L’economia politica, quella scienza triste (per Carlyle: dismal science), che ha per padre nobile Adamo Smith, un professore di filosofia morale, ha dato da scrivere, da blaterare e, quindi, da mangiare a una moltitudine di defunti e di viventi, attenuando il fenomeno della disoccupazione, anche parlando della medesima. Da quando nel 1776 Smith pubblicò il suo trattato con titolo da sempre tradotto in italiano “La ricchezza delle nazioni”, ma che in inglese è ben più completo e programmatico “The inquiry into the nature and causes of the wealth of nations”, le biblioteche di economia hanno superato tutto quanto il sapere umano aveva lasciato scritto nei duemila anni precedenti e la crescita continua in misura esponenziale. Come si può spiegare un fenomeno così imponente? Forse e tra l’altro, perché gli addetti praticano con somma perizia l’arte del riciclaggio: dire cose vecchie con parole nuove, dando a intendere che non le parole, ma le cose sono nuove. Così capita che più nessuno si sente in dovere di risalire alle origini, perché tutto viene sempre aggiornato e con gergo d’Oltreatlantico, pronunciato con apparente nonchalance, per dare a intendere che è un linguaggio consolidato tra addetti ai lavori, magari inventato pochi minuti prima e diffuso in tempo reale. Chi ha pratica di consigli di amministrazione ha notato con quanta frequenza il finanziere di turno cerca di sorprendere con questo slang esoterico gli altri, che non hanno ancora fatto a tempo a consultare la baby-sitter borsistica. Però, l’economia è una cosa seria, proprio perché ha poche verità di fondo, non sufficienti per diventare economisti, ma senza le quali sarebbe bene dedicarsi alla gestione di una tabaccheria. Il resto è una congerie di tesi, teoremi, dimostrazioni, modelli, equazioni, curve e controcurve da farti uscire di strada, se non sai correggere il sovrasterzo. Per rimanere in carreggiata, non guasterebbe ricordare alcune verità, che non c’è nemmeno bisogno di riscrivere, perché sono espresse con tale chiarezza, da non esporre al rischio del rimaneggiamento. Per esempio, Adamo Smith, riferendosi agli azionisti delle grandi società per azioni, scrive: «…raramente pretendono di capire qualcosa degli affari della società e, quando non capita che tra essi prevalga lo spirito di fazione, non se ne curano minimamente…» e dei direttori di tali società «… siccome gli amministratori di tali compagnie sono gli amministratori del denaro altrui piuttosto che del loro, non ci si può aspettare che lo sorveglino con la stessa vigilanza che i soci di una società privata spesso dedicano all’amministrazione del loro denaro…». Sembrano concetti scritti oggi. Per favore: economisti e sociologi, deponete le penne e state zitti; parla Adamo, un economista-filosofo vivo e attuale, non un busto nel parco delle rimembranze.