1 – Principi generali sull’onere della prova

 

a) l’onere della prova

 

Lo scopo di questa nota è di riproporre il problema dell’onere della prova relativo all’esistenza o mancanza di organizzazione del lavoratore autonomo, che determina la debenza o l’esclusione dell’Irap. Per non lasciare la conclusione indimostrata, è opportuno svolgere una premessa, che attiene alla natura e alle caratteristiche della prova,

Il diritto romano, molto avanzato in tema di diritto civile, aveva stabilito l’ineccepibile regola processuale che onus probandi ei incumbit qui agit, non qui negat, di cui l’art. 2697, comma 1, del nostro codice, è una traduzione persino letterale: «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento », dove i termini topici sono tre: “diritto”, “giudizio” e “fatti”. Deve cioè trattarsi di un “diritto fondato su fatti” e non su ipotesi astratte, la cui applicazione è pretesa in un “giudizio” a carico di chi agisce, cioè l’ “attore”. È evidente che la sede in cui si sviluppa la dialettica è il “processo”. Questa precisazione, che è anche una delimitazione, pone la conseguente domanda: come si può estendere al diritto tributario una simile norma? Finché si tratta di “onere della prova in giudizio”, la traslazione “potrebbe” essere relativamente facile, visto che si tratta di norma processuale e considerato il rinvio operato dal legislatore del D.Lgs. 546/1992 al codice di procedura civile, ma il condizionale è d’obbligo visto che il rinvio sotto molti punti di vista è “infelice”, perché il processo tributario dovrebbe essere “altra cosa” rispetto a quello civile. Infatti, dopo aver assimilato: il ricorrente contro un avviso di accertamento all’attore del giudizio civile e l’Amministrazione al convenuto, si constata che l’analogia non sempre funziona, a parte il pasticcio di un rinvio, che già all’origine deve scontare l’equivoco dell’ “in quanto compatibile” (art. 1, comma 1, D.Lgs. 31.12.1992, n. 546). Lo riconosce la Corte di cassazione, che, in sentenza 10 febbraio 2001, n. 1930, afferma la massima: «Nel processo tributario non vige in materia di prova il rigoroso principio dispositivo del processo civile e la Commissione tributaria è dotata di poteri istruttori uguali a quelli conferiti agli Uffici tributari dalle leggi d’imposta ».

 

b) l’accertamento come provocatio ad opponendum

 

La Suprema corte persevera nel qualificare l’accertamento come provocatio ad opponendum, che, preso alla lettera, significa all’incirca: l’Amministrazione fa un accertamento, della cui fondatezza potrebbe anche non curarsi, perché la sua funzione è di provocare il ricorso del soggetto passivo, dopodiché il problema riguarderà la fase contenziosa. Non si tratta di una soluzione, ma di un rinvio, che non risolve il problema della prova e del soggetto, cui incombe l’onere della produzione. In effetti si constata che la chiarezza del rapporto giuridico d’imposta si avvantaggerebbe senza quel latinetto, che, innestato sic et simplicter, diventa solo un richiamo rozzo e di dubbia applicabilità, se la Suprema corte, quando ne fa uso, sente il bisogno di precisare che comunque nell’accertamento l’Amministrazione ha l’obbligo di porre in grado il contribuente di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestare efficacemente l’an e il quantum debeatur. Allora si dovrebbe concludere che, nonostante l’espressione letterale, la provocatio ad opponendum non è un carattere dell’atto di accertamento, ma della sua motivazione e che il binomio attore-convenuto non è adatto al processo tributario, come si evince dalla giurisprudenza della stessa Suprema corte, che ammette la validità dell’accertamento senza prove da lasciare alla fase successiva, purché motivato [1], conclusione a cui non sarebbe logico pervenire se l’accertato fosse semplicemente convenuto e l’opponente attore. A ben vedere questa constatazione è un’ulteriore dimostrazione che il rinvio formale al codice di procedura civile è stato inopportuno. Infatti, il rapporto tra soggetto passivo d’imposta e soggetto attivo non è limitato alla fase (eventuale) contenziosa, ma si sviluppa con una serie di azioni e comportamenti, che appartengono più al diritto amministrativo [2], se si considera che la pretesa dell’Amministrazione a riscuotere una somma a titolo di imposta trae origine da un atto emanato dalla stessa (accertamento) o da un’azione negativa del soggetto passivo (richiesta di rimborso). Quindi, è più corretta la tesi che privilegia l’oggetto e non una pretesa categoria del soggetto, come sostiene il Batistoni Ferrara, che lega l’onere della prova alle deduzioni delle singole parti dei fatti compresi nelle rispettive tesi [3], posizione condivisa dal Russo, per il quale: «l’incombenza dell’onere della prova non si presta ad essere assegnata in funzione della veste formale di attore o di convenuto assunta nel processo dalle varie parti, bensì in funzione del vantaggio che ciascuna di esse è destinata a ricavare alla stregua del diritto sostanziale dalla (e quindi in relazione al rispettivo interesse alla) dimostrazione dei fatti dedotti in giudizio ».[4]

 

c) fondamento del rapporto giuridico d’imposta

 

La fase amministrativa dell’accertamento, che è sempre preparatoria di una situazione successiva [5] inevitabilmente influenzandola, a meno di acquiescenza (abbandono di una delle due parti) o di conciliazione, non è regolata da una legge organica e così si spiegano le incertezze di applicazione dell’onere della prova. Queste incertezze non attengono tanto al contenuto o alle caratteristiche della prova, che, peraltro, pur essendo un modus hanno importanza determinante, ma al soggetto onerato di presentarla. A questo punto, quasi a rendere il problema ancor più complicato, interviene anche la determinazione del momento in cui sorge il “rapporto giuridico d’imposta”, secondo le due contrapposte teorie che vedono il sorgere dell’obbligazione tributaria nella legge oppure nell’atto accertativo dell’Amministrazione finanziaria, che per la continua evoluzione sta diventando autoaccertativo e autoliquidatorio da parte dello stesso soggetto passivo d’imposta. Il richiamo a mai sopite diatribe della dottrina non è banale, perché, se il “rapporto giuridico d’imposta” nasce nella legge, allora la prova a carico dell’accertatore diventa un elemento poco importante, ma se nasce dall’attività del soggetto attivo (accertamento), allora la prova diventa elemento costitutivo dell’atto stesso. Si può ritenere che questa seconda tesi, che risale a Giannini [6], sia prevalente, come si evince dall’art. 39 del DPR 600/1973, che, prevedendo il “rovesciamento dell’onere della prova” a carico del contribuente, afferma implicitamente che quando rovesciamento non c’è, la prova incombe all’Ufficio per la “rettifica del reddito dichiarato”. Non si deve inoltre dimenticare una fattispecie che rientra nella fase anteriore all’eventuale processo: la richiesta di rimborso o di detrazione o di applicazione di agevolazioni, il cui onere di prova è a carico di chi avanza la pretesa e, a maggior ragione, nell’eventuale fase successiva contenziosa[7].

 

d) onere della prova e attività del contribuente

 

Questa premessa sembra un inventario di difficoltà e di contraddizioni, ma il tema non si presta a facili semplificazioni. Invece, è possibile indicare fattispecie in cui si manifesta il problema dell’onere della prova. Si può proporre un sequenza del tipo:

a) accertamento o rettifica della dichiarazione: trattandosi di un’attività dell’Ufficio è questi che deve dare la prova che costituisce il “rapporto d’imposta” e quindi il debito o il maggior debito d’imposta, salvo che la legge abbia previsto, in via eccezionale, il “rovesciamento dell’onere della prova”; rovesciamento che, a ben riflettere sull’art. 39 del DPR 600/1973, è da spiegare come un indiretto “atto punitivo” nei confronti di un soggetto, che ha assunto comportamenti contrari al rispetto della legge, ciò che giustifica l’eccezione. La ratio della punizione per l’accertamento induttivo-sintetico non esclude al soggetto accertato il diritto di prova contraria in sede processuale [8]. Poiché l’accertamento deve essere motivato, per i tributi diretti, a sensi dell’art. 42 D.P.R. 29.9.1973, n. 600, si pone anche il problema del rapporto tra onere della prova e motivazione. Si può sostenere che la prova sia il supporto della motivazione o anche che la motivazione sia la conclusione logica e la sintetica espressione della prova fattuale o normativa, a prescindere dal momento in cui questa è data, visto che si leggono sentenze che legittimano la presentazione della prova della motivazione anche in una successiva sede processuale [9];

b) pretesa del rimborso totale o parziale di un’imposta che il soggetto passivo afferma indebitamente versata. La sua affermazione di un “debito d’imposta” inesistente e che vorrebbe rovesciare in “credito d’imposta” esige di essere provata, quindi l’onere della prova incombe a chi fa la domanda, che è dello stesso tipo di chi invoca l’applicazione di un regime agevolato. Si tratta di dare la prova di non essere nelle condizioni previste dalla legge per subire un’imposizione e, a ben vedere, è un onere simmetrico a quello che incombe all’Ufficio quando erige un accertamento o una rettifica e rientra nel principio generale che onus probandi ei incumbit qui agit [10];

c) fase contenziosa o processuale, per la quale vale il principio generale dell’onere della prova a carico dell’attore (qui agit). È significativa, anche per le conseguenze ritraibili sul piano logico, la massima della Suprema corte, secondo cui: « L’inversione dell’onere della prova, in mancanza di apposito patto ex articolo 2698 del codice civile, può risultare anche dal comportamento processuale della parte, ma, affinché ciò si verifichi, non è sufficiente che la parte sulla non quale grava l’onere deduca o anche offra la prova, occorrendo, invece, la inequivoca manifestazione della parte medesima di voler rinunciare ai benefici e ai vantaggi che le derivano dal principio che regola la distribuzione dell’onere stesso e di subire le conseguenze dell’eventuale fallimento della prova dedotta od offerta ».[11]

 

2 – Il caso del professionista

Il problema dell’onere della prova si ripresenta nel caso del professionista, che sostenga la non assoggettabilità a IRAP per mancanza di organizzazione o meglio, per mancanza dei requisiti previsti nell’art. 3 del D.Lgs. 446/1997 e ribaditi nella sentenza costituzionale 21.5.2001, n. 156.

Possono darsi due circostanze di fatto:

1) il professionista presenta la dichiarazione annuale dei redditi e autoliquida l’IRAP, chiedendola a rimborso. In questo caso, che rientra nella specie b) dello schema precedente, l’onere della prova incombe al richiedente e così nella eventuale fase successiva del processo tributario, secondo il principio generale del diritto processuale;

2) il professionista, ritenendo di non essere nelle circostanze previste dalla legge per corrispondere l’imposta (mancanza di organizzazione), non dichiara alcun reddito a fini IRAP e, quindi, non ha richieste di rimborso da presentare. Se l’Ufficio in sede di verifica della dichiarazione propone un accertamento in rettifica deve dare la prova che il contribuente si trova nelle circostanze previste dal citato art. 3 D.Lgs. 446. Se il soggetto passivo interporrà ricorso, egli potrà arrischiare di contestare sic et simpliciter la mancanza di prove a carico dell’Ufficio, purché questi non le abbia date e spiegate nelle motivazioni dell’atto impugnato. Ma se l’impugnante riterrà di assumersi volontariamente e prudentemente anche un onere probatorio, oppure vorrà fornire controprove a sua difesa contro quelle fornite dall’Ufficio, allora si rientrerà nella dialettica processuale normale, ma potrà valere per il ricorrente il principio stabilito dalla Corte di cassazione nella sentenza 10.12.2002, n. 17573.

 

Pietro Bonazza


[1] Nella massima della sentenza Cass., 16.8.1993, n. 8685 si legge che : «…la prova non è richiesta come elemento costitutivo dell’accertamento, né la sua mancanza può incidere sulla validità dell’avviso stesso, in quanto deve essere fornita solo in un momento successivo, ossia in sede processuale, quando a seguito dell’opposizione del contribuente si proceda alla verifica della fondatezza sostanziale della maggiore pretesa tributaria ».

[2] Si veda l’affermazione, seppur obiter dictum, di una fase di diritto amministrativo, in Cass. 28.10.2003, n. 16161.

[3] F. Batistoni Ferrara, Processo tributario, in “Dir. Prat. Trib.”, 1983, I, pag. 1620.

[4] P. Russo, Processo tributario, in “Enciclopedia del diritto”, vol. XXXVI, Milano, 1987, pag. 782.

[5] Si ricordi, in proposito, la tesi pessimistica o addirittura negativa della Corte di cassazione che l’accertamento è una provocatio ad opponendum, cioè uno stimolo al contenzioso.

[6] Si veda il classico testo di A.D. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1960, cap. 5., sostenitore della natura dichiarativa dell’accertamento, che ha la funzione di attivare l’esigibilità di un debito, data la sua origine nella legge. Mi pare fondato sostenere che il “rapporto giuridico d’imposta” nasce dalla legge, mentre il “debito d’imposta” nasce dall’accertamento. Peraltro, i sistemi autoliquidatori sembrano rilanciare la validità della tesi della natura non costitutiva dell’accertamento. Invece. la tesi della natura costitutiva dell’accertamento per la nascita del rapporto giuridico d’imposta risale a Enrico Allorio, Diritto processuale tributario¸Torino, 1962. Più articolata, rispetto a fattispecie diverse nei vari tributi, è l’analisi di G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1984, Cap. VI. Si veda anche L. Rastello, Diritto tributario, Padova, 1987, pagg. 535 e segg.

[7] Cass. 9.4.2003, n. 5599

[8] Cass. 15.12.2003, n. 19174 [in BTI 2004, n. 9, pag. 700]

[9] Comm. Trib. Prov. La Spezia, 6.8.2001, n. 128.

[10] Cass. 5989/1997, Cass. 21.7.2000, n. 9604 [in Boll. Trib. 2001, n. 5, pag. 38]

[11] Cass., 10.12.2002, n. 17573.