Emanuele Severino, filosofo bresciano, amato e odiato – il che depone a suo favore -, missionario di un pensiero forte, in antitesi con quello “debole” del piemontese Vattimo, sostiene che gli enti non possono che essere eterni. Pur essendo immeritatamente suo conterraneo (mi scusi prof. Severino se non ho potuto scegliere un luogo diverso, ma i miei avi molti secoli fa avevano preferito ad altre la terra dei Longobardi lenesi), mi ero dimenticato quella non banale teoria il 5 agosto 2000, quando nel “Dare a Cesare…” ho dato credito alla notizia ministeriale che il Secit era in procinto di essere cancellato. Mi sono sbagliato. Il Secit non verrà cancellato, perché il Consiglio dei Ministri del 10 novembre 2000, quando i bit del mio dialogo ancora mi danzavano davanti agli occhi, ne ha decretato la sopravvivenza insieme ai Monopoli. Avrei dovuto immaginarlo. In un Paese che ha impiegato mezzo secolo a cancellare l’Istituto per le colonie e che quando decide solennemente di ridurre il numero di ministeri e sottosegretari, vuol dire che li aumenterà, che quando un referendum abolisce un ministero (Agricoltura) lo reinventa sotto altro nome, non avrei dovuto nemmeno lontanamente illudermi che il Secit sarebbe morto. Non è solo questione di teorie severiniane, ma è necessità politica: i partiti hanno tante bocche da sfamare e il cibo migliore è una carica governativa. Avevo dimenticato la legge di Parkinson. Chiedo venia. Anzi non chiedo niente. Tiro un moccolo bresciano, pensando alla quota di quattrini in tasse, che dovrò continuare a pagare per la sopravvivenza di certa burocrazia.