Pietro Bonazza

 

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Il concetto di opera pubblica nel T.U.I.R. n. 917/1986

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(articolo pubblicato sulla rivista “Bollettino Tributario, 15.10.1999, n. 19 pag. 1429

NB: gli articoli 69 e 73 sono stati rinumerati con 104 e 107 dal D.Lgs. 12.12.2003, n. 344)

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La locuzione “opere pubbliche” compare nel T.U.I.R. n. 917/1986 in due articoli: 69, comma 5 e 73, commi 2 e 5. In entrambi, fuorché nel comma 5, è abbinata a due condizioni: il regime della “concessione”, tipico del diritto amministrativo, e la “costruzione e l’esercizio”, da intendere secondo un significato più generico.

I problemi connessi ai concetti: opere pubbliche, concessione e loro costruzione, esercizio, sono molteplici, ma può essere di aiuto la ricerca del significato del primo, considerato che il T.U.I.R. n. 917/1986 non ne dà una definizione, così rinviando al senso comune o ad altra norma, peraltro non richiamata.

Aspetti soggettivi

Si deve premettere alla ricerca della definizione la domanda se “opere pubbliche” siano solo dello Stato o anche quelle realizzate da altre pubbliche amministrazioni, tra cui le autarchiche territoriali (Comuni, Province, Regioni). Già la mancanza di delimitazione nelle due norme richiamate consentirebbe di affermare che la locuzione non è riferita in via esclusiva allo Stato. Sarebbe fuorviante richiamare la tesi che nel diritto tributario e ancor più nei regimi speciali delineati dalle due norme non è ammesso il ricorso all’analogia e all’interpretazione estensiva [1], perché qui non c’è nulla da interpretare in via analogica e nemmeno in via estensiva. Invece, si deve solo prendere atto che il legislatore non ha posto aggettivi qualificativi, per esempio “statali” dopo la locuzione “opere pubbliche” e, poiché l’aggettivo, qualificando restringe, la sua assenza implica, di contro, generalità del significato della locuzione.

La mancanza di una definizione tributaria ufficiale suggerisce ricerche extra T.U.I.R. n. 917/1986, sicché mi pare tuttora valida la definizione che ne ha dato l’insigne amministrativista Guglielmo Roehrssen alla voce “lavori pubblici” in Novissimo Digesto: « Suole comunemente dirsi che opera pubblica è l’opera eseguita dallo Stato o da altro ente pubblico, di carattere immobiliare, destinata ad un pubblico servizio », così identificando anche i tre caratteri: “soggettivo” riferito alla natura pubblica dell’ente realizzatore, “finalistico” in relazione al pubblico servizio e “oggettivo” per la natura immobiliare dell’opera. Come tutte le definizioni, anche quella di “opera pubblica” è relativa nel tempo. La tecnologia rende superati caratteri prima ritenuti essenziali e, quindi, non è da escludere che un’opera possa essere oggi “pubblica” pur non essendo immobiliare. Si pensi a un satellite per telecomunicazioni. Interessante è anche una affermazione successiva di Roehrssen: « In definitiva l’opera è pubblica quando un ente pubblico la costruisce e ne diventi immediatamente titolare… o quando sia realizzata da un privato e poi passi in proprietà di un soggetto pubblico. »

Se l’indagine qui condotta ha per scopo di fornire una risposta, per esempio, a un Comune che dà in concessione a un privato la realizzazione di una rete di distribuzione del gas con costruzione a suo carico e gestione del relativo servizio, ma da devolvere gratuitamente al termine della concessione, allora Roehrssen avrebbe già dato una confortante risposta, consentendo una interpretazione dei due articoli 69 e 73 del T.U.I.R. n. 917/1986 orientata ai casi più frequenti della pratica e destinati a moltiplicarsi, se si avvierà un qualche processo di reale federalismo.

Non si deve però trascurare il carattere finalistico posto dal citato autore come caratteristica essenziale dell’opera pubblica. Deve cioè trattarsi di un bene (ma potrebbe anche essere una universitas) destinato a realizzare un pubblico servizio. L’affermazione è condivisibile e attuale. Si pone, allora, il problema di definire il servizio pubblico. Sul tema si sono confrontate e succedute varie teorie, sullo stimolo dell’esperienza francese, ritenuta non soddisfacente dagli studiosi italiani. Si potrebbe ridurre l’analisi alla proposta di due soluzioni: l’economica e la giuridica. La prima è da accantonare, perché finirebbe per proporre una definizione del tipo: “è pubblico un servizio che soddisfa bisogni pubblici”, che presenta subito le difficoltà di definire prima il bisogno pubblico, naturalmente affetto da psicologismo socio-politico, a meno di definire il bisogno in termini di servizio (è pubblico un bisogno soddisfatto da un servizio o da un bene pubblico) e cadere in una banale tautologia. La soluzione giuridica, se intesa come derivazione di concetti dall’ordinamento, non è migliore. Infatti, i tentativi di definire il servizio pubblico attraverso il codice penale e la posizione oggettiva (attività derivata da una pubblica funzione) o soggettiva (attività prestata da un soggetto qualificato pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio), hanno prodotto risultati insoddisfacenti.

Se ci riferiamo al diritto positivo vigente, rileviamo che l’art. 43 della Costituzione sembra contenere implicitamente una definizione, soprattutto per la condizione dell’avere il servizio pubblico un “preminente interesse generale”, che lascia le cose al punto di partenza e ripresenta la solita tautologia, con l’aggravante che l’ “interesse generale” può diventare una “ragion di Stato”. Viene il sospetto che i cosiddetti “padri costituzionali”, nonostante conclamate fedi democratiche, avessero nel DNA componenti di statolatria di derivazione hegeliana.

é tornato sul tema il legislatore della legge 8 giugno 1990, n. 142 (sostitutiva del Testo Unico della legge comunale e provinciale 3 marzo 1934, n. 383), che al comma 1 dell’art. 22 ha dato questa implicita definizione: « [sono servizi pubblici quelli] che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali », norma che, a ben vedere, è un classico della retorica italiana, perché, con il pretesto dello sviluppo civile delle comunità locali, si può giustificare tutto e il suo contrario e la definizione si risolve in una tautologia pericolosa, da lasciar sostituire alla libera interpretazione di un qualsiasi amministratore locale. D’altra parte la legge 142 è, almeno in alcune sue parti, un indecoroso pasticcio legislativo, tanto è vero che è in corso, ma potrebbe essere soggetto a reiterati congelamenti, un tentativo di modificazione dell’art. 22, delle cui versioni si è ormai perso il conto. Occorre pragmatismo. è inutile definire ciò che non è definibile. Si faccia un elenco e lo si modifichi quando è necessario. Le leggi non possono essere tutte del tipo magna carta, destinate a raccogliere sacri principi. Le leggi con contenuto o finalità tecniche debbono essere precise.

Allora, come già aveva fatto la legge 383/1934, mettiamo in un elenco i servizi e da lì avremo automaticamente determinato che cos’è un’opera pubblica, sullo stimolo della analisi di Roehrssen e soprattutto del carattere “finalistico”, a mio avviso imprescindibile.

In mancanza di un elenco, sembra chiaro che, o perché ci si affida alle discrezionalità politiche delle scelte locali consentite dall’art. 22 della legge 142 o perché si accetta la definizione di Roehrssen, tra le opere pubbliche degli articoli 69 e 73 del T.U.I.R. n. 917/1986 ci stanno i servizi pubblici di comuni, province e regioni.

b) Aspetti oggettivi

Risolto questo primo problema definitorio, si deve affrontare il significato della congiunzione “e” della locuzione “imprese concessionarie della costruzione e dell’esercizio di opere pubbliche”. Esistono giustificate perplessità. Si deve constatare che il legislatore non è ricorso alla congiunzione “o”, nel significato del vel latino. Quindi, a prima lettura, sembra che la corretta interpretazione porti all’applicabilità della norma solo agli atti di concessione complessa, che prevedano la costruzione congiuntamente all’esercizio dell’opera pubblica. Non bisogna però dimenticare che a tale conclusione ostano tre considerazioni:

1. nella lingua italiana la “e” può avere anche funzione solamente elencativa, che, applicata alla fattispecie, starebbe per la meno elegante asserzione “imprese concessionarie della costruzione e quelle concessionarie dell’esercizio di opere pubbliche”;

2. contrasterebbe con la realtà economica una condizione essenziale di un’impresa che abbia organizzazione in grado di fronteggiare la costruzione e anche la gestione dell’opera. Una delle due attività potrebbe, in concreto, essere affidata ad altri. Per esempio: una società concessionaria di un’autostrada finirà per esercitarne la gestione, ma la costruzione potrebbe subappaltarla a più imprese e quanto più l’opera è complessa (si dovrebbe dire: quanto più è pubblica), tanto più facilmente potrà richiedere la presenza di più imprese, al fine della miglior prestazione del servizio pubblico alle più economiche condizioni. Proprio perché è proponibile sul piano economico l’esempio di un subappalto, non è illogico ipotizzare due concessioni distinte rilasciate dallo stesso ente pubblico con due atti separati a due concessionari e in tempi diversi (per esempio: la concessione di gestione rilasciata dopo la conclusione della concessione per la realizzazione dell’opera strumentale alla gestione). Per inciso, si deve ricordare che la Risoluzione ministeriale 16 giugno 1992, n. 430428, ha messo in giusta luce la differenza tra concessionario e appaltatore, poiché solo il primo «…  esercita funzioni pubblicistiche in sostituzione dell’Amministrazione concedente »;

3. la locuzione successiva “e le imprese subconcessionarie di queste”, sembra confermare il punto precedente. è evidente che la subconcessione, a cui si è riferito qui il legislatore, può essere anche solo una parte, anzi la subconcessione del tutto in molti casi non è nemmeno ammessa e il legislatore tributario lo sa. Allora, se avesse inteso che la concessionaria debba essere: sia assegnataria della costruzione “e” (congiuntiva) sia dell’esercizio dell’opera pubblica, si sarebbe contraddetto con il riconoscere il regime tributario dell’art. 73 anche alle subconcessionarie di una parte, così agevolando, contro ogni ragione, la species (subconcessione) rispetto al genus (concessione). Non si potrebbe negare al concessionario ciò che è consentito al subconcessionario nelle medesime condizioni oggettive Sulla correttezza di questa interpretazione si possono trovare conferme nell’interpretazione ministeriale e nell’ordinamento:

· nella citata Risoluzione n. 430428 del 1992 si legge: «… nell’ipotesi in cui la concessione di costruzione di opere pubbliche comporta anche l’obbligo di gestione delle opere realizzate, l’erogazione di somme da parte del concedente… » e più avanti: «… ciò in quanto si versa, appunto, in un’ipotesi di costruzione ed esercizio di opere pubbliche… » è facile notare che per il Ministero quella di una concessione congiunta costruzione-gestione è solo una delle ipotesi e dipende dalle scelte, non della legge, ma del concedente, che si avvale di discrezionalità;

· La “Legge quadro in materia di lavori pubblici” 11 febbraio 1994, n. 109, prevede all’art. 2, comma 2, lettera b) che le norme si applicano: «… ai concessionari di lavori pubblici, di cui all’art. 19, comma 2, ai concessionari di esercizio di infrastrutture destinate al pubblico servizio… ». La “Legge per interventi nel settore dei sistemi di trasporto rapido di massa” 26 febbraio 1992, n. 211, prevede all’art. 2: « Gli enti locali di cui all’art. 1, per la realizzazione e la gestione, anche disgiunte, dei programmi di interventi di cui alla presente legge, possono avvalersi di società costituite ai sensi dell’art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142… » Le due norme affermano esplicitamente la disgiunzione della soggettività del concessionario costruttore da quella del concessionario gestore e, poiché riguardano le attività istituzionali, a cui si rivolge l’art. 73 del T.U.I.R. 917/1986, non sarebbe sostenibile, sul piano logico, che la norma tributaria, in mancanza di affermazioni restrittive, abbia voluto affermare un principio divergente.

Si deve concludere che la corretta interpretazione è quella che attribuisce alla “e” significato solo elencativo e, quindi, che il regime dell’art. 73 si applica anche all’impresa concessionaria della sola costruzione o del solo esercizio.

Queste considerazioni rispondono, per esempio, al caso delle società concessionaria della distribuzione del gas in un territorio comunale, la cui rete e impianti siano stati costruiti direttamente dal Comune e poi concessi in esercizio a un’impresa.

Pietro Bonazza


[1] Sono sempre attuali le considerazioni di Gian Antonio Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1984, pag. 80: « è dunque la rigidità della norma tributaria che la rende raramente suscettibile di interpretazione analogica e non già l’esistenza di una riserva di legge, poiché la norma costituzionale [art. 23 Cost.] si limita a stabilire quale deve essere la fonte principale del precetto tributario, ma non esclude poi che quel precetto sia interpretato come qualsiasi altro. »