In politica non si è mai soli. Anche nelle maggioranze bulgare c’è sempre una minoranza, tanto più arrabbiata quanto più è ridotta all’inattività, al silenzio e alla forzata condivisione

Due sono i modi per vincere in politica: o per virtù e forza proprie o per vizio e debolezza dell’avversario. Il sistema dei poli attua in modo totale questo dualismo, perché le forze politiche in campo: maggioranza e minoranza, finiscono per essere una coppia di posizioni contrapposte. Ciò che sta accadendo in Italia da poco più di un anno sfida ogni logica: la minoranza, con il supporto di senatori a vita non eletti dal popolo ma da cariatidi che cooptano altre cariatidi, governa e la maggioranza sta nel polo opposto, ma con tali distinguo da far dubitare che sia un’aggregazione costituita solo al momento del voto.

La minoranza che governa è talmente consapevole della propria debolezza che usa tutti i mezzi palesi e occulti per rimanere nella stanza dei bottoni, producendo guasti irreparabili. Ma di questa non intendiamo occuparci, perché a dipingerla in modo palese bastano i più di venti voti di fiducia in circa un anno di malgoverno per varare provvedimenti che conculcano la libertà di voto dei suoi stessi componenti e minano il pilastro fondamentale della democrazia. Vogliamo occuparci, invece, della opposizione, che è tale perché vittima della propria stupidità passata (si veda il voto degli italiani all’estero), ma è anche schiava della propria incapacità presente, a sua volta premessa di un’ulteriore sconfitta futura.

Trascuriamo il premier, che ha più l’aria di un ex pugile suonato, che non di un ciclista scalatore dello Stelvio, come vorrebbe far credere e osserviamo un po’ il suo antagonista: il cavalier d’ar-core sfarfallante. Gigioneggia e finisce per assumere un’aria un po’ coglioncella, di chi attira la copertina dei gossip, che ha fatto tanto incazzare la moglie, la quale, nell’arena a las cinco de la tarde, ha infilzato il toro manso con un colpo di veronica. Ebbene, questo tycoon delle antenne, improvvisatosi politico di razza, da qualche tempo si bea con i dati dei sondaggi, dei tesseramenti, dei circoli brambilleschi, che lo danno per vincente alle prossime non si sa che cosa. Ma qui, caro Cavaliere, servono i voti che escono dalle urne non dalle agenzie di esperti in exit pol, con cui ti fai vento e, se hai ancora la caldana, è bene ti ritiri in frigorifero in attesa di frollatura. Ci vorrebbe la canzonetta di Carosone Tu vo fa l’americano, solo che l’americana lo fa la moglie, che ha preso casa a New York e allora, da quel bravo strimpellatore di chitarra e cantante in erba sarda che sei, ti conviene fare il D’Artagnan. Ma così non va, perché la politica è un’altra cosa e non la dottrina del possibile come diceva Bismark, che al posto del cervello aveva un elmetto teutonico fermato da un chiodo, ma è quella gran puttanata che il geniale Machiavelli ha descritto una volta per tutte, finendo sulla graticola della Chiesa, che sotto sotto lo ha stimato fino a praticarne i consigli. Però, dalla favoletta di Dumas sappiamo che D’Artagnan non è solo. Ci sono gli altri tre rodomonti: un ex-post-ultra-praeter democristiano azzurro caltagironesco, talmente pieno di aspirazioni che neanche un aspirapolvere industriale basterebbe; un ex-post-contra-prater fascista con la faccia da tortellino, da chierico, da vice, mancandogli la mascella ducesca, che ha assunto la funzione di ex doroteo in servizio permanente effettivo; un leghista sfortunato, al quale un accidente che non augureresti al tuo peggior nemico, ha arrochito la voce fino alla difficoltà di espressione e di comprensione, un ex gladiatore declassato da Spartaco a Lazzaro resuscitato, passato per necessità dal celodurismo al tiramollismo, fedele di giorno al signore di Arcore e di notte fedifrago, nel tentativo di navigare nei mari procellosi del cosiddetto centro destra. Intorno a questo polo gira una nuova giostra di intellettuali spocchiosi e convinti di essere l’elite pensante, il pensiero stesso incarnato. Parlano solo tra di loro, discettano di massimi sistemi del liberalismo, del liberismo e vaccatine varie passate di moda, facendo piovere dall’alto il distillato della loro scienza sociopolitica. Non si rendono conto che oggi per vincere le elezioni occorrono milioni di voti soprattutto dei giovani e non di consensi oligarchici o aristocratici. Non intendono considerare che i giovani votanti sono in gran parte gli stessi che frequentano le discoteche e vorrebbero credere in qualche cosa di concreto e non nebuloso, tratto da un sapere polveroso e derivato da idee che hanno fatto le ragnatele.

Vorremmo dire al Berlusconi, che tutto sommato è il più credibile, o se volete il meno incredibile di questo carro di Tespi della politica italiana che imbarca maggioranza e opposizione sulla stessa carretta con ruote trasversali: la smetta di fare il goliardo e di giocare al buonismo, in nome di una coerenza con il garantismo professato in passato, perché con una politica sporca ci si deve sporcare le mani e picchiare duro dentro e fuori dal suo polo; non è con quei quattro nani della politica che deve fare patti, ma con gli italiani, dicendo chiaro e tondo come facevano i tedeschi “o con noi o contro di noi”, traduzione fedele dell’aut…aut dei tempi di Giulio Cesare.

Se non accetta questo gioco democraticamente forte, si faccia da parte. Ci sarà pure un qualche masaniello che non ha timore di mettersi in gioco, come fece un tempo e in solitudine il gladiatore di Gemonio, che avrà avuto tanti difetti, ma certo al suo popolo sapeva parlare, perché sapeva intenderlo. E se gli accadrà di tornare a fare il premier, per disperazione di popolo più che per convinta condivisione, non faccia più ministro il suo cavallo, perché al Caligola già capitò di restare senza ciabatte.

Pietro Bonazza