EVOLUZIONE DELL’IMPRESA PER ACCELERATE DINAMICHE IN UN MONDO GLOBALIZZATO

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(articolo pubblicato in “Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale”, anno 2003, n. 9/10)

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1) Precisazioni terminologiche

a) Il termine “globalizzazione”, o “mondializzazione”, come preferisce il “Gruppo di Lisbona” [1], appartiene all’economia politica. Questa disciplina, quando esamina un problema, non si limita all’analisi di aspetti positivi, ma considera anche i negativi, primari e secondari, cioè le “esternalità”, nel senso in cui le ha intese Fred Hirsch nel classico I limiti sociali allo sviluppo. L’economia non è disciplina dell’assoluto, ma del relativo; non del breve, ma del medio e lungo periodo; non della statica, ma della dinamica. Per esempio, se analizza il problema della “massimizzazione del profitto”, ha cura di considerare quel massimo nel tempo e nella sua ripetitività e noi sappiamo che può durare e può ripetersi solo ciò che ha metabolizzato anche i suoi aspetti negativi. Cioè, l’economia è in grado di esaminare entrambe le facce della moneta. Purtroppo la moneta “globalizzazione” è diventata oggetto di speculazioni di moralisti, sindacalisti e politici e da qui è finita sulle piazze. Invece, qui si vuol guardare alla globalizzazione con occhio disincantato e dal solo punto di vista dell’economia di azienda, al cui mondo appartiene quel termine e in questo senso possiamo definire globalizzazione “la tendenza delle imprese a sviluppare processi di internazionalizzazione sia mediante decentramento delle produzioni e sia con frazionamento della filiera del processo produttivo in paesi diversi e distanti dal centro decisionale, al fine di acquisire i vantaggi delle condizioni di produzione a minori costi offerti da situazioni politiche e istituzionali locali”;

b) per affrontare il problema della globalizzazione dal punto di vista dell’impresa è necessario anche aver ben presente il concetto di strategia, intesa nel suo significato più dinamico possibile, che chiamo “strategia evolutiva” e cioè un “insieme di scelte dinamiche di fondo incidenti sulla struttura dell’impresa e atte a modificare il posizionamento sul mercato nel medio-lungo periodo [2];

c) nella realtà economica, specialmente quella dell’impresa, la statica è una finzione spesso necessaria per la rappresentazione puntuale di un fenomeno, ma, in concreto, l’economia è solo dinamica, anzi caratterizzata da una “dinamica irreversibile”. Ora, noi dobbiamo constatare che la globalizzazione è un fenomeno che accentua la dinamica, come a dire che la rende più veloce; ma la misura della velocità, anzi la misura della accelerazione ce la dà la “velocità dell’informazione”, una specie di derivata seconda, per usare una espressione matematica in funzione di metafora. In questo mondo di velocità accelerata, l’impresa è costretta a evolversi, pena la messa in rischio della sua sopravvivenza. L’impresa, che comprende questo status in cui è costretta a vivere, deve porre in atto una strategia e per un’impresa che vive in modo evolutivo, anche la strategia diventa evolutiva e al tempo stesso flessibile.

In passato, l’impresa, raggiunto un certo posizionamento sul mercato, cioè conquistata la sua quota, poneva in atto una “strategia” come fatto straordinario (investimenti determinanti un turning point), mentre nell’ordinario si difendeva o conduceva rapidi attacchi mediante la “tattica”. Con la globalizzazione, nelle sue due principali caratterizzazioni di:

internazionalizzazione della componente finanziaria e

informazione in tempo reale,

che insieme ad altri fenomeni creano uno status di dinamiche accelerate, la strategia diventa un fenomeno permanente, quasi ad assorbire in sé la tattica. Ma su questo punto è necessaria una precisazione preliminare: intensità, globalità, rapidità e accelerazione dell’informazione non significano necessariamente “correttezza” dell’informazione. E vi è chi, come il premio Nobel Joseph Stiglitz [3], attribuisce alla scorrettezza dell’informazione, agevolata dai vizi della corporate governance, la responsabilità della recessione in atto, la prima della nuova era della globalizzazione;

d) dopo la crisi del modello di produzione fordista, si è affermato quello della “specializzazione flessibile”, definito per contrapposizione con riferimento ai suoi opposti caratteri, i cui principali sono: produzione a piccoli lotti e, se di prototipi e macchinari, su misura; maggior mobilità sociale nelle classi lavoratrici e nelle suddivisioni interne tra impiegati e operai specializzati e non specializzati; processi produttivi realizzati con maggior collaborazione tra fabbrica e cliente [4];

e) il concetto di “prodotto maturo”, che diventa sempre più discutibile come categoria di output, può essere definito lo stato di ristagno strutturale della domanda complessiva del relativo mercato tradizionale in rapporto alla capacità produttiva impegnata;

f) si intende comunemente per “valore aggiunto” la differenza tra il valore dei beni e servizi prodotti (output) da un’impresa e il valore dei beni e servizi acquisiti all’esterno. Il costo del lavoro è parte del valore aggiunto, quindi il “valore aggiunto in rapporto al lavoro” è il rapporto tra la species (costo del lavoro) e il genus (valore aggiunto);

g) per free cash flow o “cash flow libero” si intende il valore che residua all’impresa, dopo il pagamento dei dividendi, per gestire: il servizio dei debiti, il finanziamento dei bisogni in fondi di rotazione e il finanziamento degli investimenti. Questo valore misura la capacità di rimborso. Ovvio che se il valore è negativo l’impresa è costretta a rifinanziare il suo debito;

h) la distinzione tra grande impresa e Pmi è attualmente definita dalla Unione Europea secondo i nuovi parametri [5].

2) Effetti generali della globalizzazione

La globalizzazione è causa di molti effetti; tra l’altro:

a) cambia la strategia d’impresa, che si fa “permanente” e comporta che l’investimento diventi un fatto ordinario e quindi pianificabile;

b) costringe a rivedere i concetti di prodotto maturo. Qui il fenomeno sembra rasentare il paradosso geo-economico, perché il prodotto maturo tende a essere espulso dalle aree industrializzate più avanzate per rifugiarsi in quelle terzomondiste, ove i costi di produzione consentono di rivitalizzare il prodotto sul versante dell’input. Però, in molti casi si tratta di un frazionamento, che lascia all’impresa operante nelle economie avanzate, le fasi iniziali di progettazione ad alto valore aggiunto e quelle finali di commercializzazione del prodotto. Il mantenimento delle sedi direzionali, finanziarie, di coordinamento strategico e di progettazione nel Paese occidentale consente talvolta di ridurre nella holding l’intensità di capitale e di incrementare la produttività, così migliorando il Roe e il Roi, che, nonostante l’ampliamento e l’affinamento delle analisi per indici, continuano a essere coefficienti significativi per la strategia dell’impresa. Si tratta di casi – e sono numerosi -, in cui la globalizzazione, proprio perché non sottrae all’impresa delle aree industrializzate l’intera filiera della produzione, consente il mantenimento del dominio sul prodotto a scapito delle branch terzomondiste eredi della parte più povera della filiera. Ma è un fenomeno temporaneo, perché il learning by doing gioca a favore del terzo mondo. Si pensi, per esempio, all’esportazione in paesi terzi in fase iniziale di industrializzazione di linee di produzione obsolete, ma ancora economicamente sfruttabili, in aree ove il costo di manodopera è molto contenuto (industria siderurgica dei metalli ferrosi, industria confezioni, ecc.). È evidente che le imprese che si sono liberate di tali impianti corrono il rischio di fare investimenti sbagliati permanendo nel settore o sulla stessa fase della filiera di produzione, perché subiranno la concorrenza delle stesse linee di produzione esportate. È ovvio che si debbano almeno restringere nella fase a più alto valore aggiunto della filiera di produzione e, quando non è possibile e non si tratta di prodotti di nicchia, è saggio abbandonare il settore. Si veda il fenomeno che sta accadendo nei casalinghi e nel valvolame a Lumezzane, sempre più combattuto dalla concorrenza cinese. Si pensi all’industria calzaturiera del Brenta, che sta cedendo konw-how ai calzaturifici calabri, dando un esempio di globalizzazione interna. Quale avvenire per le aree tradizionali di provenienza? [6] La globalizzazione vuol dire anche questo e ignorare il fenomeno può costare caro;

c) sembra premiare le imprese che, operando sul mercato globale, hanno spostato la loro tradizionale vocazione verso investimenti in tecnologie avanzate e in capitale umano professionalmente preparato. Purtroppo, esse sono costrette a convivere con settori in cui l’innovazione non è imposta dal mercato, perché non esiste mercato, e comunque è avversata, come nel campo pubblico, che invece di fornire risorse spesso le distrugge e ciò perché trova potenti alleati nel conservatorismo dei politici, più sensibili al voto elettorale che al benessere generale, e dei burocrati, a cui giova la conservazione dell’esistente [7]. Ma, quando i condizionamenti delle istituzioni interne si fanno insopportabili, si verifica un fenomeno migratorio per l’economia interna, i cui effetti negativi sono imputati alla globalizzazione, mentre la responsabilità è delle istituzioni interne pubbliche e politiche;

d) cambia il mercato [8] e in questo cambiamento trascina modificazioni strutturali:

i) sul processo di formazione del capitale umano che deve essere sempre più aperto ai mercati internazionali anche quando si tratti di fornitori di semilavorati. I manager devono saper essere leader, cioè capaci di motivare i collaboratori e sintonizzarli con l’evoluzione delle tecnologie;

ii) su scelte di tipo e modalità degli investimenti. Per il tipo non sono note statistiche precise, ma è plausibile che rispetto al passato sia cambiato il rapporto percentuale tra capitale proprio e investimenti e, nell’ambito di questi, tra investimenti in beni materiali e immateriali per la crescente presenza degli intangible. Basti pensare alla crescita delle spese per corsi di formazione del personale, dell’incremento del know-how e delle politiche di marketing. Per le modalità, si deve rilevare che alcuni tipi di investimenti si prestano a deformazioni, costituendo riserve occulte di valore, sicché spesso gli intangible sono anche “nascosti” nelle spese di esercizio, viceversa costi annuali possono diventare, per consapevole giudizio errato degli amministratori, inesistenti valori intangible;

iii) sulla necessità di conoscenza dell’intera filiera di produzione da parte di qualsiasi appartenente al settore. Per esempio: il subfornitore Fiat non può più ignorare come la committente si va collocando sul mercato mondiale, cioè anche chi è nella parte alta della filiera del prodotto deve essere attento a ciò che avviene negli anelli successivi, per programmare la propria cessazione dallo status di stakeholder non appena constati che il proprio cliente sta perdendo quote o sta commettendo errori strategici. Ma, come è noto e intuitivo, passare da un cliente a uno nuovo, quando si è fornitori di semilavorati speciali o subfornitori, non è obiettivo facile da realizzare. Occorrerebbe una flessibilità in pratica inesistente. Però, prima si parte e prima si arriva e “il prima” è consentito dalla interpretazione tempestiva e corretta delle informazioni o dei sintomi, impiegando la semiologia;

e) cambia la dimensione dell’impresa. I parametri riferiti a numero di dipendenti, fatturato e valore delle attività di bilancio sono periodicamente innalzati e, quindi, alla crescita dell’impresa, finché contenuta nei nuovi parametri, non consegue necessariamente un salto di classe. Non sono neppure note statistiche su quali e quante imprese già appartenenti a una classe siano passate a una superiore, pur con ampliamenti dei relativi parametri. Però è possibile fare due constatazioni: a) il fatto stesso che le autorità aumentino i valori dei parametri, anche più dei tassi di inflazione, significa che il fenomeno dell’ampliamento delle imprese esiste; b) con la globalizzazione si sono moltiplicate le operazioni di Merger& Aquisition e se l’iniziativa parte da una Pmi è facile che il risultato sia una nuova grande impresa;

f) cambia il feedback. Si prenda per esempio ciò che sta costituendo la Cina nei mercati mondiali, ma anche gli effetti di feedback sull’economia mondiale. In questo caso si possono richiamare anche gli effetti negativi sull’interscambio commerciale causati dalla polmonite SARS, che hanno letteralmente abbattuto il tasso di crescita del PIL della Cina, ma anche dell’Europa e inciso sul PIL italiano [9]. Questo fenomeno, senza la globalizzazione avrebbe avuto ben diversa ricaduta, ma proprio nella sua evidenza negativa rivela l’importanza sull’economia mondiale del fenomeno della globalizzazione;

g) cambia l’approccio dell’impresa di produzione all’analisi finanziaria. Per esempio, oggi c’è più attenzione alla generazione del cash flow per considerare che, se non si genera questo non si può pensare a una vera politica di investimenti a medio-lungo termine. Ora la globalizzazione modifica anche il free cash flow [10]. Ci si deve anche chiedere se esista un nesso tra globalizzazione e “nuova finanza”, però bisogna essere cauti, perché se per nuova finanza si intende anche le borse, allora bisogna restringere il campo alle grandi imprese, ma queste in buona parte, le multinazionali per esempio, erano già sulla linea della globalizzazione da tempo. Sulle Pmi la globalizzazione potrebbe aver inciso poco come “nuova finanza”, ma aver modificato, invece, il rapporto banca-impresa, sia come quantità del credito e sia come qualità (intesa come tipo di operazioni) delle nuove operazioni finanziarie offerte dalla tecnica finanziaria. Si constata che quelle che in un momento di euforia e di smania di grandezza hanno fatto il “salto” verso la borsa ora tendono al delisting [11]. La “nuova finanza” ha cambiato molte cose, ma non certo il canone fondamentale che i debiti si pagano con il reddito e questa verità è alla base dei processi di scelta del finanziamento degli investimenti [12]. All’interno del fenomeno “nuova finanza”, almeno per la parte riguardante i rapporti di credito bancario, va posta la prevedibile evoluzione collegata alla revisione dei coefficienti patrimoniali per la stabilità delle banche contenuti nell’Accordo Basilea-2 [13];

h) può modificare il core business. Statisticamente lo ha modificato, perché la globalizzazione ha spinto verso l’affievolimento del core business tradizionale a favore della finanza, così creando condizioni di maggior esposizione al “rischio di credito”, di segno opposto al rischio di credito delle banche; di contro la diversificazione più accentuata ha trovato spiegazione nella intenzione di contrastare il rischio di andamento sfavorevole del ciclo di settore, che viene accentuato con la globalizzazione da una parte e attenuato dall’altra, perché mercati più vasti consentono ripartizione del rischio, ma anche importazione del rischio. L’apertura delle singole economie nazionali all’economia del villaggio globale comporta la rapida trasmissione di rischi di recessione e la loro ricaduta sull’economia internazionale, soprattutto quando la provenienza è da economie che svolgono il ruolo di “locomotiva”. Il problema della singola impresa è, allora, la tempestività della conoscenza di fenomeni in divenire, soprattutto se è in fase di progettazione e realizzazione una strategia di investimenti in beni capitali. È noto il rischio di investimenti avviati quando si apre un ciclo di caduta dell’economia e molti fallimenti trovano qui la loro causa non sempre evidente, ma reale;

i) nell’economia della produzione è noto il fenomeno del grado di integrazione. Le imprese molto integrate evidenziano un valore aggiunto molto vicino al fatturato; all’opposto, altre si limitano a effettuare poche operazioni e fanno prevalentemente montaggio su materie prime e con semilavorati e parti staccate acquistate da altre imprese.

Nei primi anni Ottanta, Lester Thurow e Robert Rich, due economisti americani desiderosi di offrirsi ai politici [14], lanciarono la “teoria degli scambi commerciali strategici”, che affermava, tra gli altri punti fondamentali, la necessità che l’economia americana concentrasse le proprie risorse, anche mediante trasferimenti e migrazioni di capitali, verso settori ad alto “valore aggiunto in rapporto al lavoro”. È diffusa l’opinione che i settori ad alto valore aggiunto, cioè che producono beni tecnologicamente molto sofisticati come, per esempio, elaboratori (computer) e aerei, concorrano più di altri a incrementare il PIL reale di un’economia. I dati statistici non confermano l’idea che le produzioni tecnologicamente più sofisticate riservino più alto valore aggiunto in rapporto al lavoro. Inoltre, il problema può presentare valutazioni diverse, se è posto dal punto di vista della singola impresa anziché dell’economia nazionale. Si consideri che il valore aggiunto può variare anche per la scelta di trasferire a terzi (outsourcing) certe lavorazioni, secondo una strategia di deintegrazione, che non va confusa con la deindustrializzazione. Questa scelta può consentire flessibilità e riduzioni di costi a prescindere dalla tecnologia interna. Abbiamo definito la globalizzazione come un processo di decentramento e/o di frazionamento della filiera del processo di produzione e, allora, il collegamento tra valore aggiunto e globalizzazione emerge per conseguenza, ma si impone anche la necessità di porre attenzione a non trarre conclusioni errate dal semplice paragone tra imprese e tra i dati della stessa impresa in tempi diversi;

j) rende ancor meno efficaci gli interventi di politica monetaria e fiscale nazionali. Vi sono fenomeni macroeconomici negativi, che nessuna politica riesce a rimuovere. Per esempio: la storia economica, anche degli ultimi decenni, ci ha insegnato che gli strumenti soliti (riduzioni dei tassi di interesse, gonfiamento del circolante, ecc.) della politica monetaria e le ricette di politica fiscale (incremento delle spese pubbliche, riduzione delle imposte, ecc.) servono a poco o niente, anzi, talvolta producono effetti negativi indesiderati [15], per quel complesso gioco di azioni, reazioni e retroazioni, che sono una delle caratteristiche dell’economia e invece di correggere il ciclo, come vorrebbero i politici e i loro consiglieri economici, possono ampliare le fluttuazioni [16]. Che deve fare allora la singola impresa? Continuo a essere convinto che deve adottare la tecnica del beduino, che quando sente arrivare il ghibli si ripara dietro una duna, si tira il barracano sulla testa e aspetta che il vento passi;

k) attraverso l’informazione, può modificare i cicli economici. Infatti, la diffusione accelerata di informazioni può ridurre l’ampiezza del ciclo se sono prevalenti le imprese che ne sanno fare tempestivo e corretto uso. Può ampliare l’escursione del ciclo, nel caso contrario [17].

l) attraverso l’informazione, cambia le aspettative delle imprese. È condiviso dagli economisti di tutte le scuole che l’impresa vive di aspettative, ma queste non possono nemmeno formarsi senza informazioni. L’importanza di questa anticipazione del futuro attraverso le proiezioni è riconosciuta sia dai sostenitori delle “aspettative adattive” di derivazione keynesiana, sia da quelli che condividono le conclusioni più caratterizzanti della scuola delle “aspettative razionali” [18]. Certo non bisogna dimenticare che la prima informazione l’impresa la trova nel proprio portafoglio ordini, ma questa non basta per le aspettative. Occorrono notizie di settore che solo organismi ufficiali o elaborazioni di associazioni possono mettere a disposizione.

3) Effetti del cambiamento del mercato sull’impresa in generale

a) Il cambiamento del mercato costringe a rapidi e strutturali riposizionamenti dell’impresa sul mercato;

b) il riposizionamento è una necessità che è conseguenza di una decisione assunta per seguire e far tesoro delle informazioni che pervengono dai mercati [19]. La vera novità della nostra epoca non è tanto l’informazione in sé, ma la sua rapidità, il suo essere disponibile in tempo reale. È questa realtà che comporta un continuo cambiamento o adattamento della strategia. Ora l’informazione, costringendo a rapidi e strutturali riposizionamenti dell’impresa sul mercato, sembra rendere applicabili all’impresa:

i) la seconda legge della termodinamica nella sua versione di “termodinamica irreversibile” caratterizzata da un crescendo di entropia e la opportunità del ricorso alla sinergetica [20],

ii) e della legge del caos deterministico, ben sintetizzata nella metafora “una farfalla batte le ali nel Mar dei Caraibi e il giorno dopo si scatena un pericoloso temporale a Boston”;

c) si noti anche che “caos deterministico” e “seconda legge della termodinamica” applicati all’economia di azienda sono in rapporto di effetto a causa con il fenomeno della globalizzazione, che, anche per l’importanza assunta dall’aspetto finanziario, costringe, quindi, l’impresa ad operare in condizioni di maggior incertezza, imponendo nuovi strumenti di analisi soprattutto decisionale, dove trovano applicazione strumenti a base probabilistica. Sono ormai note le applicazioni alla finanza e anche all’economia di azienda delle tecniche derivate dalla random walk theory e le rappresentazioni con ricorso a geometrie non euclidee di tipo “frattale”, che ben si prestano a indagini sulla finanza turbolenta e in generale sui fenomeni del turbocapitalismo [21];

d) quella decisione implica una riformulazione del c/economico previsionale nelle sue due componenti: i costi e i ricavi e questo perché le informazioni ci dicono che il nostro attuale EBIT (o RO) è destinato a cambiare rapidamente. In genere si debbono proporre 2 scenari inizialmente o alternativi o congiunti, dipende se si tratta di una strategia aggressiva o difensiva. Inizialmente: perché il più presto possibile anche l’impresa costretta a una politica difensiva, se non vuol vedere erosa la quota di mercato tanto faticosamente conquistata, deve ristrutturarsi sia dalla parte dei ricavi e sia dalla parte dei costi. Se aggressiva significa che l’impresa sta proponendo o imponendo prezzi concorrenziali, cioè in ribasso. Se difensiva significa che l’impresa sta subendo la politica concorrenziale di altri. Sin qui è banale, ma ciò che è importante constatare è che in entrambi i casi debbono essere approntati investimenti in capitale fisso o variabile, che richiedono nuove risorse e questo spiega perché si è detto che, dopo lo smarrimento iniziale, l’intervento deve avvenire sia sui ricavi e sia sui costi. Gli investimenti richiesti determinano una modificazione nella struttura del passivo del bilancio e di contro dell’attivo della situazione patrimoniale;

e) questa considerazione porta a far emergere la differenza strutturale tra Pmi e grande impresa, perché le fonti per il reperimento dei capitali possono essere diverse in funzione della dimensione dell’impresa;

f) il cambiamento del mercato e del posizionamento dell’impresa sul medesimo determinano una riconsiderazione della competitività, che, in ogni caso, diventa maggiore e più accesa. Questa constatazione fa sorgere il problema molto dibattuto dei rapporti tra competitività e produttività, ponendo la domanda se esista un rapporto causa-effetto, nel senso che la competitività sia condizionata o no dalla produttività. Alla domanda è stata data dalla maggioranza degli economisti una risposta affermativa; ma sembra più plausibile la risposta di Paul Krugman che ritiene autonomi i due fenomeni [22];

g) bisogna anche porre attenzione al rischio che la globalizzazione, come ogni momento storico e ogni teoria economica, per l’esasperazione che ne fanno la politica e la sociologia, può nascondere un qualche segno premonitore di cambiamenti che con la globalizzazione possono non avere alcuna connessione o averne solo di indiretti. Il vero problema di una società dell’informazione, come può definirsi una società globalizzata, è appunto la selezione e l’interpretazione dei segnali di cambiamento. La cibernetica è anche questa difficile analisi delle componenti mescolate del flusso delle informazioni. Non saperle selezionare è peggio di non averle.

4) La grande impresa di fronte al cambiamento

a) Diverso è anche il rapporto tra dimensione dell’impresa e strategia. Nei settori in cui sono presenti entrambe le strutture imprenditoriali, la grande impresa è in genere aggressiva, mentre la Pmi è difensiva, anche perché, nell’epoca della produzione di massa e della globalizzazione, è la grande impresa che arriva al prodotto finale, mentre la Pmi fornisce semilavorati, a meno che non operi in settori di nicchia;

b) ma l’aggressività della grande impresa trova anche maggior rischiosità  [23] come dimostrano le statistiche dei crolli dei grandi gruppi. Le cause sono comuni: strategia di espansione basata su una finanza a debito e su un pluralismo di obiettivi lontani dal core business in cui l’impresa ha saputo consolidare nel tempo esperienze e know-how; sovrastima dell’importanza del valore assoluto dei ricavi come massa critica; mancanza di flessibilità e lentezza di percezione delle tendenze di mercato, nonostante la dovizia di informazioni di cui non dispone la Pmi; mancanza di sensibilità dei manager, i cui compensi sono legati più a obiettivi di breve periodo che alla vitalità dell’impresa nel lungo periodo. La storia della Fiat meriterebbe riflessioni ben oltre l’emotività dell’andamento in borsa delle quotazioni e la superficialità delle interpretazioni giornalistiche;

c) la grande impresa, proprio in conseguenza della sua dimensione, può diventare responsabile di crisi che, oltre a ricadere su se stessa e i suoi stakeholder produce danni su tutti i mercati internazionali, con effetti “domino” particolarmente dannosi. Non mancano esempi recenti, già entrati nella storia economica della nostra epoca seppur non ancora digeriti dai mercati. Lungo è l’elenco delle cause di tali dissesti, ma è significativo che tra esse trovi spicco il problema della governance.

5) La Pmi di fronte al cambiamento

a) Ci siamo abituati a identificare le Pmi secondo i parametri di asset, fatturato e numero di dipendenti deliberati da autorità internazionali. Può darsi che questo faccia parte dell’inevitabile! Dobbiamo però tentare di uscire dai vincoli di questi schemi tradizionali e considerare che è più importante il grado di managerializzazione. Anche la Pmi, che non è da confondere con la microimpresa, se vuol partecipare al business della globalizzazione deve dotarsi di dirigenti colti, capaci e flessibili. Oggi vi sono settori nei quali con dieci operai si può fare il lavoro che, meno di trent’anni fa, faceva una squadra di cento, ma l’imprenditore, anche se possiede il 100% di un’impresa, deve convincersi che l’epoca del “padrone delle ferriere” è tramontata per sempre e che il suo tempo può essere riservato a funzioni più elevate e produttive. Si deve anche rilevare che le Pmi non sono “figlie di un Dio minore”, come la stampa, che rincorre sempre solo i fatti eclatanti, ci induce a credere. Le Pmi sono molto più importanti e numerose persino negli Stati Uniti, che nel nostro immaginario sono il paese di tutto cioè che è solo big. Scrive Paul Krugman: « Il ruolo delle grosse imprese americane negli ultimi vent’anni ha perso gran parte della sua importanza e il maggior volume di attività è passato alle piccole aziende.»; [24]

b) di contro la maggior capacità di difesa delle Pmi trova spunti di indiretta aggressività nella maggior flessibilità e qui si iscrive il passaggio dal fordismo alla specializzazione flessibile [25], che trova una particolare evidenziazione nel “distretto industriale” [26], cioè in un sistema a rete di imprese, che oggi si avvantaggia anche di un sistema a rete delle informazioni. Ma una rete si crea anche tra una qualsiasi Pmi e una grande impresa estera e questo è il bello e il nuovo della globalizzazione, che varca i confini del sistema paese. Si consideri, per esempio, ai massicci rifornimenti di componentistica che le case automobilistiche tedesche BMW, Mercedes, Volkswagen e Opel, fanno in Italia. Nel 1997 le forniture italiane a BMW sono state di oltre 600 miliardi di lire, Mercedes 800 miliardi, Volkswagen nel 1996 oltre 600 miliardi [27].

6) Constatazione conclusiva

La globalizzazione è un lungo treno in corsa e la singola impresa, per quanto grande sia, non è il treno, ma solo un viaggiatore, che non è in grado fermarlo, né lo può il conduttore, perché il treno è autoguidato.

La globalizzazione stessa guida la globalizzazione e non ci sono né impresa, né movimento no-global in grado di arrestarla.

Con la globalizzazione l’impresa deve adattarsi a convivere, facendosi aiutare da quella disciplina ancora ineffabile, che si chiama cibernetica. Ma questo è un altro capitolo di quel processo inarrestabile, che è il divenire.

Pietro Bonazza


[1] GP. Salvini, La globalizzazione: minaccia o mito?, in “La civiltà cattolica”, 1997, n. 3518, pag. 119.

[2] P. Bonazza, Dinamiche di valori e finalità strategiche di operazioni straordinarie. Dal bilancio alla determinazione del capitale economico, in “Rivista italiana di ragioneria”, 2002, pag. 572, la strategia è definita: «…un programma globale elaborato dal “direttivo” (management) con individuazione di fini e di mezzi, implicante una riorganizzazione generale dell’impresa tale che, dopo la realizzazione, in genere nel periodo medio-lungo, questa conseguirà un posizionamento sul mercato, diverso da quello in cui si sarebbe trovata mantenendo lo statu quo ante.»

[3] E. Marchesini, intervista a Joseph Stiglitz, in “Sole-24 ORE”, 20.6.2003, pag. 35: “È recessione globale, ma ne usciremo”.

[4] V. Capecchi, Una storia della specializzazione flessibile e dei distretti industriali in Emilia-Romagna, in “Distretti industriali e cooperazione fra imprese in Italia”, Quaderno 34 della rivista “Studi & Informazioni”, 1991, n. 3.

[5] B. Santacroce, La Ue cambia i parametri delle Pmi, “Il Sole-24 ORE”, 9.5.2003.

[6] L. Benecchi, La rubinetteria di Lumezzane alla sfida cinese, “Il Sole-24 ORE”, 19.6.2003 e C.Pass., Il Brenta cede know-how ai calzaturieri calabri, ivi, 23.4.2003, pag. 14.

[7] E. Gerelli, Il futuro? È in mano a chi si rinnova, in “Il Sole-24 ORE”, 25.11.2000 e A. Massarenti, L’innovazione è il futuro, ivi 25.10.1996.

[8] R. Abravanel, Il futuro sarà dei leader di persone, “Il Sole-24 ORE”, 22.11.1997.

[9] L. Vinciguerra, Il made in Italy sfida l’effetto-Sars, “Il Sole-24 ORE”, 23.5.2003.

[10] Pascal Foulard, I giganti dell’auto strangolati dai debiti, in “ItaliaOggi”, 21.3.1992.

[11] F. Tamburini, Imprese, meno Borsa e più private equity, in “Il Sole-24 ORE”, 17.5.2003.

[12] P. Sabbadini, recensione al testo “Governare la crisi. L’equilibrio in un’economia instabile” di Hyman Minsky, in “Moneta e Credito”, 1990, n. 172, pag. 529.

[13] R. Bocciarelli, Basilea-2, via al nuovo restyling, in “Il Sole-24 ORE”, 30.4.2003.

[14] P. Krugman, L’incanto del benessere, Garzanti Editore, 1995, pag. 289.

[15] P. Krugman, cit., pagg. 63 e 127.

[16] P. Krugman, cit.,pag. 53. E. Marchesini, cit.,: « La situazione USA appare oggi caratterizzata da un lieve sospiro di sollievo causato dagli incentivi fiscali, politica però che ha le gambe corte: non solo gli effetti sono inferiori alle aspettativa, ma la conseguenza a medio termine è quella di peggiorare il deficit fiscale.»

[17] F. Cesarano, Note sulla teoria della politica monetaria, in “Moneta e Credito”, 1991, n. 175, pag. 323.

[18] T. Sargent-N. Wallace, Tales of the expected, in “Journal of political economy”, aprile 1975.

[19] “Il Sole-24 ORE”, Pacini, Una cultura da export.

[20] La sinergetica è definita come scienza degli effetti combinati che esamina come l’abbinamento di più componenti può determinare un effetto potenziato rispetto al loro impiego separato.

[21] E. Sassoon, Gestire coi frattali, in “Il Sole-24 ORE”, 26.9.1993 e P.L. Sacco,La finanza turbolenta si spiega coi frattali, in “Il Sole-24 ORE”, 22.2.1998.

[22] P. Krugman, cit., pag. 315 e segg. e “Appendice al Capitolo 10”.

[23] A. Malan, Quando crollano i grandi gruppi, “Il Sole-24 ORE”, 15.3.2003.

[24] P. Krugman, cit., pag. 27.

[25] A. Martelli, Vecchia galassia fordista addio, “Il Sole-24 ORE”, 23.8.1996.

[26] G. Beccattini, Distretto competitivo, la bandiera di Porter, “Il Sole-24 ORE”, 18.4.1999.

[27] R.Bo., L’auto tedesca fa shopping in Italia, in “Il Sole-24 ORE”, 7.3.1997.