Sono ancora valide le idee – almeno alcune – di Luigi Sturzo? E, semmai, per chi?

La seconda domanda non ha senso, perché potrebbe essere assorbita nella prima, secondo un processo logico inoppugnabile. Infatti, se le idee di Sturzo sono ancora valide, dovrebbero esserlo per “tutti”. Ma in politica “tutti” non è parola con significato reale. “Tutti” implicherebbe un idem sentire, anzi un idem iudicare di tutta una collettività, che in politica è utopia. “Tutti” implica il riconoscimento e la difesa di un bene comune, fine verso cui si sviluppa la convergenza. Può darsi che vi siano nella storia momenti in cui una convergenza si verifica, ma, semmai, sono rari e straordinari, dominati dalla paura di un evento incombente, che mette a tacere ogni divergenza. Ma, fuori da questi casi, gli egoismi e lo spirito di parte dominano la vita dei popoli. Si potrebbe dire, contro Aristotele (Politica, I, 1253a) che definiva l’uomo un essere naturalmente socievole, che lo stato di anarchia è lo status naturale, perché l’uomo è figlio di Caino, o, se più piace altra paternità: di Romolo. Ma l’anarchia non conduce a nulla e l’uomo, nella razionalità del suo egoismo naturale che, per dirla con Thomas Hobbes, fa di lui homo homini lupus [L’uomo è un lupo per l’altro uomo], secondo il detto di Plauto, superabile solo con il Leviatano, alla fine sceglie il gregge, anzi “un gregge”, quello che gli dà maggior garanzia di soddisfare i suoi propri interessi e soprattutto la vita. È, questa, una visione senz’altro pessimistica, ma, se così non fosse, non si spiegherebbero nella storia: i monarchi, i dittatori, i duci politici e/o militari e l’invenzione dei partiti e della democrazia. La democrazia dovrebbe essere una evoluzione dei sistemi di convivenza civile, secondo regole che assicurino il miglior governo degli interessi comuni, quindi di “tutti”. Per raggiungere questo risultato occorrono regole ben precise, affinché, dopo dialettiche anche vivaci, la maggioranza e la minoranza, cioè i favorevoli e i contrari, trovino le scelte migliori. È, o dovrebbe essere, un processo di affinamento e di selezione per il raggiungimento del bene comune, però con azioni che abbiano come substrato imprescindibile la libertà, che in assoluto non esiste e non deve esistere, perché equivarrebbe ad affermare il diritto di fare esclusivamente i propri comodi, senza cura per i diritti altrui. Il diritto romano affermò una triade di perenne validità: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere [vivere onestamente, non danneggiare gli altri, dare a ciascuno il suo], che, però, è più una formula di etica che di carattere normativo. L’ipostatizzazione del concetto di libertà genera l’anarchia, perché prescinde dal diritto e dal perseguimento del bene comune, che è superiore, comunque non alternativo alla libertà. Cosicché, ragionando con senso della realtà, la libertà finisce per dover fare i conti con la giustizia, ma di una giustizia definita dalle leggi e non dal buon cuore dei singoli. Si riaffaccia la distinzione di Giovanni Gentile tra inter homines e in interiore homine [società non tra uomini, ma nell’interiorità di ogni uomo]. Gentile scelse quest’ultima, ma è percorso sterile, perché porta a una separazione tra ciò che è interiorità dell’uomo e sviluppo concreto della vita sociale, in cui la libertà può svilupparsi per il raggiungimento dialettico del bene di una comunità.  Ma non soddisfa nemmeno il concetto di Rousseau, che la libertà è il rispetto delle leggi che ci siamo date (Contratto sociale, cap. VIII), che alla fine si riduce a un circolo vizioso, a una tautologia e alla giustificazione di qualsiasi legge ancorché ingiusta. Ora, definire la libertà è impresa ardua e bisogna rassegnarsi a rinunciarvi per affermare che non la libertà esiste, ma esistono una pluralità di libertà e la democrazia è o dovrebbe essere proprio quel regime che ne garantisce il maggior numero, contro chiunque, compreso lo stato.

Ora, se noi poniamo una catena formata da: giustizia, libertà, bene comune e democrazia e diamo un senso di sequenza di causa-effetto e non di circolarità, che rischierebbe di vanificare il tutto, possiamo alla fine chiederci come, in estrema sintesi, Luigi Sturzo intese questo processo.

Stiamo parlando di un uomo politico che ebbe lunga vita e intenso agire. Era figlio del Risorgimento e non poteva non esserlo per motivi anagrafici e di conseguenza culturali, perché ognuno è almeno in parte uomo del proprio tempo. Non bisogna identificare il Risorgimento solo con i Cavour, i Garibaldi e i Mazzini, come intende il senso comune. Ci stavano anche i Gioberti, i Cattaneo, i Luzzatti, la Chiesa del non expedit e anche la Sicilia di Caltagirone e del Gattopardo. In questo crogiuolo di idee spesso antitetiche, ma ancora civili, Luigi Sturzo fondò i suoi riferimenti, le sue reazioni, il senso della comunità e una capacità di pensare il futuro, che portano sino ai nostri giorni.

Il tratto caratteristico del suo pensiero nell’evoluzione dell’età matura è l’antistatalismo: afferma nel 1954 in un famoso discorso in Senato “…sarebbe grave colpa continuare a seguire la spinta di coloro che, sopprimendo il rischio, vogliono trasformare la responsabilità economica (che è efficiente) in responsabilità politica (che non funziona quasi mai). Non si può sopprimere il rischio da nessun settore della vita umana. Dio stesso volle darci la libertà, con il rischio di farci prendere la via sbagliata invece della giusta” e nel 1955: “Quel che preoccupa… è l’esagerato interventismo statale… fino a creare un capitalismo statale di partecipazioni dirette e indirette alle aziende produttive”. Sembra di leggere un famoso “ricordo” sul duca di Ferrara di Francesco Guicciardini, che a metà Cinquecento non poteva certo essere tacciato di liberalismo oppure statalismo.

Sturzo intuì soprattutto lo stretto legame tra libertà e responsabilità, che è biunivoco: non si è liberi se non si è responsabili e non si è responsabili se non si è liberi. Biunivoco non vuol dire circolare, che si ridurrebbe a tautologia, ma a spirale che si allarga a mano a mano che i valori dei componenti si incrementano. La storia insegna che la libertà non è manna dal cielo, ma è sofferta conquista di ogni giorno, è continua lotta combattuta con l’arma della responsabilità, che, a sua volta, trova alimento nella volontà di compimento del proprio dovere. Non c’è bisogno di richiamare la sfruttata parabola dei talenti e ancor meno il romantico motto mazziniano. Basta il senso pragmatico e forse anche egoistico del pagamento di un prezzo (compimento di un dovere) per acquistare un bene (la libertà). La libertà è come il pane: va prodotto e consumato fresco ogni giorno, perché, dopo, ammuffisce e va gettato. La responsabilità è la consapevolezza di questa necessità.

Questa digressione pare prescindere dal substrato morale della libertà e della responsabilità, ma non è così: è solo un concetto minimale, come a dire che vale la pena di perseguire la libertà di per sé, perché è conveniente. E questo significato della libertà è tipico della libertà economica. L’aspetto morale è in re ipsa o, più concretamente, è già racchiuso nei tre ricordati principi del diritto romano. L’imprenditore che, a prescindere da norme di legge, inesistenti o prive di validità, svuota serbatoi di cromo nel fiume non compie un atto di libertà, perché viola il principio dell’alterum non laedere. Il debitore che non paga i debiti e chiunque conculca il diritto altrui violano il principio del suum cuique tribuere. L’imprenditore che gioca d’azzardo varcando i limiti del prudente rischio non si comporta in coerenza con l’honeste vivere. Sono principi che non abbisognano di invocazioni all’etica, di cui oggi va di moda sciacquarsi la bocca, salvo calpestarli senza avvertire l’incoerenza.

A ben vedere la violazione di questi tre principi si ritorce sull’autore, perché, comportandosi senza senso di responsabilità, incappa nella perdita della libertà.

Ora, non si vuol sostenere che il rapporto tra responsabilità e libertà qui delineato in termini così minimali fosse il concetto di Luigi Sturzo. Sarebbe far torto alla sua moralità, alla sua filosofia e, essendo un prete, alla sua teologia. Però, quando nei due passi riportati metteva in guardia contro i pericoli dell’interventismo statale, non poteva non temere che la partitocrazia si sarebbe impossessata della borsa (aerarium), allentandone i cordoni con soluzioni negative. Ma, si noti, Sturzo lanciava i suoi moniti a metà degli anni Cinquanta, dopo averne vissuti trentaquattro da esiliato, almeno venti dei quali osservando lo statalismo del regime fascista. Temeva il ripetersi dell’interventismo statale, nascosto nei gangli della stessa democrazia. Era stato lungimirante!

Quando Sturzo lanciava questi ammonimenti lo statalismo era ben lontano dal dilagare, come avvenne negli anni successivi e si può riconoscere che egli aveva ragione, perché la saggezza non ha età. Era stato buon profeta e si è poi constatato che fine han fatto le aziende statali e quelle private foraggiate con denaro pubblico. Ma il nostro Prometeo (colui che vede in anticipo), che oggi molti definirebbero con supponenza e superficialità un “liberale”, non venne ascoltato, come sempre accade con le persone sagge, che più lanciano mementi fondati e meno sono sopportati, perché la verità fa male a chi vuol anteporre il proprio interesse a quello della libertà o a quello dell’onestà.  Certo gli scritti, le azioni, le opere di uomini anche grandi scontano il logorio del tempo. Ma gli anelli della catena prima illustrata, presenti nel loro pensiero e nella loro coerente azione, generano sintesi che riescono a varcare i confini del tempo e a non essere ridotti a mummificarsi in un parco delle rimembranze.

Allora, la seconda delle domande iniziali poste nell’incipit di questa nota è assorbita nella prima, perché Sturzo non avrebbe probabilmente eletto suoi eredi tanti cattolici che lo citano senza conoscerlo. Avrebbe eletto eredi tutti gli italiani di buona volontà. Semmai dobbiamo chiederci se ne esistono ancora in un’epoca in cui tanti valori fondamentali sono offuscati o dimenticati e mentre continuiamo nello sterile gioco delle distinzioni tra destra e sinistra, eredità della divisione dei posti a sedere nell’Assemblea nazionale francese nel 1789, il mondo tecnologico avanza in una corsa accelerata, che rende ancora più incomprensibile l’atteggiamento di molti politici che vivono nel passato, ma dimenticando gli uomini del passato, che meriterebbero di vivere anche nel presente.