I filosofi del diritto affermano il principio che un’economia di libero mercato si distingue dalle altre, se in essa e per essa si afferma e si difende il principio della libera proprietà dei mezzi di produzione. I pratici interpretano il principio sostenendo che per l’imprenditore si concretizza nella libertà di scegliere che cosa, come e quando fare. Questa libertà è solo la seconda faccia della moneta, che indica nella prima il rischio, tutto personale, di sbagliare scelte e risultati. A memoria d’uomo non si è mai visto una moneta a una sola faccia, anche se una delle due fosse senza effigie; anzi senza effigie significa il massimo della libertà. Per fare un esempio: un imprenditore che dopo aver venduto una merce o fornito un servizio non riesce a riscuotere il credito, deve essere libero di rinunciare alla riscossione invece di dissanguarsi ulteriormente in inutili spese legali. Queste valutazioni le può assumere solo lo sfortunato creditore, perché non esiste nessun Grande Fratello, a meno di vivere in uno stato di socialismo reale, che possa sostituirsi con valutazioni diverse. Tra le tante regole dell’imprenditore c’è anche quella di “saper perdere”, mentre lo Stato, sin qui, è stato capace solo di perdere al posto dei grandi imprenditori contigui ai regimi, che hanno applicato e continuano ad applicare a man bassa il principio di “privatizzare gli utili e irizzare le perdite” Dietro lo schermo dell’elusione e delle valide ragioni economiche, che sono la ratio perversa dell’art. 37 bis del DPR 600/1973, sta prendendo corpo un moloc, di cui gli allegri imprenditori, che hanno venduto la loro libertà per un piatto di lenticchie cotte con foglie di “ulivo”, dovranno prima o poi pentirsi. Già anni fa, una circolare (1 agosto 1987, n. 19/9/015), proprio in tema di perdite sui crediti, aveva sconvolto precedenti più logiche interpretazioni. Chi si illudeva di aver visto il fondo deve ricredersi, anche questa volta, leggendo la sentenza 6 ottobre 2000, n. 13181, con cui la Cassazione, sempre più Suprema, ha negato, in pratica, la libertà di rinunciare a un credito sofferente. Lasciamo ai giuristi discettare sul “quinci e il quindi” di quella sentenza. Il problema è più complesso e tocca proprio la sfera della libertà dell’imprenditore. Non vorrei che le elucubrazioni ermeneutiche riducessero in un angolo il significato politico e ideologico, che sta dietro quella pronuncia. Questo “dialogo” si attribuisce la più povera delle funzioni: “memento”. Viene istintivo pensare alla anoressia. Si incomincia a mangiare un poco di meno e “un poco dietro l’altro” riduce il fisico a scheletro. Così è della libertà, che nel termine assoluto è un bluff e si riempie di concretezza solo se è intesa come somma di singole libertà. Se ne tolgono un poco ogni giorno, alla fine che ti resta? Quanto al fatto che l’operazione di sottrazione venga dall’alto, dal supremo, non basta a convincerti che la giustizia è salva e la libertà è garantita. Il principio è sempre lo stesso e trova quotidiane conferme: è la politica che viene prima del diritto e prima dell’economia. Ma la politica è solo un veleno, se non affonda le sue radici nell’idea che la libertà è il bene terreno più importante per l’uomo.