Dove va, se va, l’economia mondiale? Le carte geografiche sono confuse. Non ci si deve stupire. Greenspan, da economista serio, ha ammesso recentemente: « Non ci capiamo quasi nulla ».
Intanto che le forze politiche e corporative italiane si sprecano sulla finanziaria in contrasti di basso livello per stabilire se sono meglio lacrime subito o lacrime e sangue domani, pochi ammettono che la nostra economia è solo un vagone in uno spezzone di euro-treno senza locomotiva. La funzione di traino spetta ancora, piaccia o no, agli Stati Uniti. È a questo sistema-paese che dobbiamo guardare per capire dove stiamo andando o, meglio, dove ci stanno menando. Non chiediamolo a Chirac o a Schröder, che, nonostante arie napoleoniche e bismarkiane, hanno spessore politico inversamente proporzionale alla corpulenza. E fortuna che l’Europa politica non c’è, se no staremmo freschi con gente così a governare il Vecchio Continente e noi a subirli.
Allora, non per simpatia ma per realismo, cerchiamo di capire che vento tira Oltreatlantico in riferimento al 2003, che è anche il quadro temporale della finanziaria.
La nostra economia ha un doppio legame, da un lato con la comunità europea, come dimostrano i flussi di import-export all’interno, dall’altro con la politica statunitense soprattutto nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. La finanziaria non può prescindere da questo contesto e deve mettere in conto i due legami, poiché l’obiettivo è di far trovare l’Italia pronta al rilancio quando l’economia mondiale si presentasse in ripresa. Allora, se l’Europa non tira, è logico che l’Italia debba guardare con attenzione alle mosse statunitensi e all’andamento di quella che continua a essere l’unica locomotiva economica del mondo, soprattutto nell’immediato futuro. Le domande principali sono due: ci sarà guerra in Iraq? e recessione negli Usa?
Lo spauracchio della guerra all’Iraq nasconde problemi poco evidenti. Certo che gli Stati Uniti di Bush, capito il disastro di eredità lasciato dall’amoroso Clinton, hanno sostituito la loro politica di intervento all’estero con una “dottrina” e la guerra la faranno, perché la spianata di Manhattan al posto delle Torri Gemelle è un vuoto nel cuore dell’America. Quel paese, proprio perché è giovane, ha la memoria pronta e questo non è solo un problema politico internazionale, ma anche economico, perché è pacifico che gli americani laveranno l’onta subita con il petrolio, che, se non è un medicinale, è almeno un balsamo. Non si dimentichi quel che ha significato nel lungo periodo della storia americana la “dottrina Monroe”, tanto per fare un esempio. Che accadrà, nonostante il vecchio liberale Milton Friedman abbia avvertito che con la guerra si dirottano produzioni da beni per una crescita pacifica ad altri creati per distruggere? Ma, paradossalmente, le bombe aiutano le politiche keynesiane, cosicché pare prevedibile che gli Usa scaricheranno su Saddam le bombe rimaste in magazzino dopo i bombardamenti sull’Afghanistan; poi le imprese americane si prenderanno le commesse per ricostruire quel paese alla faccia di francesi e tedeschi, speriamo non di italiani. Certo, le guerre costano, almeno all’inizio; poi non è escluso che rendano a chi le vince. Chi non ricorda il piano Marshall dopo la fine della seconda guerra mondiale? Forse non fu un grosso vantaggio anche per gli USA? La carità, se non è quella di Francesco d’Assisi, è sempre un po’ pelosa. Il punto più critico dello scenario è che le guerre costano, almeno all’inizio, come tutti gli investimenti. È un discorso cinico, ma è vero. Gli Stati Uniti vanno alla guerra con un pesante fardello iniziale: l’enorme deficit della bilancia commerciale, destinato a dilatarsi con le spese belliche. Per il resto l’economia americana va bene: bassa inflazione e ben governata; disoccupazione contenuta e comunque sotto controllo; produttività sempre elevata; pil non esaltante ma non negativo. Proprio quest’ultimo dato consente a economisti di buona fama di affermare che non vi sarà recessione, cioè due trimestri consecutivi di crescita negativa, e comunque non si cadrà nel temuto double dip, una recessione che segue a una debole e illusoria ripresa. Se avranno ragione gli americani anche l’ottimista di Arcore avrà buon gioco, se no cambierà il superministro dell’economia per la soddisfazione dei sostenitori della tesi – e ce ne sono in tutti i giornali – che basta una toccatina ai tassi d’interesse o la defenestrazione di un “assiso” ministeriale per risolvere tutto. Magari! Ma il gioco di dare la colpa a qualcuno è sempre sterile. Ognuno ha le sue colpe, talvolta risalenti e che fanno maturare oggi i loro effetti differiti. Per questa consapevolezza Visco è il meno chiassoso tra gli oppositori.
La nostra realtà attuale riflette grossi problemi. Sul piano economico abbiamo: un’inflazione che, colpa o no del passaggio all’euro e della furtiva destrezza di molti commercianti, sta rialzando la testa; un debito pubblico straripante; un Pil che non cresce come si vorrebbe per consentire un assorbimento più morbido delle modificazioni strutturali, di cui il nostro sistema economico, giuridico e sociale ha bisogno dopo troppi anni vissuti all’insegna del rinvio e della contingenza. In questo contesto che fare? Facciamo una finanziaria, sperando che basti e ricordando che non esistono finanziarie “buone”, tanto meno dopo il conferimento alla BCE della politica monetaria, lasciando al singolo aderente le sole leve fiscali sul gettito e sulle spese, ciò che non spiega perché il governatore di Bankitalia, rimasto senza moneta, continui a fare il grillo parlante. Se l’economia USA riprenderà la corsa accelerata anche l’economia italiana avrà buone probabilità di ripresa e al ritorno a una buona redditività delle imprese seguirà un incremento del gettito fiscale per un respiro meno affannoso dei nostri conti pubblici.
Non facciamo un tifo sfegatato per il dollaro, ma nemmeno illudiamoci che con l’euro a 0,98 si risolveranno i problemi dell’Europa e dell’Italia; semmai saranno avvantaggiate le esportazioni USA, facendo respirare il deficit della loro bilancia commerciale, che è il problema di fondo dell’andamento dell’economia mondiale, anche se gli americani, guerra o non guerra, non si stracciano le vesti, perché sanno che quest’epoca sta in piedi su due pilastri: il petrolio e il dollaro. Il primo se lo prenderanno con la forza, il secondo lo proteggeranno con il signoraggio, che è ancora forza. Il dollaro continua a essere la moneta del mondo e chi la emette ha un grande vantaggio e può permettersi deficit di bilancia anche enormi. I primi a saperlo sono gli sceicchi, che, invocando Allah, fingono di odiare zio Sam, ma non sprecherebbero una goccia di sangue o di petrolio per Arafat & C. A Palazzo Chigi lo sanno bene gli inquilini di oggi e lo sapevano quelli di ieri. Questo spiega perché, al di fuori dei girotondi e del folclore delle piazze, finché dollaro e petrolio andranno a braccetto, pur fingendo il contrario, la nostra politica estera sarà quella che è, perché la nostra economia non può trascurare quel riferimento. Berlino è lontana, quasi baltica, e Parigi non vale più una messa.

(Pubblicato in “ItaliaOggi” del 18 ottobre 2002, pag. 1)