Potrebbe rivelarsi fuorviante interpretare la crisi attuale dell’euro come una crisi economica. Un’analisi più approfondita potrebbe rivelare che si tratta di una crisi politica o, come si usa dire oggi, istituzionale. Forse è da porre in discussione la struttura stessa della democrazia, che sin qui si è fondata su una sequenza di fenomeni correlati da un rapporto di causa ed effetto. Gli empiristi inglesi da Hume a Russell, abituati a pensare in termini di inesistenza di rapporti di causalità, sorriderebbero convinti di esprimere uno humor, che sembra riflettersi in quello spirito tipicamente anglosassone e contraddittorio, come per esempio continuare a criticare l’euro essendone fuori fino a inscenarne il funerale, che dall’umorismo scade nel cattivo gusto e rivela mancanza di fantasia. Gli inglesi sono convinti di aver inventato la democrazia ,a Hobbes, Locke, per passare da Adam Smith e da Stuart Mill e fino a Keynes. Tutt’al più hanno insegnato come si istituisce una monarchia innocua, spendacciona, quindi inutile. Il radicalismo e l’ostinazione del Parlamento inglese hanno semmai il grande merito di aver eccitato la reazione dei coloni americani e di aver generato, senza volerlo, gli Stati Uniti d’America, che, anche per reazione, andarono a cercare più ispirazione in Francia, cioè in Europa continentale, che non nell’albionica isola Oltremanica. Piaccia o no la democrazia moderna è più figlia dell’America che non dell’Inghilterra. L’Europa ha succhiato più latte americano che non inglese e si è svezzata solo dopo due sanguinosissime guerre mondiali, ma la bambina è cresciuta male e qui sta il punto focale, nel senso che la crisi degli Stati Uniti, occulta, perché non riconosciuta dagli stessi americani, ha intaccato anche la vecchia Europa.

Sull’esempio americano la vecchia Europa si è convinta, dal dopoguerra, che la libertà generi la democrazia, questa generi il libero mercato, questo faccia scattare il benessere diffuso, per sostenere il quale i partiti, che vorrebbero essere l’anima della democrazia, si sono attribuiti compiti degenerati in forme di corruzione e giochi di potere, che hanno ridotto le istituzioni a bande, talvolta persino armate. Ora sarebbe facile accusare che questo fenomeno, o meglio questa catena di fenomeni, verissima per l’Italia, non deve essere generalizzata a tutta l’Europa, ma sarebbe fuorviante. Sarebbe come sostenere che in una situazione endemica chi ha la febbre a quaranta è malato, mentre gli altri con temperatura a trentotto sono sani. Basta ricordare alcuni episodi che hanno forza emblematica. In Italia c’è la mafia. Negli Stati Uniti non c’è?  In Italia ci sono grillini, black bloc, verdi e ambientalisti arrabbiati, estremisti di destra e di sinistra. Possiamo dire che non esistono sulle due sponde dell’Atlantico? In Italia il debito pubblico è straripante. Negli Stati Uniti, negli altri paesi europei fino al lontano Giappone, forse no?

Se partiamo dagli ultimi effetti: il debito pubblico, la speculazione finanziaria che lo esaspera, la crisi dei partiti, che negli Stati Uniti si chiamano lobby, e risaliamo la catena dei rapporti causali, constatiamo che all’origine c’è una secolarizzazione, che, dopo aver investito i rapporti religiosi, si è insinuata nella politica. Cioè: è venuta meno la morale, che connota i rapporti sociali e il comportamento degli individui  nei confronti della politica e della vita collettiva. La società civile può fare a meno di tanti ingredienti, ma non può rinunciare alla morale senza scadere in società incivile. Quando si parla di corruzione si dimentica che la parola viene dal latino rumpere e significa infrangere rapporti di correttezza fondata sulla morale e ciò vale per tutti i rapporti socio-economici compresi i politici.

È dalla morale che bisogna partire: i processi, tipo “mani pulite” in Italia, servono a poco, come si evince dal dilagare della corruzione proprio a partire da quei processi, che sono serviti solo ad esaltare il potere della magistratura e della sua autoreferenzialità. Vien da pensare al tema tanto caro a Giovanni Gentile: non inter homine ma in interiore homine, seppur dimenticando la finalità specifica per cui il filosofo lo intendeva.

La perdita della morale, spesso della sua brutale e strumentale negazione, è causa o effetto della secolarizzazione di ogni aspetto della vita? Si potrebbe sostenere che sono la stessa cosa, cioè due espressioni formali diverse per intendere lo stesso concetto. Se ci riferiamo direttamente al concetto politico, si può constatare che il tanto criticato (a parole) Machiavelli intravedeva una morale seppur negativa della politica, quindi finalizzata a uno scopo, che è intento ben diverso rispetto dall’attuale nihilismo, che preconizza il vuoto assoluto, il niente fino a se stesso, a cui perviene l’uomo che non ha più alcun traguardo da raggiungere, alcun bersaglio da colpire.

In nome di una malintesa libertà, tutto diventa possibile, tutto è giustificabile, compreso il suo contrario, che poi, a essere coerenti, non è più né il possibile né il suo contrario perché il nulla è un vacuum, un vuoto assoluto. Forse rende l’idea un cilindro ermeticamente chiuso in cui, come in esperimenti della fisica, si crea il vuoto pneumatico: resta il recipiente, ma senza niente dentro.

C’è stato un periodo in cui si confrontavano due fondamenti della morale: la religione, con i suoi divieti e dogmi, e l’esaltazione della libertà di un liberalismo assoluto. Il confronto avveniva più sulle modalità che sulla sostanza di fondo, perché l’esistenza di scopi, seppur diversi e talora contrapposti, in un certo modo li accomunava. Oggi non c’è più nulla e non si dica, come spesso si sente, che la causa sia una degenerazione dei costumi subdolamente imposta dai media audio-visivi, perché, semmai, questi sono l’effetto.

E, allora, da dove partire? Quale palingenesi? Sono convinto che, purtroppo, sia nella paura.

L’uomo, fino allo scientismo, è stato preda della paura. I templi erano pieni, perché i cuori erano pieni di paura. Gli atei sorridono al solo ricordo delle processioni della Madonna Pellegrina nell’immediato dopoguerra, ma non analizzano il motivo: era la paura repressa dal cadere delle bombe, che esplodeva anche dopo come un atto sociale liberatorio. Al solo paventare la fine del mondo, con previsioni bislacche e settarie, i templi tornano a riempirsi. Perché furono costruite tante cattedrali gotiche negli anni dopo il mille? Era la paura. Cesare Marchi ha ben descritto tanti fenomeni sociali nel magistrale “Grandi peccatori, grandi cattedrali”.

Dobbiamo auspicare di tornare alla paura? Non basta che l’uomo con la sua intelligenza sia in grado di considerare che la morale non ha bisogno di essere figlia della paura?

A forza di esaltare l’intelligenza degli animali, almeno degli antropomorfi, si è finito per degradare l’uomo. Grazie darwinisti (Darwin non c’entra, perché era galantuomo e non settario)!

Torniamo alla crisi della politica. Scoprire le cause partendo dagli effetti è applicazione estensiva del processo induttivo. Sicché se dagli effetti esemplificati risaliamo alla causa, sembra possibile stabilire che il tramonto dell’Occidente sia dovuto al tramonto della morale.

Allora: se la diagnosi è fondata, non è più questione di rabberciare le regole costitutive della democrazia in declino, ma di ridefinire la democrazia, che non è più e non potrebbe più essere l’esplicazione del politically correct, che nella sostanza si riduce a un agnosticismo relativistico in cui tutto va bene, ma si deve partire da una rifondazione del concetto di base.

In un contesto di immoralità, la morale o non può esistere oppure viene intesa in termini non più coerenti con i tempi ai quali è posta in relazione. La politica è cambiata perché la morale è cambiata.
La morale o è un fondamento invariabile nel tempo – e allora non può prescindere da un certo dogmatismo in genere di origine religiosa – oppure è figlia del suo tempo – e allora è dipendente dalla variabilità anche capricciosa dell’interpretazione e applicazione del momento e dell’individuo, che si trasla sui rapporti sociali, li condiziona e li omogeneizza in una nuova morale collettiva. L’aleatorietà della seconda ipotesi è foriera di rischi, diventati realtà come si evince interpretando il mondo attuale. Si tratta di scegliere e poi agire o accettare di conseguenza.

Talvolta nella storia si è rivelato saggio tornare indietro di alcuni passi.  Se a tante situazioni patologiche attuali si applicasse il principio di diritto romano: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere, quante patologie sarebbe state evitate! Si potrà dire che è poco, ma per un fondamento può essere sufficiente, anche se non guasta certo irrobustirlo con le regole morali desunte, per esempio dalle raccomandazioni del cristianesimo.

Si dirà: queste regole sono già scritte più o meno in tutte le carte costituzionali. Ma, allora, sorge spontanea la domanda: perché non funzionano? Perché si deve tornare all’in interiore homine? L’uomo costruisce la società non per una legge naturale, ma perché ha paura dell’inadeguatezza della propria solitudine. Ha convenienza allo scambio di utilità e, di conseguenza, ha bisogno di regole (statuti sociali) e di un’autorità che le faccia rispettare. Il resto viene da sé. L’uomo solo, senza un contesto sociale, non ha bisogno della morale e la democrazia è questo secondo stadio, che si può realizzare solo se c’è una morale comune.

La democrazia realizzata solo sulla base di leggi elettorali è una democrazia incerottata. A  che serve cambiare le regole per la scelta degli uomini, se poi quelli che si fanno propositori e competitori non sono moralmente a posto?

Oggi viviamo in un’epoca postmarxista in cui del marxismo è sopravissuto l’aspetto materialistico espresso dal danaro, cosicché gli uomini che esprimono i poteri politici trovano alleanze e commistioni con i potentati economici. Il problema vero è come impedire la commistione, il reciproco inquinamento, la costituzione di caste e dei cosiddetti “poteri forti”, che forti sono a causa del denaro.

Si può facilmente osservare che il degrado della democrazia aumenta con l’aumentare degli emolumenti ai politici, che sui propri compensi sono autoreferenti. Bisogna tornare alla frugalità del politico e dell’amministratore pubblico. La politica o è passione, che, avendo come base la morale, prescinde dal compenso oppure è solo occasione di arricchimento individuale. Nel compenso il politico perde la sua forza, la sua autorevolezza, perché si abbassa al potere economico, che, invece, dovrebbe criticare e controllare. Il tutto, beninteso, senza scadere nella gratuità. La democrazia sopravvive e si difende con la rotazione degli uomini, quindi con una durata in carica ben delimitata, breve e non ripetitiva, rifiutando la facile e pretestuosa argomentazione che i nuovi arrivati hanno bisogno di tempo per apprendere il mestiere. La politica non è e non deve diventare un mestiere e non ha bisogno di apprendistato, ma di buon senso. Per garantire la necessaria continuità nell’azione ci si deve avvalere della burocrazia, che ha proprio questo compito, subordinato al politico.

Forse queste sono idee superficiali. Io direi: semplici. Ma se si vuol evitare che la politica cada nella mani dei comici bisogna proprio tornare alla semplicità e alla autorevolezza del “buon padre di famiglia” di antica memoria, accantonato da quella idiozia anglosassone che si chiama politically correct.