Pensare è essere. Sembra questo il vertice della riflessione di Parmenide. E poiché per il filosodo di Elea esiste l’intero, il dubbio che Parmenide abbia derogato al politeismo della religione greca e abbia inteso che Essere è Dio, anzi “il Dio”, può essere fondato.
Il passo successivo diventa, per logica, una conseguenza necessaria. L’Essere, essendo Dio, uno e intero, non può concepire più pensieri, perché Dio può avere solo un pensiero, anch’esso “intero”, capace di racchiudere tutti i possibili. Spezzare l’unitarietà o l’interezza, o meglio l’unità, del pensiero significa ammettere una possibilità di contraddizione tra un pensiero e gli altri, mentre la coerenza può esistere solo nell’unità, in cui tutto necessariamente si compone. Così accade nella reductio ad unum. Ma nell’unità non c’è nemmeno questo, perché non vi è processo di riconduzione, di ricostituzione. L’unità del pensiero divino è ab origine, è ontologica. Il pensiero non è ancora spezzato. Dio non spezzerà mai il pensiero. È l’uomo che nella sua incapacità di concepire il pensiero unico ne concepisce una pluralità e lo sforzo della filosofia, peraltro perdente ma non vano, è il tentativo di ricostruire l’unità.
Allora, si comprende la coincidenza evangelica e precisamente giovannea tra logos (singolare, uno) e Dio (uno). Se così è – ed è probabile che questo sia stato il concetto di Parmenide – si constata che Heidegger è stato semplicemente inutile. I filosofi potrebbero risparmiarsi il tempo e la fatica di infiniti cincischiamenti sull’essere.
Era già tutto scritto. Ma Heideggere era tedesco e un tedesco non può rinunciare alla masturbazione cerebrale. A quel popolo manca il Mediterraneo. Spesso anche agli italiani, che hanno perso il concetto di nostrum.