Sarebbe più appropriato dire: la storia delle tasse, almeno per chi ritiene che siano un tutt’uno. E, in effetti, da molti punti di vista lo sono fino all’estremo limite della storia della ribellione. Sul tema è facile cadere in equivoco.

Basta supporre che lo stato non sia in grado di garantire l’incolumità fisica dei cittadini contro malfattori e criminali. I cittadini dovrebbero dividersi in gruppi e ognuno contribuire a pagare una vigilanza privata o dei mercenari. Che cosa sarebbe quel costo se non un’autotassazione, la conseguenza economica di una scelta volontaria? Ma è certo che ogni gruppo vorrebbe scegliere, a parità di costi, i difensori migliori e che danno più affidamento, come nei film I sette samurai e I magnifici sette. Ma se lo stato, con il pretesto della propria funzione istituzionale, assumesse d’imperio la difesa dei cittadini fino a vietare le “ronde volontarie, sarebbe giusto pagare una tassa per il servizio, ma di contro, sarebbe altrettanto giusto sottoporre l’imposizione a un’analisi costi-benefici e pretendere una protezione almeno efficiente come quello di un servizio privato. Si può generalizzare il concetto ad altri servizi pubblici: scuola, sanità, difesa, ecc. e sempre fermo il dovere dello stato: di pagare onorevolmente i suoi agenti onesti e preparati e meno i corrotti e gli ignoranti; di prestare i migliori servizi e soddisfare la pretesa dei cittadini di ottenerli; il tutto secondo valori economici e lasciando perdere il concetto di patria, che, purtroppo, non ha più cittadinanza, dopo il degrado della democrazia in demagogia.

Forse i nostri governanti, premier in testa, nonostante le loro decorazioni accademiche più numerose di mostrine e medaglie che fregiano il largo petto di un generale dell’Armata rossa, non conoscono la storia della tassazione, però, ammettiamolo francamente, in quanto a “lacrimuccia facile” non scherzano. Più di tutti, una ministressa, che porta in tasca un lacrimatoio ben fornito e fa venire alla mente quel senatore (a vita, ma ormai bisognerebbe dire “a morte”), che Dio misericordioso chiamò a sé, e che quando faceva il magistrato condannava a morte e poi andava in carcere a portare i conforti al condannato. Meritò l’Oscar dell’ipocrisia, non quello della giustizia, nonostante si proclamasse un devoto alla (o della?) Madonna, che, per nostra fortuna, figli e figlie se li sceglie da sé.

Non fu mai ministro delle finanze, se no i condannati a morte per evasione fiscale se la sarebbero vista brutta pur dopo l’abolizione della pena capitale.

Torniamo alle tasse, che un cretino, pure lui professore di economia, requiescat, definì “belle” pochi anni fa e che la furbizia dei suoi estimatori evitò di riprodurre sulla lapide, non tanto per condivisione dell’infelice affermazione quanto per timore che qualche rivoltoso un po’ manesco si esercitasse, bomboletta in mano, in atti di ludibrio.

Abbiamo prima affermato che pagare le tasse non è affatto “bello” (il compianto confondeva l’estetica con l’economia), però può essere giusto. È questione di misura e qualità. Si pensi che l’imposta per tanti secoli si è chiamata anche “decima”, perché era la decima parte del prodotto, cioè il 10% e quando fu superato quel limite si sono scatenate rivolte, insurrezioni, rivoluzioni. Ma a tirare troppo, la corda può spezzarsi: e, allora, ricordiamo un qualche noto precedente storico.

Il Confuciaesimo, già sei secoli a.C., aveva fissato il 10% come aliquota massima di tassazione e, quando qualche imperatore superò il limite, furono disastri per lo stesso erario.

Nello stesso periodo l’Atene di Pericle esentava dalle tasse gli aventi diritto alla cittadinanza e Atene prosperò, mentre l’esoso impero persiano fu offuscato dalle città-stato greche.

L’impero romano iniziò la sua decadenza già nel secondo secolo d.C. quando la tassazione dei piccoli agricoltori divenne insopportabile e la piccola proprietà terriera altamente produttiva venne soppiantata dal latifondo, lasciando deserte le campagne e improduttiva la terra.

La molla che fece scattare la rivoluzione americana e la nascita degli Stati Uniti indipendenti fu la rivolta fiscale contro le pretese del governo di Londra di tartassare i coloni americani e i loro commerci.

Più vicino a noi il linciaggio di Giuseppe Prina a furor di popolo milanese, che il 20 aprile 1814 massacrò il tirannico ministro agente fiscale di Napoleone.

Constatiamo che con le requisizioni fiscali dei nostri giorni ci sarebbero motivi per atti di ribellione non certo pacifici; ciononostante la gente paga, mugugnando ma paga. Siamo diventati tutti buoni e bravi cittadini? No! È lo stato che è diventato più “cattivo”!

La storia si allarga al diritto di tirannicidio, in cui non iscriveremmo certo gli indignados indigeni dei nostri giorni, che sono solo manifestanti di gruppi anarcoidi e, probabilmente, le tasse non le pagano. L’insurrezione fiscale o è manifestazione di popolo o è chiassata che lascia le cose al punto di partenza. Ricordiamo i giudizi acuti e sempre attuali di Tommaso d’Aquino sul tirannicidio. Oggi non c’è bisogno di arrivare a tanto, perché esiste la “cabina elettorale” e i “tassabella” li possiamo ancora sostituire, magari dopo averli seppelliti di ironiche risate.

Memento a chi è arrivato all’ultimo momento a “salvare la patria”.