Ho memoria del mio professore di ginnastica: diplomato alla Farnesina, ufficiale dell’esercito in Africa, ragazzo di Bir el Gobi, sopravvissuto per miracolo ai combattimenti nel deserto, prigioniero degli americani e internato in un campo di prigionia, decorato con medaglia d’argento, di cui portava, senza ostentazione, ma con orgoglio sul bavero della giacca, il nastrino blu. Un giorno disse a noi allievi: sbarcato a Napoli di ritorno dalla prigionia nel 1946 scoprii che la gente del porto diceva che gli italiani avevano vinto la guerra, con mio stupore, perché credevo di averla persa!

Caro buon Silvio! Non sapevi che nella memoria del tuo stupore era racchiusa la ragione per cui ancor oggi dopo sessant’anni il popolo italiano continua a essere diviso in due. Nessun Presidente della Repubblica, pur sventolando il tricolore a ogni folata di celebrazione, ha fatto un gesto per una vera pacificazione. Ma neppure la Chiesa ha fatto alcunché, benedicendo solo alcuni, lasciando gli altri a seppellire i propri morti e persino dimenticando i propri massacrati in abito talare. Ma se il popolo è diviso in due, io non posso appartenere a un mezzo popolo. E allora, io sono il mio popolo, ma un popolo fatto da uno solo non può esistere. Sono esiliato persino dentro il mio esilio.