Saverio Vertone Grimaldi, senatore della Repubblica e giornalista, è un settantaquattrenne originario di Mondovì, che appartiene a quella folta schiera di eletti intellettuali piemontesi depositari di un pensiero elitario, nello spirito di Bobbio per capirci, che hanno anche la virtù di un certo nomadismo ideologico. Sia chiaro: non per tartufismo, ma perché la coscienza della superiorità delle proprie ideologie (le idee sono altra cosa!) porta a pensare: se il mondo non è dalla mia: peggio per il mondo, che io frego fingendo di spostarmi dalla sua parte, ma in realtà rimanendo sempre dalla mia. È uno strano gioco della coerenza nell’incoerenza, in cui, però, non si sa mai dove stanno. Da qui i giovani hanno molto da imparare, perché l’intellettuale ha sempre da dire su ogni cosa, ma soprattutto possono apprendere come si riesca a invecchiare collezionando “ex” (non ex voto, perché in genere il maestro è ateo). Alla fine della vita chi ha più “ex” finisce nella guida Michelin del pensatore con il maggior numero di forchette, anche se non serve perché non è più necessario mangiare. Il nostro ha un curriculum denso di scelte patriottiche: giovanissimo aderisce alla Repubblica di Salò; poi si pente e dopo il ’45 diventa comunista; impiega trent’anni a capire che il comunismo non va e si sposta su Craxi, guarda caso sulla cresta dell’onda; poi si ripente, in coincidenza con la caduta dell’italo-tunisno e nel ’96 aderisce a Forza Italia e con voti berlusconiani entra in Senato; poi si riripente e passa al Gruppo Misto; da qui, sempre per trovare un po’ di pace alla sua travagliata anima politica, aderisce a “Innov.Ital.Liberaldem.Ind.-Pop. per l’Europa”. Poiché ha ancora davanti a sé, e glielo auguro, lunga vita, è possibile che abbia in futuro un qualche altro ripensamento. Non sul suo avvenire, ma sul suo passato vorrei dire qualcosa. Nel 1995 Mondadori pubblicò “Fascismo e Antifascismo”, una raccolta di saggi di Augusto del Noce, un filosofo piemontese scomodo e coraggioso, vittima dell’ostracismo dei bobbisti, ma che leggeremo ancora quando di Bobbio & C. non si ricorderà più nessuno. Ebbene, Vertone scrisse una specie di pre-prefazione al libro, con titolo “Invito alla lettura” di Del Noce. Mi piacque. L’ho riletta: mi piace ancora, perché, indubbiamente, la penna è di livello e il Vertone è un abile giocatore con i concetti. Perché l’ho riletta? Perché in questi giorni il nostro pubblica l’ultima sua fatica libraria con titolo: “Le rivoluzioni incrociate”, in cui afferma che a 17 anni arruolandosi nella Repubblica Sociale Italiana abbracciò un “principio infame”. Si dice che il Vertone si appresti a rientrare nella sinistra colorata e del suo libro fanno recensioni entusiaste soprattutto colleghi di quella cromìa. Dal grado di successo del libro, che auguro all’autore, si potrà capire quanto interessano ancora al pubblico le “confessioni di un ottuagenario”, visto che anche il grande Ippolito Nievo è dimenticato. Ma se non fosse un successo sarebbe un male, perché le persone intelligenti perderebbero l’occasione di interessanti constatazioni. Infatti, per uno che ha già cambiato partito tante volte, che differenza fa che all’età della prima barba avesse aderito alla Repubblica di Salò, piuttosto che a una formazione partigiana? Comunque dovrebbe esserne fiero, perché chi in quegli anni di grande travaglio e scelta impossibile ebbe il coraggio di schierarsi dimostrò di avere avuto qualcosa dentro per cui illudersi di lottare e rischiare. Vertone probabilmente non si ricorda appieno di quella pre-prefazione e sembra aver dimenticato che la storia, anche quella personale, non la si può cambiare con un giudizio e ancor meno con una excusatio, come in questi tempi di dilagante pentitismo va di moda anche nei Sacri Palazzi. La storia, buona o cattiva, è la radice di un popolo e di un uomo. Il nichilismo sopravviene proprio quando la si cancella, perché un vuoto di storia non si può riempire. Invece di tranciare tanti giudizi e tanti mea culpa, gli italiani dovrebbero incominciare a capire che tutte le scelte sono buone o cattive, in funzione del vincitore. Ma ciò che conta è la capacità di onesta illusione, di chi ha saputo effettuarle e non, come i pavidi, di attendere il carro del vincitore per salirci all’ultima ora. Vertone fa male a non vantarsi della sua scelta di diciassettenne. Che conta è il fiore, non il terreno da cui spunta! Oltretutto, se un uomo è intelligente a settant’anni non poteva essere stupido in gioventù ed è contraddittorio sostenere oggi che tanti anni prima non si era accorto di questo o di quest’altro. Se una scelta fu fatta, doveva pur essere sorretta da una qualche valida ragione, che, a distanza di tempo, può essere stata dimenticata. Restano solo i fatti, di cui è impastata la storia generale e quella personale. Preferisco il Vertone imberbe, perché quello di oggi mostra segni di stanchezza. Ha cambiato tante volte e ogni transito deve essere stato un passaggio sofferto, se sembra aver perso un po’ la misura delle cose che contano veramente nella vita. Ma la sofferenza non è poi tanto del “travaglio” in sé, ma è per l’esito. Prendete una partoriente. Travaglia, però ti dà un pupo! Vertone… Bisognerà ricordarsi dell’editore: un uomo coraggioso.