’effetto. Logica elementare vieta di rovesciare l’effetto in causa.

Si deve anche rilevare un aspetto fondamentale dell’art. 37-bis, che rischia di essere dimenticato per il dilagante ricorso al non obbligatorio interpello fiscale: l’onere della prova. È evidente che l’interpello sposta sull’interpellante l’onere della prova, ma in assenza di parere preventivo e a operazioni fatte, se l’Amministrazione vuol sostenere l’elusività delle operazioni deve esplicitare con adeguate motivazioni la propria accusa di elusione e deve anche prospettare quali altre operazioni il contribuente avrebbe dovuto porre in atto e dimostrare in termini di valore il risparmio d’imposta perpetrato a danno dell’Erario. Davanti a un giudice sereno e non influenzato da preconcetti, né garantisti né colpevolisti, l’Amministrazione non avrebbe compito facile, anche perché la locuzione del comma 1 dell’art. 37-bis “aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario”, fa un rinvio generico a riferimenti non sempre individuabili in un ordinamento costruito “su casi”. Se questo vale per l’art. 37-bis, non si deve escludere che l’onere della prova possa rovesciarsi a carico del contribuente in presenza di altre norme, in cui l’elusione è prevista per presunzione relativa, come, per esempio, nell’art. 110, comma 7, TUIR.

Però, prima di concludere sul punto, bisogna richiamare la caratteristica fondamentale dell’accertamento, che è lo strumento giuridico-amministrativo con cui l’Amministrazione finanziaria contrappone fattualmente una sua figura giuridica a quella ritenuta elusiva scelta dal contribuente. Questa caratteristica, comune a tutte le imposte, è la “motivazione”, talché si può affermare che è requisito fondamentale di ogni tipo di accertamento, la cui mancanza rende nullo l’atto stesso. Ma che vuol dire motivare? Significa premettere a una conclusione (la pretesa tributaria) un ragionamento logico chiaro seppur sintetico. Se si tratta di un fatto comportamentale o di una norma di legge, questi dovranno essere richiamati; se si tratta della interpretazione di un fenomeno o di una operazione, che possono assumere caratteristiche o connotati diversi da quelli sostenuti dal contribuente, l’accertamento dovrà esplicitarli e descriverli in modo non equivoco. La motivazione è appunto lo svolgimento di un processo logico, che ha la stessa struttura del sillogismo della sentenza: “poiché tu contribuente ti sei comportato nel modo x, mentre ad avviso di me, Amministrazione finanziaria, avresti dovuto comportarti in modo y, quindi (ecco l’equivalenza formale con il P.Q.M. della sentenza) io accerto la materia imponibile z.

Diventa ora chiaro che la “motivazione” non è la “prova”, anche se in molti casi la incorpora, come quando la sostanza è assorbita nella forma, direbbero i filosofi. Questa distinzione tra motivazione e prova sta alla base della sentenza 16.8.1993 n. 8685 [12], con cui la Corte di cassazione ha affermato che le prove possono essere date dall’Amministrazione finanziaria anche successivamente all’accertamento e nella sede contenziosa.

Detto questo, diventa inevitabile interpretare il Parere n. 23 dell’11.10.2004 del “Comitato consultivo per le norme antielusive”, che testualmente afferma: «…il paradigma legale dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 è tale per cui l’onere della dimostrazione della non elusività della condotta del contribuente – anche ove parcellizzato in una serie di atti e negozi diversi – è a carico del contribuente medesimo…». L’affermazione è corretta alla condizione di premettere che l’onere della prova della elusività, ammesso – ma è da dimostrare – che sia nel paradigma legale dell’art. 37-bis, richiede preliminarmente, perché parte integrante di quel paradigma legale e prescritta da un principio fondamentale dell’ordinamento, che sia l’Amministrazione finanziaria per prima a dare un’adeguata motivazione del proprio diverso avviso e ove la motivazione (forma), che deve esistere nell’atto come presupposto genetico a pena di nullità, non assorba anche la prova (sostanza), a darla successivamente.

 

V – L’applicazione di elusione e di valide ragioni economiche da parte dell’Amministrazione.

Il D.Lgs. 8.10.1997, n. 358, è corredato da una “Relazione ministeriale di accompagnamento”, che, per definizione e trattandosi di un decreto legislativo, rappresenta il pensiero dell’Amministrazione finanziaria. Nonostante le “relazioni” non siano espressamente citate tra le “Fonti del diritto” dell’art. 1 del codice civile, nel caso del decreto legislativo, in cui sono compenetrate, assumono importanza e comunque esprimono la ratio della norma e hanno significato per l’interprete. Nella fattispecie, anche per rilevare il grado di coerenza con l’applicazione, che l’Amministrazione stessa ne fa in sede applicativa, sono importanti i punti seguenti:

a) la motivazione della modificazione della norma precedente. La Relazione così si esprime: « Le principali difficoltà del citato art. 10 della legge 408 derivano comunque dall’avverbio “fraudolentemente” che, se interpretato nell’accezione penalistica del termine, svuoterebbe del tutto il contenuto della norma, dal mo­mento che l’elusione avviene nel rispetto della normativa vigente, senza che il contribuente si sottragga agli obbli­ghi di comunicazione e documentazione di volta in volta previsti (dichiarazione, emissione di documenti, loro con­servazione etc.). Il concetto di «fraudolenza» era quindi fonte di incertezza tra una concezione “penalistica”, so­stanzialmente vanificatrice della norma, e diverse conce­zioni tributaristiche (fatte proprie tra l’altro dal SECIT), su cui peraltro la norma non forniva sufficienti indicazio­ni. È stato quindi ritenuto opportuno sostituire l’avverbio «fraudolentemente» con espressioni che rendano meglio il nucleo essenziale dei comportamenti elusivi, cioè l’utiliz­zazione di scappatoie formalmente legittime allo scopo di aggirare regimi fiscali tipici, ottenendo vantaggi che ordinariamente il sistema non consente e indirettamente disapprova: è solo sotto questo particolare profilo che tali vantaggi possono ritenersi «indebiti», espressione che ­nel contesto di una norma antielusione e correlata con il resto di tali disposizioni- non può certo riferirsi a com­portamenti esplicitamente vietati dall’ordinamento, per contrastare i quali non c’è certo bisogno di norme di que­sto tipo ». Già questa spiegazione dovrebbe bastare a sostenere che, rimosso l’equivoco avverbio, la norma nel suo complesso sia adeguata a contrastare il fenomeno elusivo con soddisfazione del SECIT, che, invece, appagato non è! Non solo la Relazione è chiara sulla motivazione della rimozione, ma aggiunge anche la considerazione che i comportamenti degli elusori sono formalmente legittimi ma “indirettamente” riprovevoli e “solo” sotto questo profilo perseguirebbero vantaggi indebiti, mentre per altri comportamenti la norma antielusiva non servirebbe, già provvedendovi altre norme; affermazione questa che toglie ogni possibile confusione tra “elusione” e “frode fiscale” ».

b) Di seguito, la Relazione affronta il problema della distinzione tra elusione e “mero risparmio d’imposta”, che così definisce: «Si può fornire così un criterio tendenziale per distin­guere l’elusione rispetto al mero risparmio d’imposta; que­st’ultimo si verifica quando tra vari comportamenti posti dal sistema fiscale su un piano di pari dignità, il contri­buente adotta quello fiscalmente meno oneroso. Non c’è aggiramento fintanto che il contribuente si limita a sce­gliere tra due alternative che in modo strutturale e fisio­logico l’ordinamento gli mette a disposizione. Una diversa soluzione finirebbe per contrastare con un principio dif­fuso in tutti gli ordinamenti tributari dei paesi sviluppati, che consentono al contribuente di “regolare i propri affari nel modo fiscalmente meno oneroso”, e dove le norme antielusione scattano solo quando l’abuso di questa liber­tà dà luogo a manipolazioni, scappatoie e stratagemmi che – pur formalmente legali – finiscono per stravolgere con i principi del sistema. La norma antielusione non può quindi vietare la scel­ta tra una serie di possibili comportamenti cui il siste­ma fiscale attribuisce pari dignità di quello fiscalmente meno oneroso. Tra gli strumenti giuridici fungibili. ma che il sistema pone su un piano di sostanziale parità, si pensi ad esempio alla scelta sul tipo di società da utilizzare, alla scelta tra cedere aziende o cedere parte­cipazioni sociali, o al sistema di finanziamento basato su capitale proprio o di debito, sul periodo d’imposta in cui incassare proventi o pagare spese, fino ad arri­vare alla misura degli ammortamenti, degli accantona­menti e di tutte le altre valutazioni di bilancio, in cui è prima di tutto la norma a indicare margini di flessi­bilità da utilizzare anche a seconda della convenienza fiscale. In tutti questi casi la scelta della via fiscalmente meno onerosa non è implicitamente vietata dal sistema, ma al contrario esplicitamente o implicitamente consen­tita, e non è configurabile alcun aggiramento di obbli­ghi o divieti ».

c) Sulla considerazione di quale possa essere il regime fiscale alternativo a quello scelto dal presunto elusore, la Relazione così prosegue: «È di tutta evidenza che il controllo sull’elusività di un comportamento, in base ai parametri indicati nella nor­ma, consiste in un confronto oggettivo tra regimi fiscali, e non certo nella necessità di sindacare i comportamenti soggettivi dell’ «imprenditore medio» o «dell’uomo d’affari medio»; è del pari irrilevante, sotto questo profilo, valu­tare se un comportamento è economicamente «normale»o imprenditorialmente vantaggioso. Quest’ordine di valu­tazioni emergerà casomai per quanto riguarda il diverso profilo dell’esistenza di «valide ragioni economiche».

d) Ma di “valide ragioni economiche”, la Relazione non dà definizioni, limitandosi a evidenziare che: «…si è preferito mantenere la termino­logia presente nella legge 408, in quanto è inopportuno disorientare gli operatori con modifiche di portata esclu­sivamente lessicale; l’espressione «valide ragioni economiche» non sottintende infatti una «validità giuridica», che in questo contesto non avrebbe senso, ma una apprezza­bilità economico gestionale, ed è stato ritenuto opportuno mantenerla ».

e) Sulla discrezionalità concessa all’Amministrazione, la Relazione osserva che: « II passaggio dalla formula precedente (è «consentito all’amministrazione finanziaria») a quella attuale, in cui l’amministrazione «disconosce», serve a precisare che il «potere dell’amministrazione” è il consueto «potere – do­vere», in cui essa si trova quando si tratta di valutare fatti o interpretare norme. Naturalmente ciò non impedisce all’amministrazione di astenersi dall’applicare la norma antielusiva quando tale applicazione contrasti con il principi di buon andamento ed economicità dell’azione amministrativa, considerando ad esempio i casi in cui la differenza tra le imposte accertabili e quelle percepite a seguito dei comportamenti «disconoscibili” è trascurabi­le ».

f) Infine, sulla improponibilità di una definizione di norma generale dell’art. 37-bis, la Relazione chiarisce: «I primi due commi del nuovo articolo 37 ben potrebbero costituire una norma antielusiva generale, ma – con­formemente alle limitazioni della delega e alla sfera ap­plicativa del precedente articolo l0 della legge 408 – è sta­to previsto che essi scattino solo se il contribuente ha uti­lizzato una delle operazioni specifiche indicate al comma 3. Tale comma espunge le figure giuridicamente ibride della concentrazione e dello scorporo, e ripristina il riferimento alle fusioni e alle scissioni, troppo frettolosamen­te eliminate quando fu esclusa la rilevanza fiscale del di­savanzo, come se non esistessero altre forme di elusione cui possono prestarsi questi istituti ».

 

Come si è già precisato, il punto focale di questa analisi è la risposta alla domanda: se basti la constatazione dell’esistenza di “valide ragioni economiche” per rendere superata ogni indagine sull’esistenza di un risparmio di imposta. La risposta desumibile dalla Relazione sembra sicuramente positiva, poiché diversamente non avrebbe senso l’enfasi posta sulla differenza con il “risparmio d’imposta”, che è “mero” quando è “solo”, cosicché questo effetto definisce una causa priva di “valide ragioni economiche” e costituita, invece, unicamente dal “risparmio”, che non è una ragione economica, ma, appunto, un mero profitto fiscale. Significativo, al riguardo, è il punto della Relazione governativa sopra riportato sub b), secondo cui “le norme antielusione scattano solo quando l’abuso di questa liber­tà dà luogo a manipolazioni, scappatoie e stratagemmi“, da cui si deduce implicitamente che se le “ragioni” dell’operazione sono “economicamente valide”, le manipolazioni non possono avere rilevanza, perché assorbite nel diritto del contribuente di “regolare i propri affari nel modo fiscalmente meno oneroso”, escludendo dal “risparmio d’imposta” il dubbio del “mero” [13].

Ma l’Amministrazione ha ritenuto di affermare un criterio che non esiste nella norma: “permanenza o no dei beni nel regime d’impresa” [14], criterio contraddittorio con la constatazione che l’art. 37-bis riguarda anche le persone fisiche, i cui beni non possono appartenere per definizione a un “regime d’impresa” [15]. L’origine del principio, che può rappresentare un esempio di rischio nella generalizzazione di fattispecie, è spiegabile con un caso sottoposto nell’interpello, in cui traspariva l’intento di operare una scissione con creazione di una nuova società-contenitore, in cui immettere beni, la cui cessione in capo alla società scindenda avrebbe comportato una imposizione delle plusvalenze dei beni di impresa ad aliquota superiore a quella invece sostenuta dai soci della società beneficiaria nel successivo momento di cessione delle partecipazioni. La conclusione, a cui è pervenuta l’Amministrazione, di per sé corretta e condivisibile, ben poteva trovare una motivazione assorbente nella evidenza di mancanza di valide ragioni economiche dell’intera operazione e a questa conclusione sarebbe pervenuto anche il fisco americano con le dottrine dell’economic substance e del business purpose. Invece, ci si deve chiedere quale sarebbe una corretta risposta, se la fattispecie esaminata fosse integrata con un successivo aumento di capitale sottoscritto da nuovi soci in grado di finanziare iniziative di sviluppo immobiliare dei beni oggetto di scissione e, solo dopo tale aumento i vecchi soci cedessero le loro partecipazioni. In questa più complessa, ma anche frequente operazione, non si potrebbe negare l’esistenza di valide ragioni economiche con forza assorbente di eventuali risparmi di imposta, a prescindere dal principio, che, però, principio non può essere, del permanere o no dei beni nel regime d’impresa.

L’analisi dei molti pareri e risoluzioni dell’Amministrazione in materia si tradurrebbe in un inventario parziale e, pur tra contraddizioni, ripetitivo. Però, per il fine di questa nota, è importante citare il Parere n. 6 del 10 aprile 2003, perché sembra affermare la natura di “causa assorbente” delle “valide ragioni economiche”. Il caso esaminato riguardava la cessione di partecipazioni da parte di persone fisiche non esercenti attività d’impresa a una nuova società dagli stessi detenuta, che avrebbe conseguito il controllo della società emittente delle azioni da cedere a un corrispettivo pari “al valore fiscalmente riconosciuto”, ma inferiore sia al corrispondente valore del patrimonio netto e sia al valore corrente di mercato e, inoltre, con una dilazione di pagamento a tempo indeterminato. Il Comitato ha espresso parere negativo per “assenza di valide ragioni economiche”, tenendo conto che:

a) « la normativa sui capital gains…prevede la tassabilità, in capo alle persone fisiche, delle plusvalenze realizzate a seguito di cessione a titolo oneroso… con modalità di determinazione della plusvalenza imponibile ex art. 82 del Tuir;

b) l’operazione di cessione di partecipazioni non è di per sé elusiva; lo è il suo impiego nell’ambito di un disegno non sorretto da valide ragioni economiche e diretto esclusivamente all’ottenimento di un risultato disapprovato dai principi ispiratori dell’ordinamento giuridico tributario;

c) l’intendimento dei soci di cedere le proprie partecipazioni ad un prezzo pari al costo fiscalmente riconosciuto di per sé non è sindacabile dall’Amministrazione finanziaria in quanto la determinazione del corrispettivo nell’ambito della libera contrattazione tra le parti risponde ai principi di una piena libertà decisionale [16];

d) il vantaggio fiscale non deriva necessariamente dalla singola operazione di scissione ma dalla realizzazione di una pluralità di atti fra loro coordinati tesi ad utilizzare scappatoie formalmente legittime ai fine di conseguire risparmi d’imposta indirettamente disapprovati dal sistema;

e) le ragioni economiche non appaiono del tutto apprezzabili da un punto di vista economico-gestionale poiché il raggiungimento del controllo della società partecipata poteva essere agevolmente conseguito anche tramite patti tra soci senza procedere alla cessione delle quota;

f) … dall’aggiramento dell’art. 9 del Tuir deriverebbe un indebito vantaggio tributario identificabile nella mancata emersione di una plusvalenza tassabile in capo alle persone fisiche…»

Non interessa questa nota la conclusione negativa del parere, ma l’iter logico e le locuzioni sottolineate nel testo riportato e precisamente:

i) nella lettera b) l’avverbio “esclusivamente” sembra confermare la tesi che, a contrariis, se fossero state ravvisate valide ragioni economiche, queste sarebbero state assorbenti, pur parti di un “disegno” non privo di vantaggi fiscali;

ii) nella lettera d) i risparmi di imposta sono disapprovati dal sistema solo “indirettamente”, e ciò comporta l’incertezza dell’opera di estrazione di un principio generale dall’ordinamento;

iii) nella lettera e), la sostituibilità di un’operazione con “patti tra soci”, è del tutto arbitraria, perché non si capisce quali possano essere. “Patti parasociali”? Ma questi hanno durata limitata nel tempo e non possono essere alternativi a una operazione societaria, che, invece, crea una base sociale permanente. Quindi il Comitato non ha saputo offrire la prova contraria di alternatività tra operazioni, con la conseguenza che l’intero costrutto è travolto e con esso la denegatoria di esistenza di “valide ragioni economiche”.

La conclusione è che l’Amministrazione o il Comitato non sembrano aver raggiunto una soddisfacente certezza di principi interpretativi e non serve considerare che, trattandosi di operazioni da esaminare nel merito, si debba avere preoccupazione unicamente del risultato. Forse è mancato, sin qui, il coraggio di affermazioni preliminari derivabili da una interpretazione della norma secondo i principi dell’art. 12 delle Preleggi, affermazioni che devono precedere l’esame del singolo caso, se non si vuol ridurre tutto a un’analisi su aspetti psicologici o intenzionali.

Merita citazione anche il Parere del Comitato antielusivo 19 gennaio 2005, n. 2, che non pare del tutto coerente con il n. 6/2003 prima citato. Le generalizzazioni in materia non sono scevre di rischi, soprattutto se si considera che sembra in atto uno scivolamento strisciante verso interpretazioni più restrittive di quelle consentite dalla ratio delle legge. Infatti, il Parare n. 2 non risulta del tutto chiaro e in alcuni passaggi sembra affermare che le due condizioni “valide ragioni economiche” e “riduzioni d’imposta” siano pariordinate. Si deve anche osservare che l’art. 37-bis, allorché considera “gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro” non pone la condizione della contestualità e nemmeno della loro realizzazione nello stesso esercizio. A parte che tale delimitazione sarebbe stata priva di logica, ne deriva che l’apprezzamento dell’arco temporale è lasciato alla valutazione di merito caso per caso. Da qui una considerazione fondamentale: la norma non può avere penalizzato le imprese italiane fino all’autolesionismo. Ora, è facile concludere che nell’immediato può darsi che un’operazione straordinaria di ristrutturazione societaria possa consentire un risparmio fiscale, ma, se esistono valide ragioni economiche, la razionalizzazione porterà un miglioramento del risultato economico complessivo, rispetto al precedente, che incrementerà per conseguenza il reddito imponibile fiscale. Questa considerazione evidenzia che è l’esistenza di valide ragioni economiche ad avere un’importanza preminente e assorbente anche nel comma 1 dell’art. 37-bis, perché la sua mancanza non realizzerebbe il risultato finale e stabile di un incremento dell’imponibile e non una riduzione dell’imposta.

Si deve segnalare che il problema della definizione del concetto di “valide ragioni economiche” è stato trattato dalla “Norma di comportamento in materia tributaria n. 147” della Associazione Dottori Commercialisti di Milano, che ha sostenuto la non coerenza con la giurisprudenza comunitaria della esclusività del business purpose. Secondo la citata norma questo principio non potrebbe essere assunto come unico e predeterminato, potendo le “valide ragioni economiche” essere ravvisate anche in altri. Pertanto, il lettore di questa nota non deve ritenerla in contrasto con la “Norma 147”, con cui, eventualmente, si integra.

 

Pietro Bonazza


[1] Si veda di Mariano Scarlata Fazio, La elusione, in Boll. Trib., 1989, pag. 447.

[2] La negatività è nella preposizione “senza”, che nel successivo art. 37-bis diventerà “privi”.

[3] P. Bonazza, Elusione, valide ragioni economiche e principio di proporzionalità, in Boll. Trib., 2002, n. 4.

[4] Si veda la relazione del Secit per l’anno 1998. Favorevole all’introduzione di una “norma antielusiva generale” è Franco Gallo, già Ministro delle finanze del Governo Ciampi, in un’intervista rilasciata a “ItaliaOggi” (C. Morelli, Gallo: la soluzione è una clausola generale”, 30.10.1995), L’intervistato propone un paragone con Francia, Olanda e Germania, i cui sistemi fiscali dispongono di una norma generale, ma dimentica che le amministrazioni finanziarie di quei Paesi hanno anche un rapporto diverso con il contribuente e dimentica ancora che con il D.P.R. 917/1986 il legislatore ha scelto un “diritto casistica” e non definitorio, proprio per togliere discrezionalità all’Amministrazione, date le esperienze precedenti. Sembra incoerente innestare una norma generale in un sistema definito “per casi”. Sarebbe più coerente cambiare l’intero sistema. Ma l’intervistato, alla domanda: «Ma il concetto di fraudolenza al quale sta pensando dovrebbe presupporre, come nel campo penale, il raggiro e l’artificio per conseguire risultati non consentiti?» dà la seguente affermazione:« No. Il concetto di fraudolenza al quale mi riferisco è prettamente civilistico: riguarda l’abuso del diritto nel senso mutuato all’art. 1344. Ritengo che sarebbe utile recuperare questo articolo, che sancisce la nullità del negozio stipulato per eludere norme imperative, come norma di chiusura del sistema. » Questa risposta si commenta da sé ed è qui riportata, nonostante il problema del “fraudolentemente” sia stato poi superato dal D.Lgs. 358/1997, che ha inserito nel D.P.R. 600/1973, l’art. 37-bis, perché significativa nel negare che la “frode” possa non essere un delitto regolato dal diritto penale e, inoltre, perché l’art. 1344 cod. civ. non può essere innestato nel sistema fiscale, data la sua natura privatistica e perché l’elusione fiscale non può rendere nulli i contratti che sono invece conformi alla legge civile. Il significato di elusione sta proprio nel far ricorso a un contratto lecito, che il Fisco non può annullare, ma, semmai, può rifiutarne gli effetti e solo quelli fiscali. Quindi, il Gallo cade in insanabile contraddizione e qui se ne dà rilievo proprio perché è facile che qualcuno ci provi con una proposta normativa di tal genere. Sembra, invece, più realistica la critica espressa da Furio Bosello, Un Fisco più razionale taglia le ali all’elusione, in “Il Sole-24 ORE”, 3.11.1995, pag. 17, in cui l’autore, diversamente dal Gallo, constata che il maggior spazio che l’elusione trova in Italia, rispetto a Olanda, Gran Bretagna e Germania, dipende dagli errori del sistema normativo e dagli errori della sua applicazione, a cui aggiungerei la certezza del contribuente italiano che, a cadenze periodiche e a prescindere dai cambiamenti di governo, un condono metterà a posto anche le elusioni.

[5] La locuzione ” business purpose” non è frequentemente citata nella pubblicistica italiana. Si veda, invece, la norma ADC n. 147 e l’articolo di G. Tremonti, Autonomia contrattuale e normativa tributaria: il problema dell’elusione tributaria, pubblicato in Rivista di diritto finanziario, 1986, I, pag. 369.

[6] Una formula analoga è implicitamente contenuta negli artt. 2423 e 2423-bis cod. civ., in tema di “Redazione del bilancio”, che il “Principio contabile nazionale n. 11, qualifica come “postulati” della “prevalenza degli aspetti sostanziali su quelli formali” (substance over form and materiality).

[7] (Corporate Tax United Parcel Service of America, Inc. v. Commissioner of Internal Revenue
N.00-12720-E U.S. Court of Appeals for the Eleventh Circuit. The court held that it is not a sham for business transactions to be structured to minimize tax liability if the transaction has a  “business purpose.” A taxpayer does not lack “business purpose” simply because there is no tax-independent reason for a taxpayer to choose between different ways of conducting its business. To conclude otherwise, the Court said, would prohibit tax planning.
Decision 6/20/01.

[8] L’ipotesi che alle norme tributarie si applichino canoni interpretativi speciali non è, a mio avviso, sostenibile. Confortano questo convincimento: E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 1987, XI; G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1984, pag. 72, § 20; G. Tremonti nell’articolo citato in nota n. 5, che bolla come “superstiziosa” la teoria che le norme tributarie siano diverse da quelle ordinarie e che pertanto si debbano riservare a esse canoni interpretativi speciali. Nonostante questa communis opinio, si legge in “ItaliaOggi”, 25.6.2002, pag. 20, in articolo Cessione dei crediti, resta il rischio: « Il giudice tributario. Che le circolari ministeriali come pure le risoluzioni o le note non abbiano alcun vincolo esterno all’amministrazione è un principio di diritto inattaccabile. Tuttavia, a volte, le stesse vengono scambiate per dichiarazioni di volontà normativa ed equiparate al rango di norme primarie. Le tecniche interpretative della norma giuridica, poi sono diverse ». A parte la considerazione che l’interpretazione della norma non è una “tecnica”, ma un’ermeneutica, alla norma tributaria non può essere applicata una “tecnica diversa”, se non altro perché per essa non è stato scritta nell’ordinamento una norma speciale in deroga all’art. 12 delle Preleggi

[9] Per esempio, si vedano: per la legge di registro art. 20, DPR 26.4.1986, n. 131 (gli atti si valutano per le effettive conseguenze economiche); per l’IVA l’art. 13, comma 2, lett. c) e le altre norme che si riferiscono al “valore normale” nel DPR 633/1972, oltre agli articoli del DPR 441/1997, in cui è stato trasfuso l’art. 53 del DPR 633/1972; per i tributi diretti l’art. 76, comma 5 del Tir 917/1986 (rinumerato 110 dal D.Lgs. 12.12.2003, n. 344), che, secondo la Corte di cassazione, in sentenza 24.7.2002, n. 10802, è norma antielusiva generale e, nonostante la norma sia espressamente prevista per il solo transfert pricing esterno, avrebbe valenza anche per trasferimenti di partecipazioni all’interno. Le motivazioni della sentenza non sono concincenti: si veda la critica di G. Ripa, Ecco la norma antielusiva generale, in “ItaliaOggi”, 1.8.2002, pag. 29.

[10] vedi “Relazione ministeriale di accompagnamento” al D.Lgs. 8.10.1997, n. 358.

[11] La critica di pendolarismo non è solo mia. Scrive Giuseppe Ripa, in “ItaliaOggi”, 30 agosto 2000, pag. 26, a proposito dell’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria delle “valide ragioni economiche”: Il fatto è che la fenomenologia della locuzione in questione sembra tutt’altro che univoca; proprio la lettura delle interpretazioni fornite dal comitato consultivo alle operazioni proposte dai contribuenti lascia intendere una linea di condotta alquanto vaga e difficilmente inquadrabile in concetti di ordine generale. Accade infatti che, anche di fronte a singole iniziative di per sé identiche, il giudizio si capovolga nell’analisi generale della fattispecie, sposando una linea rigida piuttosto che una più permissiva in funzione dei risultati concreti che l’atteggiamento potrebbe avere in termini di gettito. Vale a dire che l’impressione forte che si ha è che l’amministrazione non provi affatto a chiarire il concetto di valide ragioni economiche, sfruttando invece la discrezionalità messa a sua disposizione dalla normativa per chiudere le porte ai casi più controversi o, meglio, a quelli che determinano una cospicua perdita di gettito per l’erario ripetto alle ordinarie procedure .

[12] in Boll. Trib., 1994, n. 11, pag. 885.

[13] Nel Parere 28.7.2005, n. 17, il “Comitato consultivo antielusione” sembra confermare che l’esistenza di “valide ragioni economiche” costituisca condizione pregiudiziale. Il caso esaminato dal Comitato riguardava un’operazione di scissione non proporzionale al fine di realizzare il recesso di un socio per superare una situazione di conflittualità. La prospettata operazione è stata ritenuta elusiva per mancanza di “valide ragioni economiche”, considerata l’assenza di nuove strategie imprenditoriali e la mancanza di prospettive d’ingresso di nuovi capitali e nuovi soci.

[14] Il principio è enunciato nel Parere del Comitato Consultivo per le norme antielusive, n. 6 del 11 maggio 2004, in cui, per una operazione di scissione che prevede il distacco in società di nuova costituzione di un’immobile con cambio di destinazione da strumentale a bene da locare, mantenendo il resto dell’attività nella società originaria, da passare ai figli dei soci, è stata riconosciuta la presenza di “valide ragioni economiche” a condizione che: «…non costituisca la prima fase di un disegno unitario volto a sottrarre il fabbricato al regime fiscale proprio dei beni d’impresa».

[15] Pur trattandosi di conclusione ovvia, è interessante la conferma di D. Liburdi, Le cessioni sottocosto sono elusive, in “ItaliaOggi”, 3.5.2003, pag. 25, che, a proposito dell’art. 37-bis, scrive: «…la norma stessa tratta anche di tutte quelle ipotesi in cui intervengono fattispecie relative a partecipazioni o strumenti finanziari indicati nell’art. 81 del Testo unico delle imposte sui redditi ».

[16] Pur essendo un obiter dictum, è importante che il Comitato affermi la libertà contrattuale insindacabile da parte dell’Amministrazione, in contrasto in linea di principio con la tesi dell’interferenza sostenuta dalla Cassazione in alcune recenti sentenze.