L’inerenza non può essere quantitativa e il concetto non è innovato dal D.Lgs. n. 344/2003 sull’Ires
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(articolo pubblicato sulla rivista “il fisco”, n. 31/2004)
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L’inerenza in diritto tributario indica un collegamento tra due fenomeni, il primo in posizione principale (impresa) e il secondo in posizione subordinata (costo), o anche: il primo statico (l’impresa è sempre la stessa dall’inizio alla sua liquidazione) e il secondo dinamico (i costi si verificano continuamente nel tempo). Il concetto di inerenza, riguarda principalmente l’IVA e l’imposta sul reddito e dalla sua definizione discendono conseguenze per i regimi di detraibilità dell’imposta (IVA) o di deducibilità del costo (imposta sul reddito).
1) IVA
Nel DPR 633/1972 non si rinvengono definizioni nemmeno indirette del concetto di inerenza, ma vi hanno provveduto dottrina, prassi ministeriale e giurisprudenza, che hanno aperto un annoso dibattito sulla detraibilità e rimborsabilità dell’imposta subita per rivalsa in relazione al collegamento tra l’operazione e l’oggetto dell’attività d’impresa. L’Amministrazione finanziaria, partendo dall’ipotesi che il collegamento tra l’art. 4, comma 2, n. 1, e l’art. 19 del DPR 633/1972 consentirebbe, almeno per le imprese societarie, la soggezione di “tutte” le operazioni generatrici di ricavi e la detraibilità dell’IVA subita per “soli” acquisti e servizi “inerenti”, ha costruito un sistema disallineato, che ammette duplicazioni di imposta nell’intento, attribuito al legislatore, di penalizzare operazioni elusive. Questo sistema è enunciato nella risoluzione 16.10.1990, n. 666305, e nelle circolari 17.12.1991, n. 57 e 15.5.1996, n. 128/E, ma ha dovuto fare i conti con la Commissione europea, che ha ritenuto l’interpretazione ministeriale in contrasto con la sesta direttiva comunitaria. Il Ministero delle Finanze, per evitare il deferimento alla Corte di giustizia UE, ha emanato la Circolare 8.5.1997, n. 128/E, con cui ripristinava piena simmetria tra operazioni IVA in entrata e in uscita, dando anche valore non parziale al concetto di inerenza, insito nella presunzione iuris et de iure dell’art. 4 del DPR 633/1972. La Corte di cassazione, dopo la sentenza 1.12.1987, n. 8939, con cui ha introdotto il concetto di società senza impresa e di società inesistente, ha ripiegato sulla più processuale tesi della necessità che dell’inerenza sia data la prova, a carico del soggetto (sentenze 19.5.1992, n. 5981 e 21.12.1999, n. 14350), tesi confermata anche nella recente sentenza 9 maggio 2003, n. 5599, che, però, lascia aperto il problema della coerenza con l’interpretazione data dalla Commissione UE.
Non è certo che la discordia sia definitivamente superata dalla Circolare 128/E, abituati, come siamo, a strani ritorni e riflussi, ma dalla questione si ricavano tre insegnamenti:
a) il riconoscimento che, almeno per certe materie, esiste un diritto sovranazionale preminente su quello domestico;
b) è pericoloso per l’Amministrazione aggrapparsi a pretese qualifiche di antielusività di norme, che fanno parte di un sistema normativo creato prima che comportamenti ritenuti elusivi si manifestassero. Nella fattispecie, gli articoli 4 e 19 del DPR 633/1972 sono rimasti invariati sul punto, nonostante le modificazioni apportate dal D.Lgs. 2.9.1997, n. 313. L’elusione, specie nel campo immobiliare, è stata scoperta dopo, ma il contrasto dell’Amministrazione non è avvenuto, come per le imposte dirette, con norme ad hoc (vedi art. 37-bis del DPR 600/1973), bensì proponendo di forzare la ratio della norma originaria di sistema. Il tentativo è stato così maldestro, che si è smentito da sé, proprio con la circolare 128/E;
c) l’inerenza (ma lo stesso si potrebbe dire della società senza impresa e della società inesistente) è un concetto da manovrare con cautela e comunque non a spezzoni e senza disgiungere flussi di operazioni.
È noto che all’origine della querelle c’è stata la delibera 77/1991 del Secit, che ha rilevato l’esistenza di operazioni volte a eludere disposizioni di legge ed è innegabile che il fenomeno può avere ripercussioni negative per l’Erario, nonostante la neutralità dell’IVA e la sua tecnica di applicazione, che scarica comunque il tributo sul consumatore finale. Ma è la scelta dello strumento (inerenza) che si è rivelata inadatta, al punto che lo stesso Ministero ha dovuto riconoscere nella Circolare 57/1991 che la tesi “produce una qualche disarmonia”. A casi come quelli esaminati dalla prassi ministeriale e dalla giurisprudenza della Cassazione si può porre rimedio solo con lo strumento legislativo, ammesso che abbiano la natura perversa dell’elusione.
2) Imposta sul reddito
Si riconosce da parte della stessa Amministrazione finanziaria [1] che l’inerenza dei costi, indicata nell’art. 75, comma 5, Tuir 917/1986, non è più: «…legata ai ricavi d’impresa ma all’attività della stessa, con la conseguenza che si rendono deducibili tutti i costi relativi all’attività dell’impresa e riferentesi ad attività e operazioni che concorrono a formare il relativo reddito ». L’interpretazione trova frequente applicazione per risolvere i problemi delle spese di rappresentanza. La casistica è molto vasta e si possono citare riferimenti al pensiero dell’Amministrazione nella circolari e nella giurisprudenza, in riferimento alla fase dell’accertamento, all’eventuale successivo contenzioso, al concetto astratto e all’onere della prova dell’inerenza di singole operazioni posto a carico del contribuente [2].
Recentemente la Corte di cassazione si è occupata della deducibilità dei compensi degli amministratori di società giudicati sproporzionati e riaprendo il noto problema dei limiti dell’attività di accertamento, ma si dovrebbe dire di apprezzamento, che toccano la libertà di scelta dell’imprenditore. Si notano tre sentenze:
a) 17.9.2001, n. 11645 [3], in cui la Cassazione afferma che se il contribuente effettua, senza adeguate motivazioni, scelte contrarie ai canoni dell’economia, legittima, quasi ad provocandum, l’accertamento induttivo da parte dell’Ufficio a sensi dell’art. 39, primo comma, lettera d) del D.P.R. 600/1973;
b) 30.10.2001, n. 13478 [4], in tema di compensi agli amministratori, in cui si legge: « È invece convinzione di questa Corte che l’amministrazione finanziaria ben può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e procedere a rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, e di conseguenza negare la deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa ». Si noti la locuzione “deducibilità di parte”;
c) 9.5.2002, n. 6599 [5], sezione diversa dalla precedente, che, sempre in tema di compensi agli amministratori e citando la n. 13478/2001, afferma, al contrario, che: « Questo orientamento [cioè: quello della n. 13478], sostanzialmente ancorato all’esistenza di un potere generale di valutazione dei costi e dei ricavi, insito nei poteri di accertamento dell’amministrazione, non può essere condiviso nello specifico, con riferimento alle somme corrisposte a titolo di compenso degli amministratori nelle società di persone per le seguenti considerazioni…»
L’ultima delle tre sentenze richiamate è senz’altro la più corretta, ma non lascia tranquilli, data la frequente oscillazione del pensiero dei giudizi di legittimità e non è da escludere che la sezione che ha emanato la n. 13478 in una nuova occasione torni a riaffermare la legittimazione dell’invadenza dell’Amministrazione sulle scelte dell’imprenditore, derivando tale potere da un concetto di “inerenza quantitativa”, quindi proporzionale, in sostituzione della inerenza tout cour. Questa sembra l’unica espressione corretta e coerente con l’assunto, dichiarato nella Risoluzione 28 ottobre 1998, n. 158/E, che riconosce che con il Tuir 917/1986, l’inerenza non è più collegata ai ricavi, ma all’attività dell’impresa. Se ciò è vero, e non pare si possano avere dubbi, l’inerenza esclude per definizione una proporzionalità a un parametro, (per la Cassazione: i “ricavi”), che riporterebbe l’inerenza a un contesto normativo anteriore e superato dal Tuir.
Invece, l’inerenza di un costo è un concetto di ordine qualitativo. L’inerenza o c’è o non c’è e l’unico riferimento è la constatazione ben chiara nella citata Risoluzione n. 158/E, per cui, se c’è, ogni altra indagine è superflua.
La Cassazione si è trovata però a esaminare una fattispecie in cui il costo, per la sua specifica natura, è risultato esorbitante, si potrebbe dire “fuori di senso” e ha ritenuto iniquo per gli interessi erariali riconoscerne la deducibilità. Ma, d’altro canto, non potendo negare l’inerenza, nella sua definizione rinnovata, ha dichiarato l’indeducibilità almeno parziale del costo. Si può riconoscere che vi siano casi che urtano il buon senso, ma la Cassazione, intenzionata a essere innovativa su un principio consolidato, non ha nemmeno tentato una motivazione convincente. Ci si può chiedere se la motivazione sarebbe stata più accettabile ricorrendo ai principi di ragionevolezza, di equità, di capacità contributiva violata, di logica giuridica o altro; ma, in tal caso, si sarebbe potuto contestare una motivazione fondata su questi principi, controdeducendo che anche questi sono di ordine qualitativo. Dove incominciano e dove finiscono, la ragionevolezza, l’equità, la capacità contributiva ecc.? La Corte di Cassazione è giudice di legittimità e non di merito e non può entrare in valutazioni di carattere quantitativo, né avvalersi di rinvii alla communis opinio. Avrebbe dovuto dichiarare la deducibilità del costo, perché non esiste una norma che ponga limiti di valore e, nell’ambito della motivazione, ben avrebbe potuto enfatizzare una ritenuta carenza legislativa, auspicando e stimolando un intervento del legislatore. La soluzione peggiore sarebbe stata – ma è proprio ciò che implicitamente è avvenuto – l’invenzione di un concetto di “inerenza quantitativa”, che è fuori dalla legge, ma soprattutto è fuori dalla logica [6].
Ci si potrebbe confortare con il vecchio adagio che “una rondine non fa primavera”, ma sono ormai ripetuti i casi in cui la Cassazione pretende di entrare nel merito, dimenticando la propria funzione di nume tutelare della legittimità e il rischio è il dilagare verso generalizzazioni, che legittimerebbero il potere di valutazione discrezionale di ogni scelta compiuta dall’imprenditore. Non basta a contrastare questo rilievo di ingresso nel merito la considerazione che la Cassazione si limita ad affermare principi, rimettendone l’applicazione con giudizio di rinvio, perché questa metodologia è solo finzione formale.
Si può constatare che, seppur le due imposte Iva e diretta, abbiano finalità diverse e, quindi, reggano su presupposti peculiari, talché il concetto di inerenza possa essere visto in termini diversi, tuttavia esiste un comune denominatore e cioè: l’inerenza o la si accetta per la sua totalità oppure bisogna abbandonarla, perché non è strumento forzabile oltre i suoi limiti concettuali.
Se un obiettivo antielusivo non può essere raggiunto in via interpretativa, resta, come si è già osservato, la sola via legislativa. Per l’IVA non sono certo mancate le occasioni dal 1972 per inserire una norma correttiva o integrativa. Per le imposte dirette e pur rimanendo nel campo dei compensi agli amministratori, il nuovo art. 95, comma 5, così come modificato dal D.Lgs. 12.12.2003, n. 344, sostitutivo dell’art. 62, comma 3, del Tuir 917/1986, non pare abbia innovato la normativa vigente fino al 31.12.2003. Ma nemmeno il principio di inerenza, ritenuto espresso nell’art. 75, comma 5, Tuir 917/1986, dalla citata risoluzione n. 158/E, risulta modificato sul punto dal nuovo art. 109, comma 5.
Trattandosi di legge delegata, in cui il delegato è lo stesso Ministero interessato alle entrate, si deve ritenere, che la conferma della precedente versione della norma sul punto è idonea a tutelare anche gli interessi erariali.
Occasioni perdute o ratifica di due norme (artt. 4, comma 2, n. 1, e 19 per l’IVA e 109 per l’IRES), che non avrebbero la carica di elusione che lo stesso Ministero e la Cassazione avrebbero intravisto con tanta insistenza? Speriamo sia così e non venga accampata una tardiva ammissione di dimenticanza, lasciando alla giurisprudenza e alla prassi ministeriale la discrezionalità di tappare buchi inesistenti.
Pietro Bonazza
[1] Si veda la Risoluzione 28 ottobre 1998, n. 158/E.
[2] Si veda Cass., 20 novembre 2001, n. 14570, in banca dati in “il fiscovideo“.
[3] In “il fisco“, n. 42/2001, pag. 13478.
[4] In “il fisco“, n. 13/2002, pag. 2007.
[5] In “il fisco“, n. 21/ 2002, pag. 3334.
[6] Merita approfondimenti, seppur riproponga concetti qualitativi, la sentenza 4 maggio 2001, n. 75, con cui la Commissione trib. Regionale dell’Emilia-Romagna, risolvendo un caso di accertamento analitico-induttivo ex art. 39, comma 1, lett. D), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, riconosce il principio della discrezionalità dell’imprenditore in merito alla scelta della prestazione ritenuta più economica e conveniente per la propria impresa, a meno che la citata discrezionalità non sfoci nell’arbitrio. La sentenza lascia irrisolto il problema del confine tra discrezionalità e arbitrio.
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